di Lanfranco Binni
In Italia le elezioni amministrative del 5 e 19 giugno, in Francia la mobilitazione operaia e studentesca contro le politiche liberiste del governo socialista, in Gran Bretagna il referendum del 23 giugno, in Spagna le elezioni politiche del 26 giugno: venti giorni che hanno cambiato profondamente lo scenario politico, sociale e culturale dell’Europa. In Italia, la disfatta della lobby del Partito democratico con tutte le sue ruote di scorta (da una pretesa sinistra interna al malaffare verdiniano, ai media arruolati con ruoli di propaganda e disinformazione) e dei modesti conati di Sinistra italiana, la sconfitta e dispersione della destra berlusconiana e leghista, e l’«imprevedibile» forte affermazione del Movimento 5 Stelle, non solo in grandi città simboliche come Roma e Torino. In Gran Bretagna, la decisione di un elettorato maggioritario, espressione in gran parte di ceti popolari, di dissociarsi dall’Unione europea a egemonia tedesca, per recuperare una pretesa sovranità. In Spagna, la paralisi del sistema politico tradizionale che ha coinvolto lo stesso tentativo di «assalto al cielo» dell’alleanza Podemos-Izquierda unida. In tutte queste situazioni, a crollare o a entrare in crisi sono i sistemi politici subalterni ai poteri finanziari, mentre avanzano, con esiti dirompenti, l’astensionismo e movimenti e forze politiche che sono espressione di vasti settori popolari e di ceto medio impoveriti dalla crisi economica, vessati dalle politiche europee di austerità e da oligarchie al potere sempre più isolate.
Crollano i sistemi politici, ma le risposte del potere sono ovunque le stesse: l’arroccamento, le minacce, i ricatti, le negoziazioni di potere. Così come l’Unione europea ha stroncato, per ora, la resistenza dei greci, nello stesso modo oggi minaccia vendette contro l’elettorato inglese, denigrandolo, sollecitando conflitti tra generazioni (giovani contro vecchi, innovazione contro conservazione: una linea generale dell’ideologia liberista, applicata anche in Italia dal «giovane» politicante di Rignano sull’Arno), giocando sulla paura dei «consumatori» e dei «risparmiatori» mentre i poteri finanziari continuano a devastare liberamente le economie nazionali, speculando sulle crisi. Ma nuova rispetto al recente passato è la reazione a questo scenario: alla subalternità e all’assuefazione dei «sudditi» si va sostituendo, con caratteri certo diversi nelle varie situazioni nazionali, l’attacco dal basso alle oligarchie economiche, politiche e culturali, al centralismo autoritario dell’Unione europea.
Nel voto amministrativo italiano prevale ancora l’aspetto principale della crisi del sistema politico, ma sul voto di «protesta» (termine comunque nobile e necessario in un paese storicamente educato alla servitù volontaria) si sono innestati elementi ed esperienze di «altra politica», di alternativa progettuale e di metodo alla crisi di una democrazia «rappresentativa» che rappresenta soltanto gli interessi di un capitalismo finanziario debole e storicamente straccione: è questa la prospettiva di una democrazia «diretta» centrata sulla partecipazione consapevole dei cittadini alla gestione socializzata dei beni comuni, e la scelta di questo terreno di lotta ha caratterizzato negli ultimi anni numerose esperienze di autorganizzazione (dai No Tav al municipio «ribelle» di Napoli) e la maturazione di esperienze di governo «dal basso» sviluppate dal M5S e oggi sempre più inserite in strategie di respiro nazionale. Chi parla di «populismo» a proposito di queste esperienze e di questa concezione della politica è semplicemente subalterno all’anti-politica esercitata dai gruppi di potere in odio alla democrazia. E dimentica, o finge di dimenticare, che le politiche populiste sono sempre appannaggio del potere, non di chi è costretto a subirlo. Una politica «altra» che consideri beni comuni principali le soggettività autonome dei cittadini e si ponga l’obiettivo di svilupparne le potenzialità è esattamente il contrario del populismo, sempre dall’alto e corruttivo. In Italia è populista il governo delle mance e dei bonus, delle affabulazioni ingannevoli. Quando un «popolo» si ribella a bande di potere che ne stanno devastando l’esistenza, non di populismo si tratta ma di percorsi di liberazione.
L’accusa di populismo colpisce naturalmente anche l’elettorato inglese che ha osato dire no all’Unione europea, rivendicando la propria autonomia economica e politica, e precedendo la crisi prevedibile (questa sì) della sedicente Unione europea. La patria del costituzionalismo moderno, la «perfida Albione» della propaganda fascista, è la Gran Bretagna che ha resistito eroicamente ai bombardamenti tedeschi e ha sconfitto il nazismo in Europa, è la Gran Bretagna dei duri conflitti sociali e di un sindacalismo combattivo fino agli anni ottanta: i «vecchi» che hanno detto no all’Unione europea sono portatori di questa memoria e di queste esperienze, di grande valore rispetto ai disvalori del liberismo e all’acculturazione delle giovani generazioni addestrate dalle sirene del mercato e di un consumismo di sopravvivenza. Su quegli elettori («vecchi», operai, contadini, artigiani, piccoli commercianti, piccoli borghesi impoveriti, «provinciali») hanno certamente agito anche le politiche della paura e dell’insicurezza (l’invasione dei migranti che «ci portano via il lavoro») agitate da organizzazioni xenofobe, razziste e nazionalistiche, ma la responsabilità di questi sentimenti sociali è tutta di un potere politico che, in Gran Bretagna come in Francia, come in Italia, considera le aree di povertà ed esclusione una discarica sociale in cui scaricare conflitti e tensioni, alimentando guerre tra poveri e divisioni culturali. Il no inglese all’Unione europea è anche un no al potere politico inglese, conservatore e laburista.
Conviene però cercare di contestualizzare questo processo in corso in Gran Bretagna nella situazione geopolitica del mondo. La rottura con l’Unione europea incide direttamente sull’assetto politico dell’Unione, indebolendone la forza contrattuale nei confronti degli Stati Uniti, della Russia e della Cina. Nell’Unione più debole si rafforza la posizione di comando della Germania, alla testa di partner conflittuali (i paesi del Nord) o compiacenti ma con difficoltà interne crescenti (Francia, Italia, Spagna). La politica estera dell’Unione, aggressiva a est, contro la Russia, subirà un ridimensionamento, mentre la politica economica di espansione sui mercati orientali e africani sarà ostacolata dal fronte comune Cina-Russia; mentre a seguito del Brexit le borse europee e statunitensi hanno registrato tempeste (ma la speculazione finanziaria non perde mai nessuna occasione e continua a guadagnare sulle crisi), la borsa di Shanghai ha registrato un lieve decremento, ancorata com’è all’economia reale dello sviluppo sostenibile in Cina e della penetrazione sistematica nel continente africano.
Cambia dunque lo scenario geopolitico: si indebolisce la cintura militare stretta dalla Nato (di cui naturalmente la Gran Bretagna continua a far parte) intorno alla Russia, con Ucraina, Polonia e gli altri paesi «europeisti» dell’ex Unione Sovietica in prima linea; può ridursi l’interventismo militare della Gran Bretagna in altre aree, a fronte di nuovi impegni economici di un necessario consolidamento dell’economia nazionale; in Europa, l’egemonia tedesca sull’Unione dovrà affrontare spinte centrifughe anti-Unione in altri paesi del Nord, a cominciare dall’Olanda, per proseguire con la Francia (le elezioni presidenziali nel 2017) e con i paesi del Sud Europa. Fanno parte dello scenario geopolitico i rifugiati in fuga dalle guerre provocate dall’Occidente nel vicino e medio Oriente e i flussi migratori di popolazioni in fuga dalla povertà e dalla desertificazione dell’Africa subsahariana: processi inarrestabili ai quali l’Unione europea non ha saputo dare risposte su scala continentale. E naturalmente ne fa parte il terrorismo eterodiretto dell’Isis e affiliati: sconfitto militarmente in Siria e Iraq, debolissimo in Libia, può colpire – come minaccia nei suoi comunicati – nelle metropoli occidentali, al servizio di molte bandiere, e non è certo il mercenario Al Baghdadi a decidere dove e quando.
Tornando all’Unione europea: Germania, Francia e Italia (si è liberato un posto a tavola) fanno la voce grossa contro la Gran Bretagna (la seconda economia europea) e lanciano proclami di riforma dell’Unione: tutto quello che l’Unione non ha saputo né voluto fare (la «crescita» economica, gli investimenti pubblici, nuove politiche sociali, la soluzione del problema dei rifugiati e dei migranti) dovrà essere realizzato nei prossimi sei mesi. Non dicono che ad andare in crisi è l’intera catena di comando, il suo modello piramidale con al vertice il governo della «commissione europea» al servizio del sistema finanziario (e la competizione tra i vari sistemi finanziari, «europeo» a guida tedesca, inglese, statunitense, cinese, ecc. si farà sempre più dura). Quel modello piramidale di governo dall’alto ha esasperato le urgenze del capitalismo finanziario, le sue strategie di rapina, presentate come ordine naturale del mondo, l’unico mondo possibile.
È la solita vecchia Storia, che gronda sangue. Al centro, la questione del potere. È questo il tema. Tutto il resto (l’economia, le ideologie, le culture) ne sono corollari, applicazioni. Il potere politico dell’Unione europea e dei suoi Stati disuniti si fonda sull’esautoramento delle sovranità nazionali (di cui restano comunque forti le tradizioni, le culture e le necessità) e sull’attacco sistematico alle autonomie locali che sono la base della piramide europea e degli Stati nazionali (ne parla diffusamente Marcello Rossi nel numero di luglio de Il Ponte). Quanto sta accadendo in Italia è da manuale: si indebita e si precarizza l’intera società, si toglie ai Comuni la possibilità di svolgere le loro funzioni, si attacca la Costituzione per trasformare la democrazia formale in autocrazia reale, si svende il paese alle lobbies della finanza internazionale. Ma se questo è il quadro, e lo è, i termini del conflitto sono chiari: senza mediazioni illusorie con un sistema politico che sta implodendo, è il momento dell’attacco dal basso per approfondire la crisi del sistema, disgregandone le catene di comando, sviluppando una nuova socialità che crei e organizzi «società di tutti», progettando visioni generali su tutti i terreni: dall’economia alle culture, dall’amministrazione pubblica all’autorganizzazione dei territori. Queste idee sono presenti e diffuse nella società italiana, in un paese di grandi tradizioni di lotta politica e sociale, nonostante tutte le restaurazioni e rimozioni; il problema non più rinviabile e la connessione tra idee e opinioni è la vera realtà delle popolazioni escluse dalla «politica», che sopravvivono nelle periferie e nelle discariche di una «società» di pochi contro i molti. Aldo Capitini diceva «potere di tutti», «omnicrazia», per aprire la visione di una «realtà liberata» dal potere di pochi: un potere fondato sull’autonomia dei singoli, liberamente confederati (e questo vale anche per gli Stati). Su questo terreno, che è pratico e concreto, anche le questioni generali, come la sorte del continente europeo, trovano la loro giusta soluzione: un’Europa costruita dal basso, con la consapevole e attiva partecipazione degli europei (nativi e immigrati), potrà far vivere quella sapiente utopia degli Stati Uniti d’Europa, processo federativo fondato sulle autonomie locali e sulla centralità di tutti i cittadini, che pensarono e tentarono invano di promuovere i veri riformatori della Resistenza al fascismo e al nazismo.