In ogni competizione elettorale sono gli elettorati a lanciare i messaggi fondamentali, tanto più significativi in un sistema politico in crisi di rappresentanza. Più dei risultati (voti ed eletti) contano le modalità dei processi che hanno prodotto gli esiti. Le analisi dei risultati e dei flussi elettorali, quando non sono deformate da letture comunicazionali di partito, fotografano aspetti parziali e superficiali di fenomeni complessi e profondi, a più dimensioni. In genere, nei sistemi politici rappresentativi, il dato numerico di chi non ha partecipato alle elezioni è ritenuto marginale e ininfluente rispetto alla “concretezza” dei numeri: chi ha vinto e chi ha perso. Il non voto ha sempre molte ragioni, dall’estraneità a una certa politica alla non collaborazione con i riti truccati di una democrazia formale, al dissenso attivo nei confronti del sistema politico o di forze politiche magari votate in passato e di cui non si condividono le scelte e i comportamenti attuali. In Italia, alle elezioni europee del 26 maggio non ha votato il 43,7% degli aventi diritto. L’astensionismo è in crescita. Non hanno votato 21 milioni e mezzo di cittadini, e rispetto al 100% degli aventi diritto il 33% della Lega corrisponde a un reale 19%; il Pd renziano alle elezioni europee del 2014 aveva ottenuto il 23,3% dei voti degli aventi diritto.
L’astensionismo, con punte del 60% in Sicilia e Sardegna, ha colpito soprattutto una delle due forze di governo, il M5S; l’analisi del voto ha rilevato flussi in uscita dal M5S in minima parte verso il Pd, nella sua componente di destra verso la Lega, ma soprattutto verso l’astensionismo: un chiaro no al M5S di governo, confusamente politicista e subalterno alle iniziative di propaganda della Lega, prigioniero di una non linea insostenibile «né di destra né di sinistra», con un elettorato la cui componente di sinistra (ambientalismo, diritti sociali, democrazia diretta, altra economia, antiatlantismo) nelle elezioni politiche del 2018 aveva coinvolto quasi il 50% dei suoi elettori.
Chi, a sinistra, ha votato il M5S nel 2018 lo ha fatto per spingere al governo una prospettiva di radicale trasformazione, dal basso, di un sistema politico irriformabile e di un sistema economico in crisi terminale (in Italia, in Europa, nel pianeta), investendo su una forza politica contraddittoria per limiti di visione politica ma suscettibile di radicalizzarsi in un’esperienza di governo strettamente collegata con i movimenti sociali (No Tav, No Tap, sindacalismo di base, ecc.). L’esperienza del governo gialloverde non è andata, per il M5S, in questa direzione: il governo si è rivelato una trappola devastante, nonostante la forza maggioritaria in parlamento e nel Consiglio dei ministri.
Come è noto, i risultati delle elezioni europee hanno prodotto un rovesciamento dei rapporti di forza tra M5S e Lega. Ma su questo dato indiscutibile dobbiamo ragionare meglio, ignorando le versioni dei media e delle forze politiche che hanno “vinto”. Ha sicuramente vinto la Lega con la sua propaganda muscolare, di sicuro effetto sui bisogni di protezione di un ceto medio e popolare impoverito e abbandonato dalle élites (si fa per dire) alla discarica sociale dei vuoti a perdere; ma non basterà la propaganda della paura a rispondere ai bisogni reali del suo composito elettorato su scala nazionale e i bombardamenti economici dei prossimi mesi produrranno effetti devastanti e reazioni vendicative. Ha apparentemente vinto il centrodestra nel suo insieme (Lega, Fd’I e Forza Italia), ma si tratta di un “insieme” conflittuale di gruppi di potere contrapposti impegnati a cannibalizzarsi; non basterà la sottocultura di destra, fascistoide e razzista, berlusconiana e neoliberista, a gestire e controllare le disuguaglianze sociali. Condoglianze, sappiamo come funzionano gli “italiani” in questi casi. Non ha certo vinto il Pd, nonostante la fisiologica tenuta di consolidate reti di potere in alcune amministrazioni locali e il soccorso di voti dalla sua sinistra di sistema (LeU e dintorni), mentre la componente liberale di Calenda già prefigura un’iniziativa autonoma dal condominio Zingaretti-Renzi.
A distanza di pochi giorni dalle elezioni sono già evidenti e rafforzate le tendenze alla disgregazione ulteriore di un sistema politico bloccato: i nuovi rapporti di forza tra Lega e M5S registrati dai risultati elettorali confliggono con l’assetto parlamentare determinato dalle elezioni politiche del 2018 e la vittoria “europea” della Lega deve misurare le distanze tra la trionfalistica propaganda salviniana, la durezza delle dinamiche parlamentari e l’incombere di una situazione economica minacciosa che esige risposte urgenti alle populistiche promesse elettorali: meno tasse per tutti, crescita e sviluppo, prima gli italiani, dio patria e famiglia.
Nel frullatore della politica mediatica, tutta virtuale e priva di strategie, c’è tutto e il contrario di tutto, in un’orgia disgustosa di astrazioni ideologiche per tutte le tasche (il tabù del capitalismo, la demofobia, il disprezzo del popolo “populista”, il nazionalismo identitario). Sulla scena della politica rappresentata continua a essere centrale la competizione conflittuale tra le due forze di governo, e resta marginale, nonostante i proclami, l’“opposizione” di destra e di una ex sinistra che si è fatta destra. In questo scenario, a fronte di una robusta ma confusa spinta a destra di un’opinione pubblica che cerca protezione sociale, in un paese demograficamente sempre più vecchio e culturalmente sempre più disarmato, le questioni centrali sono due: la situazione del M5S nel governo, in parlamento e nella società, e l’Italia “altra” e diversa che solo parzialmente si riconosce nelle rappresentanze politiche del sistema in crisi o non vi si riconosce affatto e, soprattutto, è consapevolmente attiva, a sinistra, nelle reti sociali in formazione in ogni settore della società, dalla scuola al mondo del lavoro, sui terreni dei diritti sociali e della sperimentazione di nuove pratiche di autorganizzazione e autonomia consapevoli dei limiti dello “sviluppo” capitalistico e della necessità urgente di creare e organizzare nuove socialità, dal basso, per rifondare la democrazia in una non società fondata sulle disuguaglianze sociali e sulle libere rapine dei gruppi di potere oligarchici al servizio della finanza internazionale, l’ultima spiaggia (devastazioni, guerre e affini) del modo di produzione capitalistico.
“Destra” e “sinistra” sono categorie storiche, e tali devono essere sempre considerate. In tutto il mondo la destra è la storia della destra, liberal-proprietaria e antisocialista, monarchica e fascista, nazionalista e ultraliberista; se la conosci la riconosci. La destra italiana, nella sua configurazione attuale, si caratterizza per eccessi anticulturali (l’ignoranza è una virtù, razzismo e xenofobia, servilismo atlantico) e populistici (il popolo come plebe di manovra, e in questo caso il termine è appropriato), in continuità con le pratiche di potere del fascismo italico. Strepiti e grida, la mistica del capo, la società come campo di predazione, controllo, corruzione e repressione dei sudditi attraverso catene di comando dall’alto verso il basso, contando sulle solerti complicità di un esercito di burocrati sempre attenti a dove tira il vento.
È una destra pericolosa? Certamente. È la destra della strategia della tensione dalla metà degli anni sessanta, sovversiva e golpista, collusa con la criminalità organizzata, da sempre nemica della Costituzione del 1948, sì, nata dalla Resistenza anche se ancora inattuata nella sua più avanzata progettualità sociale. Questa destra ha “vinto” le elezioni europee con un ministro dell’Interno che si traveste da poliziotto, feroce con i disgraziati, cinico trasformista con un rosario in mano brandito come un’arma a esorcismo dei nemici della civiltà “giudaico-cristiana”, “lazzarone” neo-sanfedista nella caotica età di Trump. È stata votata da un elettorato impaurito ad arte, terrorizzato da un futuro negato, ricattato dalla falsa coscienza di una condizione sociale realmente minacciosa, schierato contro il facile nemico di turno, specchio della propria povertà: l’immigrazione dal sud del mondo, scaricata dalla “politica” di sinistra e di destra nei ghetti delle periferie. Ma nessuna destra potrà liberare l’elettorato della Lega dai suoi incubi, ed è significativo che tra i primi proclami del vincitore, che già si considera “il premier” pigliatutto, faccia bella mostra di sé la sospensione delle regole del codice degli appalti: la mafia e la ndrangheta ringraziano (anche per la difesa leghista del monopolio criminale dello spaccio di cannabis).
Ma chi vota, oggi, questa destra, e in particolare la Lega? Non bastano le empiriche analisi sociologiche ed economicistiche dei nuovi politici televisivi, giornalisti, opinionisti e affini. C’è molto di più profondo che richiede inchieste “sul campo”, condotte faccia a faccia in situazioni concrete: come spiegare che nell’Italia centrale, ma non solo, settori consistenti del tradizionale elettorato Pci votino il partito della Lega? Serve una campagna di inchieste analoghe a quelle condotte negli anni sessanta del Novecento dai «Quaderni rossi» di Raniero Panzieri sulla classe operaia torinese e da Goffredo Fofi sull’immigrazione meridionale a Torino. Senza un lavoro d’inchiesta sui complessi fenomeni sociali, la parola resta alle semplificazioni di una sociologia di mercato a uso giornalistico.
E la “sinistra”? Anche la sinistra è la storia della sinistra, da rileggere senza autocensure, da ricostruire storicamente nei suoi percorsi e nelle sue esperienze, nelle sue componenti socialiste, comuniste e libertarie, nelle sue conquiste e nei suoi fallimenti. «Fare un buon uso delle rovine», raccomandava Franco Fortini, ma anche delle «nostre verità»: il socialismo come visione strategica, il conflitto permanente con gli orrori del capitalismo, l’internazionalismo degli sfruttati. Di questa storia fanno parte anche le involuzioni liberali dei riformismi subalterni ai poteri capitalistici e oggi al capitalismo finanziario globalizzato, con i loro esiti devastanti a cui contrapporre strategie politiche e culturali radicalmente alternative. Qui siamo, e il gramsciano «da dove veniamo, dove andiamo» è di straordinaria necessità.
Il 26 maggio si è votato per il parlamento dell’Unione europea, ma non in Italia. I temi europei (quale Unione europea? quali relazioni tra Stati nazionali e Unione? quali politiche economiche e sociali? quale ruolo geopolitico di un’Unione in crisi?) sono stati assenti in una campagna elettorale essenzialmente centrata sui rapporti di forza tra Lega e M5S, relegando la “questione europea” in un astratto e fuorviante confronto tra «sovranisti» ed «europeisti», termini di propaganda mediatica senza contenuti di realtà. Nei prossimi mesi assisteremo alla disgregazione dell’Unione europea a trazione tedesca e all’inevitabile accentuazione degli interessi nazionali, non necessariamente nazionalistici e “autarchici”. Ed è indubbio che in un quadro di spinte centrifughe e di accordi bilaterali tra Stati europei, e tra Stati europei e grandi potenze (Stati Uniti, Russia e Cina) attivamente impegnate in un duro confronto strategico economico e militare, la questione del ruolo dell’Italia nello scenario internazionale assumerà un rilievo centrale e richiederà visioni e scelte. Su questo terreno non basteranno i balbettii contraddittori dell’attuale governo italiano, grigioverde in politica estera. Il convitato di pietra, interessato a un indebolimento dell’Unione europea, è la Nato; le sue politiche di guerra sul fronte est e sul fronte sud coinvolgono direttamente la sovranità dell’Italia. In politica estera, la posizione della Lega è chiara, anche nei suoi percorsi occulti: atlantismo incondizionato, schieramento con Israele contro i palestinesi, propaganda militarista e mercato di armamenti. Diversa, anche se incerta e dilatoria, la posizione del M5S, inizialmente antiatlantico e pacifista (No Muos, ecc.) e successivamente, una volta al governo, prodigo di rassicurazioni al «nostro principale alleato», gli Stati Uniti, e in silenzio su tante altre questioni lasciando campo libero alla Lega. I prossimi mesi imporranno scelte precise.
Già, che ne sarà del M5S dopo le elezioni “europee” del 26 maggio? Considero salutare la sconfitta di un movimento nato (e per questo votato e spinto al governo in posizione maggioritaria) per rovesciare dal basso un sistema politico in crisi e, nonostante numerose iniziative parlamentari attuate in questa direzione, ricacciato all’interno del sistema in condizioni di subalternità alla strategia leghista. Le cause principali della disfatta? Le analizza dettagliatamente Mario Monforte su questo numero della rivista. Indico quella che secondo me è la principale: aver considerato un governo “di contratto” (imposto dal Pd renziano con cinico attendismo) con un socio di tutt’altra storia, incompatibile con gli interessi e la visione politica di una parte consistente, di sinistra, del proprio elettorato, come unico scenario dell’azione politica. Nella crisi mondiale della democrazia rappresentativa i governi non sono più gli ambiti esclusivi della politica, e gli elettorati esprimono soprattutto movimenti interni alle società: se perdi i rapporti con i movimenti sociali, perdi la loro rappresentanza.
È probabile che l’emorragia del M5S abbia comportato la perdita della sua componente di destra, passata alla Lega, ma sicuramente si sono astenute consistenti componenti di sinistra. Gli elettorati (tutti) lanciano segnali, e sta alla capacità del M5S comprenderli: quale ruolo svolgere nell’area di governo? quali relazioni costruire con i movimenti e la società? quale politica? Il baricentro è in basso e non permette operazioni strumentali e politiciste, tantomeno leaderistiche, mentre richiede pratiche politiche e culturali di «nuova socialità» (così le definì Aldo Capitini, maestro di democrazia diretta per il socialismo), centrate sul protagonismo delle donne e degli uomini, dei giovani e dei vecchi, che votano, non votano, pensano, soffrono e sperimentano relazioni sociali e processi di liberazione. In questa vera realtà vivono gli elettori del 26 maggio che hanno votato M5S per resistere a una disfatta annunciata, o Pd come illusoria ultima spiaggia di una sinistra perduta, o Lega per chiedere protezione dai propri incubi reali e indotti, o le organizzazioni residuali della sinistra-sinistra per disperata impotenza testimoniale. Un uomo è un uomo, una donna è una donna. I valori e le esperienze di una sinistra libertaria, egualitaria e internazionalista, i valori della migliore tradizione del socialismo ottocentesco e novecentesco, da conoscere, studiare, ripensare, sviluppare, siano usati come scuola pubblica di autoformazione e autonomia, a orientare reali pratiche sociali di non collaborazione e lotta, collegando le esperienze di “democrazia a chilometro zero” in reti e movimenti. Il potere è di tutti. Astenersi politicanti e presunti leader mediatici. I gruppi dirigenti di una nuova democrazia nasceranno dal basso, espressione di pratiche realmente democratiche e socialiste. Dunque, avanti a sinistra, dal basso.