di Paolo Bagnoli
Le elezioni sono oramai vicine: un’altra legislatura è trascorsa. Su quella che verrà sembra esserci poca speranza, visto che già si ipotizzano nuove elezioni a giugno, se dal voto dovesse uscire un quadro politico instabile.
La crisi della politica italiana data ormai un quarto di secolo e ancora non se ne vede una plausibile via d’uscita. Il renzismo ha fatto il suo tempo. È naufragato insieme con il Partito democratico e ci ha consegnato un paese in condizioni istituzionali ed economiche più che preoccupanti e alla mercé della demagogia pentastellata. I dati del rapporto Censis, presentato a dicembre, disegnano un quadro allarmante. In un paese in cui la fiducia nella politica non è mai stata particolarmente alta, si registra un ulteriore scadimento: l’84% dei cittadini non nutre fiducia alcuna nei partiti politici e, viene da aggiungere, a ragione, in presenza di soggetti dediti solo a porsi all’attenzione dei media con una vocazione prevalente ad assecondare il governo. Inoltre, ben il 78% non confida neppure nel governo e, al di là delle tanto sbandierate riforme, permane l’ostilità nei confronti della pubblica amministrazione verso la quale il 52% degli italiani non nutre fiducia e, visto come vanno le cose –basti pensare alla sanità – il dato appare anche contenuto. Il sindacato perde pezzi: in un anno le iscrizioni sono calate di ben 180.000 unità. I dati economici non sono poi quelli che si vuole rappresentare, dal momento che il Pil registra un ribasso dello 0,1%.
A ben vedere, come capita spesso in economia, non si capisce come veramente stiano le cose considerato che, per l’Istat, abbiamo un dato di crescita superiore alle stime del governo: l’1,7% a fronte dell’1,5% del governo. In ogni caso, sempre che i dati non cambino, dovremmo avere un avanzo rispetto al deficit preventivato che permetterebbe di affrontare meglio quanto ci è stato obiettato da Bruxelles nell’ultima sua lettera. Tuttavia, non si può non tenere conto di come il continuo richiamo al miglioramento della situazione economica sia dovuto alla congiuntura internazionale che favorisce l’export, trainando la crescita, mentre risulta assai fragile la domanda interna. È chiaro che il carico del debito pubblico grava fortemente su tutto il quadro economico e ciò, inevitabilmente, comporta una ridefinizione del rapporto tra debito e Pil. Ma in un paese come il nostro, in cui vige una pesantissima tassazione anche grazie a una tollerata evasione dalle dimensioni sproporzionate, niente di più facile che i profitti della conclamata crescita vengano impegnati nella riduzione del citato rapporto debito-Pil a scapito della spesa: soprattutto di quella locale, ritenuta, come sempre, improduttiva. È questa un’ipotesi, che ha però un qualche serio fondamento, se si pensa che molto probabilmente in quest’anno i tassi cominceranno a risalire e la Bce cesserà di comprare debito, con la conseguenza che, per le banche, sarà estremamente faticoso detenere titoli pubblici.
La legislatura si chiude, quindi, senza che alcuno dei fattori su cui si fonda una politica democratica degna di questo nome sia avviato a certezze positive per la collettività. Al contrario, crisi politica, crisi economica e crisi sociale si stanno intrecciando sempre più strettamente, logorando in maniera ficcante la relazione tra i cittadini e lo Stato; allargando un pericoloso vuoto tra comunità nazionale e Stato, vuoto nel quale possono inserirsi pulsioni autoritarie tendenti alla democrazia verticale – il fallito referendum a ciò mirava – e a una sempre più accentuata vocazione governista, che prescinde da ogni fondamento morale e che incentiva fenomeni corruttivi e malavitosi sempre più attivi nell’ambito delle politiche pubbliche.
È desolante constatare come, di fronte a tale scenario, il dibattito pubblico sia praticamente sterilizzato e la passione civile – quanto cioè sta alla base di ogni società democratica – venga via via restringendosi; che non ci sia una reazione forte, ma solo tante espressioni che stentano a fare massa critica. A poco a poco, ma con passo costante, avanza un concetto di “pubblico” senza politica perché senza popolo, nel quale l’idea di una vita come mera avventura personale si è sostituita all’idea di società; una leadership, malata di casalingo superomismo, ha permesso lo scandalo della cancellazione dei diritti, venduta alla stregua di un fatto normale.
I vuoti si sommano a falsi pieni. Il dibattito che, giorno dopo giorno, si dipana sotto i nostri occhi resta a un livello di mera superficialità e la cosa investe tutti, compresa la “sinistra”, assorbita da pratiche organizzative che portano a giochi contingenti di sigle, dietro le quali armeggiano ceti politici culturalmente inadeguati e politicamente modesti.
La questione merita qualche considerazione. Qualche settimana fa Massimo Recalcati («la Repubblica», 28 novembre) ha dedicato un articolo alla «malattia cronica della sinistra», cioè alla propensione che questa ha a dividersi. Il tema non è nuovo. Si parte, infatti, dal discorso di Filippo Turati al Congresso di Livorno del 1921 e si finisce a Matteo Renzi il quale «dichiara che il punto di riferimento ideale della sinistra oggi non è più Gramsci, Togliatti o Berlinguer, ma Obama» invitandoci, così, non «a cancellare il passato ma a incorporarlo per guardare avanti». In tutto il ragionamento di Recalcati si perdono le tracce del socialismo. Si ricade nell’identificazione tra la “sinistra” e il Partitico comunista italiano che, scioltosi e trasformatosi prima in Pds, poi in Ds, è finito – almeno quel che restava – nel Pd, ossia in un contenitore di centro che ama guardare a destra. Tuttavia, grazie alla rappresentazione di un’Italia bipolare che avrebbe dovuto contraddistinguere la transizione verso non si sa che cosa, ma che, comunque, avrebbe segnato il passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica, per “sinistra” si è inteso il polo contrapposto a quello di destra incardinato su Silvio Berlusconi. L’antiberlusconismo è stato il collante di una stagione politica contingente, ma non ha certo rappresentato lo sviluppo della sinistra quale deve essere concepita dopo il suicidio e la caduta nell’oblio del Psi e dopo quanto è successo ai comunisti-post-comunisti.
Tramontata la stella Berlusconi, il Pd ha ereditato un antiberlusconismo senza Berlusconi, ma fecondato dalle esperienze dell’Ulivo, prima, e dell’Unione poi. Si è arrivati così a definire di sinistra un soggetto che voleva essere di centrosinistra e che, strada facendo, ha perso le presenze di sinistra faticando, nel contempo, a rimanere un soggetto di centro, tanto che questo Pd con la storia della sinistra non c’entra assolutamente niente. Di conseguenza chi si pone alla sinistra del Pd, o per scissione o per cammino autonomo, non testimonia di una resipiscenza ideologica o di una incomprensione politica, quanto invece di uno sbandamento dovuto a ragioni molteplici che si riassumono in due punti: la liquidazione della categoria “sinistra” e il mancato approdo del postcomunismo al “socialismo”. Su tutto inoltre ha pesato, e continua a pesare, un richiamo, tanto costante quanto insignificante, al “centrosinistra”. Sinceramente, non si capisce che cosa sia questo “centrosinistra” se non un pasticcio pieno di furberie e confusionismi, animato da soggetti che perseguono solamente la propria affermazione. Ognuno fa il proprio gioco in un contesto che abbisognerebbe che la forza maggiore, il Pd, non volesse essere il solo a guidare la danza, secondo l’idea di Renzi che ha scelto il solipsismo politico quale categoria propria del partito da lui guidato. E tuttavia il quadro futuro non dipenderà né dai bonus caritatevoli della legge di stabilità, né dalla Leopolda che si sforza di essere sempre la solita start-up, riuscendoci sempre meno, né dal giusto richiamo al tema del lavoro e alla reintroduzione dell’articolo 18. Stando così le cose, è probabile che sia difficile arrivare a un qualche equilibrio di governo. Ciò che emerge è la comune volontà di Pd e FI di sbarrare la strada al M5S. Eugenio Scalfari, novello Montanelli, ha invitato a turarsi il naso e a scegliere, tra i due mali – Berlusconi e Di Maio – quello minore, vale a dire il primo e si è dimenticato che Berlusconi è stato definitivamente condannato per evasione fiscale e corruzione della giustizia. Forse ha ragione Carlo De Benedetti quando sostiene che Scalfari l’ha fatto «per riconquistare la scena» e per narcisismo senile.
Alla domanda del perché a sinistra non vi sia unità si può rispondere con una constatazione semplice: perché non c’è una sinistra dal momento che sono stati recisi tutti, o quasi, i legami con la storia della sinistra e se non si ricrea culturalmente la categoria “sinistra” non sarà possibile nemmeno sperare in una sua ripresa. La questione non è organizzativa dal momento che una soluzione tecnica non può risolvere un problema politico e purtroppo “l’operazione Pietro Grasso” si colloca in quest’ottica. L’idea stessa di una modernizzazione astratta, basata sulla messa in soffitta del Novecento, tanto cara a Walter Veltroni, non regge. Forse non si possono trovare nel secolo passato le ricette per il presente e per il futuro, ma senza la cognizione del passato il presente non ha senso e il futuro è solo una fumosa speranza, fuori dal concreto della storia, da evocare nei talk show oggi tanto di moda. I secoli passati, tuttavia, continuano a insegnarci che la sinistra e i suoi soggetti si formano e maturano nel conflitto sociale per una società più giusta, più libera e più democratica. I secoli passati ci dicono ancora che solo impostando e guidando la lotta si può credere nella possibilità di un vero cambiamento, senza rifugiarsi in quell’ideologia dell’innovazione tanto cara alla retorica del Pd.
Oggi in Italia la destra o, per meglio dire, le destre sono forti non tanto per le divisioni della sinistra, quanto invece perché la sinistra non c’è, anche se la si invoca di continuo col motivo ritornante del centrosinistra. Portare in campo il frazionismo è banale. Infatti, se questo non ci fosse, potremmo parlare di “sinistra”? In altre parole possiamo dare una realtà identitaria alla sinistra dimenticandoci del socialismo? Di fatto la sinistra è socialismo, ma questo non sembra chiaro al Pd e a tutti coloro che accampano l’idea di un centrosinistra che per le inderogabili leggi del mercato ha messo in soffitta il socialismo e la sua storia.