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Articolo nove

di Angelo Tonnellato

Un “oggetto desueto” – in letteratura e, purtroppo, non solo – lo Statuto dei lavoratori? Desueto certamente, sotto questi chiari di luna, quel Titolo I – Della libertà e dignità del lavoratore – entro cui s’inscrive, e di cui è cardine, l’articolo – il Nove, appunto – che i curatori di questo bellissimo monografico hanno adottato, più che adattato, come titolo d’una robusta e assai densa sinergia di studi, studiosi e studiosi-testimoni: Articolo Nove. Esperienze di medicina del lavoro a Nordest, a cura di Alfiero Boschiero e Gilda Zazzara, che fornisce il cuore al nuovo fascicolo, il primo del 2019, di «Venetica. Rivista di storia contemporanea»[1].

Desueto, in politica, ormai, l’«oggetto»; inconsueta, per una rivista di storia contemporanea, la declinazione di un tema così spinosamente attuale e scabrosamente esposto. Difficile dare conto compiutamente, in uno spazio limitato d’invito alla lettura, di un assai complesso e pregevole insieme di studi in cui si vedono interagire storici, medici, lavoratori ed esponenti di una tradizione alta del sindacalismo Cgil in un’area industriale, sociale e politica altrettanto ricca di chiaroscuri, contraddizioni e – perché no – buchi neri più o meno dissimulati dalla master narrative – spesso condivisa anche da settori non trascurabili della classe operaia e del mondo artigianale – dello sviluppo, della “rimonta”, del “modello veneto” e del “capannonismo”. Una narrazione egemonica che il leghismo e il venetismo hanno implementato e sfruttato, ma che in realtà, in certi suoi nuclei di condensazione, era ben preesistente; e alla quale le stesse forze di sinistra – espertissime da sempre nell’arte di fabbricarsi in proprio le corde a cui farsi impiccare – hanno portato qualche mattone.

Il monografico di «Venetica» che segnalo non si propone come una pacificata storicizzazione – ciò che, tutto sommato, riuscirebbe financo rassicurante per la nostra cattiva coscienza di “postumi a tutto” – del tema al passato remoto, ma fa storia dell’attualità, di ciò che ancora è in corso e da cui non si vede una fuoruscita e meno ancora un’exit strategy di medio e lungo periodo. Basti pensare ai dati Istat, in questi giorni diffusi dalla stampa e dilagati nei social network dell’informazione, su infortuni e morti per causa e nei luoghi di lavoro: più di settecento decessi nei primi dieci mesi dell’anno; 416.894 denunce d’infortunio dal 1° gennaio al 31 agosto. Di questa seconda – e non perciò meno tragica – vera e propria campagna di guerra il Nordest detiene il non invidiabile primato delle circa 133.000 denunce d’infortunio finora accumulate. I dati Istat non ricomprendono le malattie professionali, le morbilità da esposizione a sostanze nocive, e loro esiti troppo spesso purtroppo fatali, a cui invece dedica, meritatamente, grande attenzione l’opera coordinata da Alfio Boschiero e Gilda Zazzara: un protagonista, il primo, del sindacalismo veneto e studioso di problemi del lavoro; una già esperta studiosa di storia del lavoro, la seconda, proveniente, dal punto di vista della formazione e di impegnative prove d’indagine, dalla storia della storiografia e da non poco dedita a ricerche che ne fanno una delle più esperte conoscitrici del case-study che l’industrializzazione di Marghera ormai da almeno un secolo rappresenta. Un bel tandem, con alle spalle ovviamente altre esperienze, altri tramiti e protagonisti della storia veneta del lavoro e dell’impegno politico-culturale e sindacale di cui non si può qui dare compiutamente conto[2].

Articoli e interviste di medici militanti si intrecciano a esperienze e lotte sindacali; testimonianze di lavoratori dal di dentro di storie industriali che hanno sconvolto territori, ecosistemi, vite di operai e di loro familiari. Qui si parla del Veneto, con una estensione anche alla «Slavia friulana»; d’un Veneto ch’è il caso di studio su cui si fa il punto, ma senza esclusivismi o rimpicciolimenti prospettici. Vale la pena di leggere non per indignarsi, ma per ribadire e ritrovare ed eventualmente aggiornare e rafforzare un impegno e difendere un principio di consapevolezza, coinvolgimento e controllo per quello che già Giuseppe Branca – con riferimento all’art. 9 Statuto dei lavoratori, frangiflutti e simbolo al tempo stesso del diritto alla salute nei luoghi di lavoro e purtroppo anche intorno ai luoghi di lavoro – aveva definito «un diritto collettivo»[3]. Un diritto che è un diritto-quadro, perché viene da lontano – in quanto costruzione di consapevolezza sociale elitaria, addirittura dai primi decenni dell’Ottocento, dalle micidiali condizioni di lavoro e di vita delle donne e degli uomini che lavoravano nelle risaie e vivevano nei villaggi malsani ai bordi del mondo della risicoltura – e che oggi si tende a dimidiare, alternativamente, tra «partecipazione o controllo»[4]: partecipazione e controllo è ancora l’unica risposta possibile.

Scrive Boschiero che nei primi anni settanta, in difesa della salute e della sicurezza, sono gli operai a trascinare il sindacato, a smuoverlo dal torpore delle infinite mediazioni e monetizzazioni. Nello specifico del Petrolchimico, al quale da un decennio dedica studi importanti[5], Zazzara osserva che la lunga consuetudine di ricerca e la diretta conoscenza di molti dei protagonisti delle lotte degli anni settanta del Novecento non le sono bastati a esplorare a fondo – ossia ad attingere la struttura pienamente storicizzante – di certi contrasti: «più mi ci addentravo, più mi scontravo con memorie contrapposte e ancora infuocate»; e che anche quando la fabbrica «era cambiata» – anzi «quasi non esisteva più», perché «era stata smontata, svenduta e dismessa a pezzi» – «le memorie restavano sospese e irreconciliate, fuori dal tempo, in una sorta di attesa armata»: «su quello che era venuto dopo i gloriosi anni Settanta si aprivano voragini».

Quelle voragini si sono aperte a Marghera come altrove; c’entrano in qualche misura gli esiti del post-moderno delle “grandi” dismissioni e deindustrializzazioni, certamente; ma anche una deformazione prospettica costata cara sia alla sinistra che al sindacato, un deficit di cultura, il riflesso condizionato anzi di una cultura quasi esclusivamente politicistico-mediatrice rivelatasi autarchicamente insufficiente e sfasata sul piano dell’analisi di quel sistema di relazioni che comunque una fabbrica – uso il termine in senso lato – realizza (in proprio, e più o meno coattivamente) o conduce a realizzare (proprio da parte dei lavoratori, certo non tutti, nel loro ambito). E in cui il sistema di relazioni tra lavoratori non è meno operante dell’altro nel permettere alle fabbriche di funzionare; e, in Veneto, al “modello” veneto di emergere e consolidarsi, soprattutto in quanto ambito di valorizzazione delle culture e solidarietà di mestiere, le élites funzionali e funzionanti che non si contrapponevano più all’organizzazione del lavoro ma con essa interagivano: insomma il fenomeno degli elettori della Lega con la tessera della Cgil in tasca[6], tanto per rendere qui io, grossolanamente ma spero non infondatamente, l’entità e la magnitudine dei processi svoltisi nel trentennio a cavallo dei due secoli. Anche sotto questo profilo occorrerà capire se quel processo di destrutturazione abbia un rapporto – e quale – con la ventata di insicurezza e nocività dei luoghi di lavoro.

 

[1] Articolo Nove. Esperienze di medicina del lavoro a Nordest, a cura di Alfiero Boschiero e Gilda Zazzara, monografico di «Venetica. Rivista di storia contemporanea» [Edizioni Cierre, Sommacampagna (Vr)], XXXIII (2019), n. 1, di cui ci sembra non solo giusto ma doveroso indicare i contributi: Boschiero e Zazzara, Articolo Nove; Francesco Carnevale, Dalla “strage di classe” alla lotta degli operai e di una nuova generazione di tecnici contro la nocività in fabbrica; Gian Giacomo Tessari , La polineurite da collanti nel distretto calzaturiero di Montebelluna; Mario Secolo, La salute dei lavoratori nella metalmeccanica coneglianese; Luciano Marchiori, La nascita del servizio di medicina del lavoro a Verona; Giovanni Della Mora , I primi test di funzionalità respiratoria sui lavoratori di Venezia e Porto Marghera; Guglielmo Pitzalis, Dalla silicosi degli ex minatori all’asma dei verniciatori: storie di medicina sociale nella Slavia friulana; Beppino Colle, L’esperienza del Centro di medicina preventiva dell’età lavorativa di Udine; Enzo Merler, Dal lago di Garda alla miniera australiana di Wittenoom, al Veneto: storie di ammalati a causa dell’amianto; Morena Pavan, Un medico di base tra i veleni della Mira Lanza. Intervista a Paolo Revoltella; Dall’obiezione di coscienza alla medicina del lavoro. Intervista a Franco Rigosi di Gilda Zazzara; Il diavolo fa le pentole, il sindacato i coperchi. Intervista a Angelo Tettamanti di Gilda Zazzara; Alfiero Boschiero, «La salute»: una rivista sindacale, una stagione politica.

[2] A. Casellato, G. Zazzara, «Lavoro e culture sindacali nel Veneto», in L’Italia e le sue regioni. L’età repubblicana, dir. da M. Salvati, L. Sciolla, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2015, pp. 53-71.

[3] G. Branca, Le «rappresentanze» per la tutela della salute e della integrità fisica del lavoratore, «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1971, p. 259 ss.

[4] E. Ales, L’art. 9 Statuto dei lavoratori alla luce della legislazione più recente in materia di salute e sicurezza: partecipazione o controllo?, «Rivista italiana di diritto del lavoro», II (2011), p. 57 ss.

[5] G. Zazzara, Il Petrolchimico, Padova, Il Poligrafo, 2009; I cento anni di Porto Marghera (1917-2017), «Italia contemporanea», 2017, n. 284, pp. 209-236.

[6] A. Boschiero, G. Favero, G. Zazzara, Il Nordest prima del Nordest, «Venetica. Rivista di storia contemporanea», XXIV (2010), n. 1, pp. 7-19; e, amplius, Casellato, Zazzara, Veneto agro. Operai e sindacato alla prova del leghismo (1980-2010), Treviso, Ires Veneto-Istresco, 2010.

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