conflitto sirianodi Rino Genovese

In Siria c’è una guerra nella guerra. Mentre scrivo, probabilmente infuria la battaglia intorno al sobborgo di Marea, avamposto verso Aleppo, nel nord del paese ai confini con la Turchia. Ma non si tratta delle truppe lealiste (quelle fedeli al regime di Assad) contro i ribelli dell’Esercito siriano libero nato dalla spaccatura di qualche anno fa, ai tempi delle rivolte nei paesi arabi. Si tratta piuttosto della battaglia di questi stessi insorti contro gli uomini dell’autoproclamato califfo Ibrahim – al secolo Abu Bakr Al-Baghdadi – che, dopo essersi impadroniti di buona parte del nord dell’Iraq, sono ritornati in forze verso ovest, equipaggiati di tutto punto grazie alle moderne armi di fabbricazione americana strappate all’esercito regolare iracheno. Così si forma uno Stato islamico degno del nome, guerreggiando a oriente come a occidente.

Stati Uniti ed Europa (nonostante il parere di qualcuno, come il presidente francese Hollande) hanno fatto benissimo a tenersi finora fuori dal conflitto siriano. Con la sua trasformazione in una guerra civile di lunga durata – addirittura con tre contendenti, non due – la rivolta contro Assad è stata politicamente sconfitta sul campo, e oggi un macellaio come il dittatore siriano è oggettivamente l’unico rappresentante politico con qualche credibilità all’interno di questa guerra di tutti contro tutti. Altri elementi di relativa stabilità nell’area sono i curdi (sparsi tra i quattro Stati della zona, e cioè tra Siria, Turchia, Iraq e Iran). Sostenere questi ultimi, in particolare nel teatro iracheno, significa per l’Occidente entrare nel conflitto tramite interposta persona. Ciò è evidente, e non si potrà in seguito fare finta di nulla, ossia evitare l’obiettivo politico per il quale i curdi si battono da circa un secolo: la proclamazione di un loro Stato indipendente. Ormai le cose stanno così: o il califfato islamico con le orde jihadiste, o la soluzione della questione curda. Supporre di potere aggirare il problema, magari per far piacere all’alleato turco, vorrebbe dire per l’Occidente chiudere gli occhi davanti alla realtà.

È questa la realtà di un’estrema frammentazione. Sciiti contro sunniti e viceversa, vecchi regimi d’ispirazione nazionalista araba contro l’emergere in diverse forme dell’islamismo radicale, jihadisti contro “moderati”, califfi sunniti autoproclamati e, là accanto, una repubblica islamica sciita come l’Iran, unica formazione statale della regione nata da una rivoluzione, quella ormai lontana del 1979. A farla da padrone è il caos. Il mondo, come in un beffardo gioco dell’oca, esattamente dopo un secolo sembra ritornato alla casella di partenza – la stessa della catastrofe del 1914. Solo che oggi, a differenza di ieri, non sono più i nazionalismi universalistici (a loro modo) a segnare i destini del pianeta; sono piuttosto le piccole realtà etnico-tribali, i particolarismi settari universalisticamente proiettati (si pensi che l’obiettivo finale del nuovo Stato islamico sarebbe il califfato mondiale), a dettare le condizioni della guerra. Pensare che la pace (foss’anche una pace purchessia, come quella progettata per l’intera area mediorientale un decennio fa dai neoconservatori americani) possa essere costruita prescindendo dalle situazioni particolari, riproponendo la già fallita opzione di una democrazia esportata e impiantata mediante approssimativi processi elettorali – o, peggio ancora, con la retorica dell’intervento che si vorrebbe puramente umanitario – significherebbe per l’Occidente rinunciare alla politica e non ottenere pace alcuna.