La pazza gioiadi Antonio Tricomi

 

Paolo Virzì, «La pazza gioia» (20 maggio 2016)

Solo a una condizione mi sembra lecito affermare, come in genere si fa, che Virzì è l’erede – l’unico, per talento e studio, che oggi realmente ci sia – della commedia all’italiana. A patto, cioè, di riconoscere, alla radice del suo cinema, il desiderio di riappropriarsi di quella lezione per ribaltarne tuttavia di segno lo sguardo etico-civile sul mondo.

Già alle origini, ossia negli anni cinquanta, e non di meno nel decennio seguente, mi pare insomma che gli esiti migliori di quel filone cinematografico puntassero a dissacrare le facili retoriche progressive, solidaristiche, emancipative del loro tempo scrutandole e – in vari casi – respingendole facendo proprio un esibito cinismo. Che, anche quando scaturiva da una cultura di stampo rigorosamente conservatore, non tradiva comunque mai un lucido progetto intellettuale: demistificare i processi di modernizzazione in atto nel Paese, denunciarne il fondo oscuro o le incoerenze, i ricatti o le false promesse, gli inganni o l’inclinazione al compromesso con le ataviche tendenze di segno opposto.

Virzì lavora in maniera esattamente contraria. Al cinismo dominante nella nostra epoca, alla catastrofe etica e al ritardo culturale che caratterizzano da oltre un trentennio l’Italia, come pure alla particolaristica civiltà del nichilismo patogeno e del tribalismo spettacolarizzato di cui siamo ormai figli, contrappone – si direbbe quasi: utopisticamente – un pur laico, “creaturale”, a tratti addirittura disforico populismo che gli suggerisce di credere ostinatamente nella capacità, quantomeno di taluni uomini e – in special modo – di alcune donne, di resistere alle imperanti logiche di normalizzazione, di edonistica atomizzazione sociale, di autoritaria cancellazione delle individualità facendo leva sul proprio genuino, istintivo, prorompente vitalismo. Il che lo spinge a confezionare film il più delle volte narrativamente imperfetti per eccesso di generosità, se essi devono in un certo senso assecondare le esplosioni appunto vitalistiche dei loro personaggi principali.

Ma è questa stessa disponibilità morale a non accontentarsi di un’asfittica ricognizione dell’abominio presente la molla che, perlopiù traducendosi in generalmente disciplinato entusiasmo espressivo, evita a Virzì, nella maggior parte dei casi, di scadere in quel bozzettismo che è un po’ il rischio connaturato a una simile idea di cinema e al quale, in effetti, film come Ferie d’agosto, Baci e abbracci o Caterina va in città tendono quasi integralmente a ridursi. La pazza gioia, invece, al pari della Bella vita, di Ovosodo, di Tutta la vita davanti, della Prima cosa bella, pur con qualche perciò fisiologico sovraccarico retorico, è un’autentica, salutare boccata d’ossigeno. Anche grazie a due attrici magnifiche. Perché un altro merito va certamente ascritto a Virzì: sa lavorare con gli attori come pochi in Italia.

Pedro Almodóvar, «Julieta» (29 maggio 2016)

«Sì, ho capito, Pedro. Ho capito. Credo proprio di avere capito quello che mi hai detto, Pedro. Sì, ho assolutamente capito quello che mi hai detto, Pedro. Ma ora, siediti accanto a me. Vuoi bere qualcosa, Pedro? Bevi qualcosa, Pedro! E ora, raccontami tutto da capo: coraggio!».

Sarà magari dipeso anche da una traduzione italiana forse male accorta. Ed è certamente vero che il melodramma – persino quando, come in questo caso, inclina a un’angosciata asciuttezza “in nero” che vorrebbe liricamente favorire la sobria emersione di una cifra autenticamente, misuratamente tragica – di per sé comporta una verbosità sempre sopra le righe: un po’ vuota, un po’ estetizzante. Sia come sia, il punto però è che i dialoghi di Julieta – e lo dico senza il minimo piacere della dissacrazione, dunque registrando un parallelismo che si è naturalmente imposto al ricordo della mia adolescenza – mi hanno fatto di continuo ripensare a quelli, argutamente demenziali, che il Trio (Marchesini, Solenghi, Lopez) affidava, negli anni Ottanta, alle proprie gustose parodie televisive delle soap “latine” già allora in voga.

Non si può negarlo: Almodóvar si è dato una sana regolata, sconfessando gli eccessi di una certa sua vena oltranzisticamente grottesca e disciplinando il proprio entusiasmo per un’anarchica riconversione del pastiche sia in debordante racconto manieristicamente schizofrenico, sia in rappresentazione troppo istericamente sentimentale. Ha dunque realizzato un’opera senza dubbio migliore – più equilibrata, più sensatamente intimista, più congrua dal punto di vista figurativo – delle ultime.

Tuttavia, dopo Parla con lei, un film davvero interessante – vuoi perché lucidamente trasgressivo, vuoi perché spregiudicatamente disposto a nobilitare specifici accenti senz’altro kitsch della comune retorica affettiva – egli non è più riuscito, fin qui, a confezionarlo. Anche questo mi appare incontestabile.

Woody Allen, «Café Society» (12 ottobre 2016)

Tra squadre di club e rappresentative nazionali, i calciatori (perlomeno quelli bravi) giocano davvero troppo. In pratica, ogni tre giorni. Di conseguenza, vedere una bella partita è sempre più difficile. Si assiste, in gran parte, a incontri molto scadenti: disordinati o nevrotici balbettii di schemi usurati; goffo agonismo. Tanto rare, le contese che realmente avvincono, da far quasi gridare con grata commozione al miracolo, se ci si imbatte in una di esse. Va già di lusso, e tuttavia accade – grossomodo – una volta ogni cinque, quando ci si può mestamente accontentare di uno spettacolo non imperdibile, men che meno appassionante, ma – se non altro – decente.

Woody Allen, già da tempo, monta, smonta e rimonta set come si trattasse di inforcare gli occhiali, al mattino, appena svegli. E di film ne imbrocca così pochi, che uno non ricorda neppure più quali siano. Indubbiamente, Café Society non è tra questi, ma comunque – assoluta rarità – è decoroso. Vale quasi i due euro spesi per vederlo. Infatti, dallo scorso settembre (mi sembra), il secondo mercoledì del mese il cinema costa meno. Anzi: poco poco. O magari semplicemente il giusto, quando si considerino le usuali programmazioni delle multisale.

A ogni modo, tornando al film di Allen: ma, se vien voglia di riguardare Lubitsch, tutto sommato, basta farlo. Perché accontentarsi di una frigida scopiazzatura sbiadita?

Ken Loach, «Io, Daniel Blake» (27 ottobre 2016)

Essenziale, rigoroso, diretto. Spietatamente lucido, mai consolatorio, ostile ad ogni ipocrisia. Loach allo stato puro. Quel tipo di sguardo critico sulla società declassato oggi a inservibile ideologia, quand’è, invece, l’esito cristallino di una disperata eppur testarda fedeltà all’utopia. All’antica sete d’eguaglianza e libertà, di giustizia e verità percepita dal moderno.

Ewan McGregor, «American Pastoral» (5 novembre 2016)

Se vuoi anzitutto o esclusivamente costruire un racconto per immagini, non vai a ricavartelo da Pastorale americana di Philip Roth. Che non è in primo luogo una trama: a volte deliberatamente pretestuosa. Non è semplicemente una narrazione: quella riguardante un’America che tradisce i sogni venduti ai propri figli. E che invece, ben più di una storia, è una riflessione sulla crudele assurdità della condizione umana e, in particolare, sulla natura puramente illusoria di quelle retoriche secondo cui l’innocenza genera solo virtù in chi l’accosta e ottiene dunque per sé nient’altro che ricompense. Una riflessione degna del teatro tragico ateniese; che scaturisce da un laico corpo a corpo col Libro di Giobbe; e che, non di meno, riattraversa L’idiota per fare a pezzi, come il romanzo di Dostoevskij, qualsivoglia generosa utopia di socialmente produttiva purezza che l’individuo moderno abbia preteso, o tuttora magari si prefigga, di ricavare dalle ambizioni e, ancor prima, dalla figura di Don Chisciotte. L’identica riflessione che, in sedicesimo, Roth ha per esempio consegnato anche a un successivo romanzo breve: quell’incontestabile gioiello che è Nemesi.

Insomma, Pastorale americana è uno degli indiscussi capolavori letterari del secondo Novecento. Un libro che varrebbe da solo (cioè pure quando non gli facessero compagnia Patrimonio, Il teatro di Sabbath, La macchia umana, Everyman e, appunto, Nemesi) a legittimare in Roth l’idea che chi non gli ha mai voluto assegnare il Nobel (per poi tributarlo a Bob Dylan e ottenere in cambio astuti sberleffi dal menestrello) sia autorizzato a pronunciarsi sulla letteratura quanto Albano Carrisi sull’eredità filosofica di Heidegger.

E allora, viene da pensare che, del romanzo, il povero McGregor abbia capito davvero poco o forse nulla. Altrimenti neppure ci avrebbe provato a ricavarne un film, specie se farlo avesse dovuto implicare ciò che per lui ha in effetti implicato: tradirne totalmente lo spirito, ma anche la lettera, mortificando senza alcun imbarazzo la complessità dell’intero dispositivo testuale e la (talvolta a loro stessi ignota) ambiguità di indimenticabili caratteri umani dei quali Roth ricostruisce ben più le equivoche sfumature psicologiche che non le mere vicende.

Con un grande autore letterario può nutrire il desiderio di misurarsi solo un grande cineasta, peraltro nella consapevolezza che è più facile, per lui, perdere la partita che non vincerla. Ecco perché sono in fondo rari i capolavori cinematografici ispirati a libri importanti. Ecco perché, in genere, i maestri del cinema preferiscono prendere casomai spunto da romanzi o racconti o testi teatrali al massimo buoni, non straordinari. Ed ecco perché, a tutt’oggi, non c’è un solo film tratto da un’opera di Roth che valga qualcosa.

Quello di McGregor è stato un quasi imperdonabile peccato di hybris: ma davvero si considerava un autore già a tal punto formato (e l’augurio, non comunque la previsione, è che magari lo diventi) da poter impunemente esordire con una trasposizione cinematografica di Pastorale americana? Complimenti solo per il tetragono amor di sé sfacciatamente dimostrato. Dicono serva, nella vita.

Michael Grandage, «Genius» (9 novembre 2016)

Semplice calligrafia. Pura mise en abîme del luogo comune. Cos’altro? Addirittura godibile nella sua oleografica inconsistenza leccata, il film fila via liscio liscio. Indubbiamente. Vuoi perché gli attori sono impeccabili. Vuoi perché, alla fin fine, è sempre così che va: leggeri leggeri, garbati garbati, gli stereotipi dolcemente volano, educatamente planano. E i più, con felice naturalezza o – se necessario – risentito ardore, accorrono a pascersi del loro manierato nulla credendolo la verità sola, la verità tutta quanta.

Marco Bellocchio, «Fai bei sogni» (16 novembre 2016)

Due film in uno. Il primo – profondamente bellocchiano – ineccepibile. Sa ipnotizzare, ferire. Ti resta rabbiosamente incollato addosso. Ti solca la pelle del viso come l’impronta di uno schiaffo secco, esatto, veloce. Ti abita lungamente in testa, ti disturba le solite impressioni, ti fa dolorosamente godere le tue fragilità.

Il tramonto degli anni sessanta. L’alba di un’era nuova. L’incolmabile distanza emotiva, psicologica, fra adulti e bambini: gli uni ostinatamente ligi a declinanti posture patriarcali che ne inibiscono la carica affettiva; gli altri non ancora riconosciuti nella propria dignità di soggetti, ma, in continuità col passato, semplicemente visti come uomini o donne imperfetti, incompiuti. Padri incapaci di essere padri. Madri impossibilitate ad essere madri. Figli di conseguenza costretti a farsi padri di se stessi e dei propri padri, a diventare madri di se stessi e delle proprie madri. Il televisore, invariabilmente acceso, quale esclusivo trait d’union per quanti danno macchinalmente corpo a un’istituzione, la famiglia, che, al pari della chiesa, si rivela ormai vuota di senso: non più in grado di favorire il contatto col reale, mediandolo, ma soltanto preoccupata, appunto come il pur ancora onnipervasivo discorso religioso, di imporre ipocrite forme di solo estrinseca devozione al proprio culto sociale. La menzogna che diviene allora nuova fede civile: occorre dirsi nucleo famigliare, anche se non lo si è; urge credere, benché non si confidi in nulla.

E un bimbo, rimasto orfano, che quindi non può riconoscersi, che allora non sa immaginarsi privato della madre: cioè, ambiguamente, di un’assenza, anche quando la genitrice fosse rimasta in vita, anche quando ella era in effetti viva. Di riflesso, un bimbo che deve, in principio, negare la morte della madre: confutare, insomma, la materializzazione di quell’assenza simbolica della figura materna per lui carica – paradossalmente e proprio in quanto lacuna immaginariamente colmabile con tutto quanto egli avesse desiderato – di tenere promesse d’amore. E un bimbo che, in seguito, deve testardamente rifiutarsi di capire che la genitrice non è semplicemente, innocentemente venuta a mancare, ma si è uccisa: che, in altri termini, l’assenza con cui egli, suo malgrado, è stato da sempre costretto a identificarsi sul piano affettivo non scaturisce da un’altrui incapacità di presenza magari scusabile, bensì da una volontà di non esserci consustanziale all’interlocutrice.

Perciò un bimbo che imporrà anche al se stesso adulto di ritenere un tragico incidente, non la verità per lui scritta fin dall’inizio, quella voragine nel campo simbolico del materno che finirà con l’ingoiargli la vita. Che, in definitiva, pur di impedirgli di individuare nel suicidio della madre il desiderio, nutrito dalla donna, di sottrarsi al proprio ruolo di guida e di rifiutare lui in quanto figlio, in modo da svelare la sostanziale inesistenza di una famiglia, la loro, tale esclusivamente per finzione e per obbligo sociale, lo spinge – non potendo egli rispecchiarsi in un padre troppo distante per essere eletto a modello (o, detto altrimenti, in pari misura assente) – a scorgere in un’immagine televisiva, quella di Belfagor come appare in uno sceneggiato degli anni sessanta, il solo (demoniaco, cioè distruttivo e autodistruttivo) surrogato possibile della collassata autorità genitoriale.

Ma Belfagor è pure il diavolo che si sceglie una moglie, però poi preferisce tornare all’inferno invece di vivere con lei. E allora, per il bimbo, Belfagor è anche il padre, che non ha saputo o voluto trattenere con sé la propria donna. Evocare la figura di quel demonio è quindi l’unica maniera concessa al bimbo di riflettersi qui e ora, benché obliquamente, nella sempre lontana immagine paterna. Solo che si tratta, senza che egli coscientemente lo intenda, di un’identificazione col difetto, con la morte. Se lo capisse, il bimbo si scoprirebbe cioè, al pari del genitore, lui pure indirettamente responsabile dell’assenza, per dir così primordiale, della madre. Ammetterebbe di aver insomma desiderato, pressoché in origine, il corpo della madre, di aver provato orrore per l’agognato incesto, di aver quindi sperato, pur di non consumare l’orribile peccato, nell’immediata sparizione della genitrice. L’approssimazione immaginaria a Belfagor gli consente allora di rivivere, ma ogni volta irriconoscibilmente sublimato, il trauma della sua denegata colpa originaria nei riguardi della madre: il proprio desiderio di goderla, esattamente come il padre, solo in quanto corpo d’un tratto, e poi per sempre, rifiutato, scacciato, assente. Solo in quanto corpo morto.

Poi, naturalmente, il bimbo cresce. Diventa un giornalista sempre più noto: dapprima come cronista sportivo; successivamente perché, negli anni novanta, firma pezzi su Tangentopoli o reportage dai teatri di guerra durante i sanguinari conflitti nella ex Jugoslavia. E – dal giorno in cui, per il suo giornale, accetta di rispondere alle missive dei lettori, esordendo con un testo in cui confessa spudoratamente il proprio dolore per la perdita della madre – egli addirittura si guadagna un’attenzione del pubblico che, negli anni a venire, si rivelerà via via crescente, in ultimo rendendolo un affermato opinion-maker. E il bimbo di un tempo sa pure liberarsi dalla sua fissazione proiettiva all’immagine di Belfagor. Quindi può anche legarsi sentimentalmente a una donna, vale a dire ripudiare l’usuale, perverso investimento libidico sul corpo fantasmatico della madre defunta, così da indirizzare il proprio desiderio erotico su una meta oggettuale finalmente viva, finalmente reale.

In pratica, inizia un secondo film, non proprio riuscito: sfilacciato, confuso, schizofrenico. L’adulto, subentrato al bimbo che ci aveva tenuto fin qui compagnia, è infatti diventato l’autore, o meglio il maître à penser, dal cui best-seller Bellocchio ha scelto di ricavare una pur libera trasposizione cinematografica. E però si tratta di un intellettuale e di un libro che di bellocchiano non hanno nulla: che veicolano, anzi, il più grigio e scontato senso comune, il più limpido e inscalfibile midcult, le più infiocchettate epifanie di ovvietà talora anche patetiche, ricattatorie. Ossia tutto ciò che Bellocchio da sempre detesta e contro cui si scaglia, con generosa crudeltà, il primo dei due film dei quali consta Fai bei sogni. Che quindi frana d’improvviso, nella sua seconda metà, appunto perché Bellocchio cerca di venire a capo di un’acrobazia invero impossibile: presentare il protagonista come un’incarnazione di tali nefaste occorrenze della falsa coscienza collettiva prendendo tuttavia le distanze, continuamente, dal punto di vista del personaggio. In definitiva, lasciando sì la voce di quest’ultimo sempre libera di levarsi, e però opponendole a ogni piè sospinto un agguerrito controcanto critico principalmente ricavato da fulminee, sarcastiche sequenze in grado, anche col silenzio o con l’assoluta parsimonia delle parole, di demistificarne il presunto spessore culturale. Il che rende del tutto incongrua la narrazione: l’adulto col quale ci troviamo ora a fare i conti non può sembrarci lo stesso individuo che avevamo conosciuto bambino.

Da costui sarebbe dovuto derivare, per fisiologica congruità logica, un uomo almeno problematico, sfuggente, sardonico: se non necessariamente nichilista, tuttavia lunatico o tragicamente melanconico, dalla luciferina capacità dissacratoria o dal sadomasochistico sostrato distruttivo, autodistruttivo. Non sarebbe dovuto scaturire un soggetto quasi naturalmente schiacciato, di per sé, su una troppo lampante superficialità intellettuale, su una mai realmente disforica, tormentata linearità affettiva o psicologica, da lui semplicemente investita di retorica tristezza e ordinari, comunissimi, non ferocemente scompensanti malumori. Non avrebbe insomma dovuto prendere corpo un soggetto che acquisisce una sua qualche complessità solo dall’esterno, solo in qualità di vittima inconsapevole, cioè nei frangenti in cui diviene una sorta di burattino, di troppo facile bersaglio polemico, nelle mani di un regista incline ad opporre, alla sua fisiologica mediocrità, la propria visione rigorosamente disincantata, criticamente avvertita del mondo, delle relazioni umane, dei sentimenti, della società, del pubblico stesso.

Così, anche uno dei migliori, uno dei più espressivi attori italiani che oggi ci siano su piazza, Valerio Mastandrea, pare come smarrirsi nel proprio personaggio, stritolato dalla scarsa coerenza intrinseca del carattere umano cui deve dare forma. Sembra cioè non capire bene se, quando, come e perché provare a renderlo un’incarnazione della banalità; se, quando, come e perché regalargli, viceversa, una lancinante consistenza tragica. Laddove magnifica si era invece rivelata, nella prima parte del film, l’interpretazione del piccolo Nicolò Cabras nei panni del protagonista ancora bimbo. Magari anche perché Bellocchio al meglio aveva saputo guidarlo nella costruzione di un personaggio che egli sentiva più (o del tutto) suo.

Ecco spiegato il motivo per cui, nella memoria dello spettatore, a conservarsi ostinatamente scolpita – insieme con l’impeccabile commento musicale di Carlo Crivelli – è solo la prima metà, a tratti davvero straordinaria, di Fai bei sogni. Quest’indagine sul materno che esclusivamente a un primo sguardo, e semplicemente nel caso in cui si fraintenda l’ultimo fotogramma del film, può sembrare accordarsi con le tesi sostenute di recente da Recalcati – cioè da un altro Massimo, da aggiungere a quello del cui libro Bellocchio si è infedelmente appropriato – nelle sue ricognizioni sul medesimo argomento. Invece, Fai bei sogni contesta quei cattolici ammiccamenti consolatorii con inesausta radicalità. Per fortuna, verrebbe da aggiungere.

Tom Ford, «Animali notturni» (20 novembre 2016)

Lezioso, scontato, già visto. Con più di qualcosa che sembra venire non tanto da Hitchcock, quanto da Lynch, ed essere stata però accolta solo dopo aver tollerato un processo di patinata normalizzazione sia narrativa sia figurativa. Pressoché inevitabile aggiungerlo: un défilé di gran lusso, più che un’opera di stile vero.