Giorgio Almirantedi Giancarlo Scarpari

Il consiglio comunale di Roma approva una mozione di Fd’I che vuole intitolare al suo padre storico, Giorgio Almirante, una via della capitale; insieme ai neofascisti votano, quasi all’unanimità, i consiglieri del Movimento 5 Stelle; nello studio di Vespa, la Raggi dichiara di prendere atto della volontà dell’Aula, dato che la stessa «è sovrana come il Parlamento»; la Meloni esulta e parla di un «risultato storico» che rende finalmente omaggio «a uno degli uomini più importanti della destra e della politica italiana». Poiché la comunità ebraica romana protesta, ricordando il ruolo svolto da quell’uomo nella campagna razzista promossa dall’Italia fascista, la Raggi, previo consulto con chi di dovere, si dimentica della sovranità dell’Aula, si rimangia ogni cosa e annuncia nella notte che farà votare dai consiglieri “grillini” una nuova mozione di segno contrario.

Il giorno dopo, dalle paludate pagine del «Corriere», P.G. Battista ci fa sapere che tutta la vicenda «è una cosa da talk show, un espediente acchiappa audience», che sarebbe ora di finirla con la «guerricciola toponomastica» tra fascisti e antifascisti e che sarebbe ora di tornare alla politica, abbandonando queste attività «sostitutive». E la chiude così, evitando di ricordare al lettore il vero spessore del politico omaggiato e del perché proprio oggi i neofascisti abbiano voluto lanciare questa campagna.

I fatti che lo riguardano, in realtà, dovrebbero essere noti, perché da tempo accertati, ma la memoria di molti appare sempre più appannata.

Almirante non fu solo un giornalista razzista, che operò quale braccio destro di Telesio Interlandi nel comitato di redazione di «La difesa della razza», come ricordato dalla comunità ebraica romana, ma anche colui che curò nell’estate del ’44 un «progetto di propaganda razziale» per diffondere via radio e sulla stampa le nuove leggi della Repubblica di Salò, proprio nel momento in cui i nazisti occupanti si incaricavano di tradurre in pratica quella “propaganda”; e che, all’epoca, quale viceministro di Mezzasoma, organizzò la diffusione del bando di Graziani che prevedeva la fucilazione alla schiena per gli «sbandati» che non si fossero presentati entro il 25 maggio ’44, documento che gli valse nel dopoguerra l’appellativo di «fucilatore di partigiani», ritenuto giustificato da vari tribunali della Repubblica; ma fu anche il parlamentare che, nell’Italia democratica, indossato il doppio petto durante la strategia della tensione, fu processato, e alla fine amnistiato, dall’accusa di favoreggiamento aggravato per il sostegno economico fornito al latitante Carlo Cicuttini, dirigente del Msi friulano e coautore con Vincenzo Vinciguerra, reo confesso, della strage di Peteano consumata il 31.05.1972, nella quale i terroristi di Ordine Nuovo avevano ucciso tre carabinieri, ferendone altri due.

Bene. La “grillina” Eleonora Guadagno, nel tentativo di spiegare il voto dei consiglieri del suo movimento, ha sostenuto che evidentemente «qualcuno non ha focalizzato bene chi era il personaggio politico» in questione, appellandosi così alla presunta ignoranza dei suoi colleghi inesperti. Certo, se avessero chiesto in giro, i consiglieri avrebbero ben potuto raccogliere qualche utile informazione su tale discusso personaggio; non certo dalla Meloni, però, che, avendo aderito sin dall’età di 15 anni all’organizzazione giovanile del Msi, di quanto successo nella Rsi e della vicenda di Peteano non ama certo parlare; e neppure da Salvini, che a proposito della citata votazione, se ne è uscito dicendo che non capiva quale problema vi fosse, attento evidentemente al patto elettorale concluso con Storace e Alemanno che gli ha aperto insperati canali di consenso nelle regioni meridionali proprio in occasione della scadenza del 4 marzo. Ma quei consiglieri avrebbero, invece, dovuto rivolgersi alla loro collega Maria Agnese Catini e chiederle perché, unica del gruppo, avesse votato contro la mozione; e, comunque, quali fruitori della rete, avrebbero potuto, in mancanza d’altro, fare un rapido passaggio su Wikipedia alla voce Almirante, per colmare almeno le più evidenti lacune.

Senonché, fossero i predetti ignoranti della storia o invece convinti della bontà del loro voto o semplicemente opportunisti, la questione vera risulta essere un’altra.

Questa vicenda è sorta, infatti, nel momento in cui un movimento «né di destra, né di sinistra» è stato chiamato a responsabilità di governo e a compiere delle scelte politiche qualificanti. A livello nazionale già si è visto come Di Maio sia riuscito a costruire l’ esecutivo con un partito, la Lega di Salvini, che, fino al giorno prima del 4 marzo, era comunemente classificato come fascio-leghista e che comunque si collocava e si colloca alla destra estrema dell’attuale sistema politico; ora anche nella capitale – non in una qualche cittadina di provincia – i consiglieri della sindaca Raggi, a sua insaputa, hanno con grande naturalezza appoggiato i neofascisti di Fd’I nella loro “storica” rivendicazione identitaria: ebbene, questo non può essere considerato un incidente di percorso o un fatto occasionale, costituendo invece l’ennesimo tassello utile a decifrare il quadro d’insieme.

Non a caso, infatti, il giorno prima, il M5S aveva dato il via libera in parlamento alla nomina, coi voti di Fd’I e di FI, del braccio destro della Meloni, Fabio Rampelli, alla carica di vicepresidente della Camera, primo segnale di un possibile ingresso di questo sedicente partito di opposizione nella compagine di governo. In un simile contesto, sottovalutare il ripetersi di queste convergenze, sia sul piano istituzionale che su quello più propriamente simbolico, tra il movimento del cambiamento e queste forze del passato (e di quale passato!), sarebbe chiudere gli occhi su di una realtà in rapida involuzione: perché, se il problema della crescente subordinazione del movimento di Di Maio al partito del ministro dell’Interno è questione che riguarda quella componente politica, il progressivo e ulteriore scivolamento a destra di un esecutivo già squilibrato in quella direzione è un problema che invece dovrebbe riguardare tutti, non solo dunque i cittadini che hanno diversamente votato, ma anche e soprattutto coloro che, con buone o cattive ragioni, hanno di recente disertato il seggio elettorale.