di Rino Genovese
Quelli che pensano che la Germania sia il cuore infetto reazionario dell’Europa contemporanea dovrebbero riflettere su quanto sta accadendo in questi giorni. Mentre la signora Merkel (tra parentesi, l’unica statista, piaccia o non piaccia, in circolazione nel vecchio continente) riusciva nell’impresa impossibile di una riedizione della “grande coalizione” con i socialdemocratici della Spd (i quali evidentemente non hanno appreso la lezione impartita di recente dalle urne, e continuano a immolarsi sull’altare dell’ “unità nazionale”), la centrale sindacale dei metalmeccanici, che ha quasi quattro milioni d’iscritti, s’impegnava in una piattaforma rivendicativa non di poco momento: settimana lavorativa di 28 ore (attualmente sono 35), con flessibilità  dell’orario per chi lo desidera sull’arco di due anni (per prendersi cura, per esempio, di un bambino o di un parente anziano), e inoltre aumento generalizzato dei salari del 6%.
In un paese la cui economia ha un Pil in crescita del 2,2% nel 2017, e che ha raggiunto la quasi piena occupazione, le proposte dei metalmeccanici tedeschi colpiscono. Anzitutto, come si vede dalla richiesta di aumento salariale, sono fortemente ridistributive: gli operai dicono ai padroni: “Le esportazioni tirano, voi vi state ingrassando, siamo ormai fuori dalla crisi ed è venuto il momento di restituire una parte del maltolto”. Ciò che colpisce di più è che tutto questo s’inquadra in un discorso di riduzione dell’orario di lavoro e di una sua flessibilizzazione nell’interesse, per una volta, del lavoratore e non dell’imprenditore.
La diminuzione della pressione del tempo di lavoro sulle libere attività umane è una tendenza storica oggettiva, dovuta all’impiego della tecnologia nei processi produttivi. Questa stessa tendenza genera tuttavia perdita dei posti di lavoro. Come si sopperisce alla controfinalità che fa sì che un movimento “liberante” sia al tempo stesso foriero di un grave problema non soltanto sociale ma perfino psicologico – per chi v’incappa – come quello della disoccupazione? Molto semplicemente con la riduzione dell’orario di lavoro. Non 28 ore alla settimana, come chiedono in Germania oggi, si lavorerà o si potrebbe lavorare un giorno non lontano, ma probabilmente 20! E la riduzione dell’orario, a parità di salario, è la ricetta che consente di rispondere anche al problema della perdita dei posti di lavoro, secondo lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti”.
Si tratta, dicevo, di una flessibilizzazione nell’interesse del lavoratore e non, com’è per lo più oggi, nell’interesse dell’imprenditore. Dopo la legge sulle 35 ore in Francia (all’epoca del governo Jospin, negli anni novanta del secolo scorso, l’ultimo governo “socialista” che si sia visto in un grande paese europeo), dopo le 35 ore nella stessa Germania attraverso un accordo tra le parti sociali, siamo adesso alla richiesta delle 28 ore. È il segno di una notevole vitalità del sindacato tedesco; è anche quello di una vitalità sociale del paese nel suo complesso, sebbene, per non apparire troppo ottimisti, si debba aggiungere che ciò si riscontra in un settore produttivo classicamente industriale come quello metalmeccanico, laddove nei servizi e altrove regna in Germania (proprio come in Italia) la precarietà più selvaggia.