È uscito il numero 4-5/2024 de “Il Ponte” (in carta e digitale). Ecco l’editoriale di Lanfranco Binni.

A mali estremi

La disfatta dell’Occidente (quale Occidente?), senza doglianze. L’Occidente bianco, colonialista e suprematista, il monopolio imperialista della violenza, dei mercati finanziari, delle guerre e delle pseudo-democrazie liberali (oligarchiche), della devastazione predatoria e della corsa suicida alle materie ultime del pianeta, della propaganda impazzita, di strage in strage, e sullo sfondo le catastrofi climatiche in atto. Guerra civile in corso nel cuore dell’ex impero statunitense, per ora a colpi di propaganda all’interno del partito unico repubblicano-democratico, a rilanciare la crisi economica strutturale del 2008-2009. Perduta la guerra “occidentale” in Ucraina contro la Russia e contro l’Europa, mentre sul fronte sud l’estensione della guerra in Medio Oriente sta isolando l’avamposto israeliano condannandolo a una drammatica implosione. Il “nuovo ordine” israeliano, con le sue criminali fantasie sioniste da “grande Israele”, con le sue pratiche genocidarie per una “soluzione finale”, nazista, della popolazione palestinese, con l’apertura di fronti militari in ogni direzione (Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Iran, Yemen, e per ultimo l’Onu) sta provocando il proprio isolamento internazionale di Stato fuorilegge e il rafforzamento, nonostante le deformazioni della propaganda occidentale, della resistenza palestinese e del coordinamento unitario delle sue formazione militari e politiche: la reazione all’attacco del 7 ottobre che ha riaperto la questione palestinese data ormai per risolta, si è intensificata con la massima brutalità terroristica a Gaza a seguito dell’accordo realizzato nel luglio di quest’anno a Pechino da tutte le formazioni della resistenza (piú avanti ne riportiamo la “dichiarazione” conclusiva, che nei media occidentali non ha fatto notizia). Resiste eroicamente la popolazione di Gaza massacrata e alla fame, resiste la popolazione della Cisgiordania alle incursioni dei soldati e dei coloni, si rafforza, anche negli Stati Uniti, la lotta dei palestinesi della diaspora contro le politiche criminali dello “Stato ebraico” sionista e razzista.

La dichiarazione di Pechino (23 luglio 2024)
traduzione di «contropiano.org»

Su gentile invito della Repubblica Popolare Cinese, le fazioni palestinesi hanno tenuto a Pechino un importante ciclo di dialoghi con l’obiettivo di unificare la posizione palestinese per affrontare la guerra di genocidio e l’aggressione israeliana, e porre fine alla divisione, realizzando cosí le aspirazioni del popolo palestinese di unità nazionale, libertà e indipendenza nazionale. I partecipanti esprimono il loro grande apprezzamento per gli sforzi sinceri della Repubblica Popolare Cinese a sostegno dei diritti del popolo palestinese e per il suo impegno a porre fine alla divisione e unificare la posizione palestinese. Confermano il loro impegno per consentire ai fratelli arabi e agli amici della Repubblica Popolare Cinese e della Federazione Russa di continuare gli sforzi internazionali per convocare una conferenza internazionale con pieni poteri per porre fine all’occupazione israeliana e implementare le risoluzioni internazionali pertinenti e giuste per i diritti del popolo palestinese sotto l’egida delle Nazioni Unite e con un’ampia partecipazione internazionale e regionale, in alternativa alla tutela unilaterale e di parte degli Stati Uniti.

Le fazioni palestinesi, di fronte alla guerra di genocidio e all’aggressione criminale sionista che colpisce il nostro popolo, sottolineano lo spirito positivo e costruttivo che ha caratterizzato l’incontro e concordano di raggiungere un’unità nazionale palestinese globale che includa tutte le forze e le fazioni palestinesi nell’ambito dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese.

Le fazioni palestinesi salutano la resilienza del nostro popolo e la sua eroica resistenza nella lotta contro il genocidio nella Striscia di Gaza, che ha rafforzato la posizione della causa palestinese e ha fallito i tentativi di liquidarla. Salutano anche tutte le forze, i paesi e i movimenti di solidarietà studentesca, popolare e sindacale che sostengono la lotta del popolo palestinese sul campo, politicamente, legalmente e diplomaticamente.

Le fazioni riaffermano il loro deciso rifiuto di tutte le forme di tutela e dei tentativi di privare il popolo palestinese del suo diritto di rappresentare sé stesso o di confiscare la sua decisione nazionale indipendente.

I partecipanti hanno concordato sui seguenti punti:

  1. Unire gli sforzi nazionali per affrontare l’aggressione sionista e fermare la guerra di genocidio portata avanti dallo stato occupante e dalle orde di coloni con il sostegno e la partecipazione degli Stati Uniti, e resistere ai tentativi di deportare il nostro popolo dalla sua terra natale, la Palestina, e per costringere l’entità sionista a porre fine alla sua occupazione della Striscia di Gaza e di tutti i territori occupati, sostenendo l’unità dei territori palestinesi, inclusi Cisgiordania, Gerusalemme e Striscia di Gaza.
  2. Le fazioni palestinesi accolgono favorevolmente il parere della Corte internazionale di giustizia che ha dichiarato illegittima la presenza, l’occupazione e la colonizzazione israeliana nei territori dello stato di Palestina e ha richiesto la sua rimozione il prima possibile.
  3. Partendo dall’accordo di riconciliazione nazionale firmato al Cairo il 4.5.2011 e dalla Dichiarazione di Algeri firmata il 12.10.2022, proseguire l’implementazione degli accordi per porre fine alla divisione con l’aiuto delle sorelle Egitto e Algeria e degli amici della Repubblica Popolare Cinese e della Federazione Russa secondo quanto segue:
    1. Impegno per la costituzione di uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme come capitale, secondo le risoluzioni delle Nazioni Unite pertinenti, in particolare le risoluzioni 181, 2334, e garantire il diritto al ritorno secondo la Risoluzione 194.
    2. Diritto del popolo palestinese di resistere all’occupazione e di porvi fine secondo le leggi internazionali e la Carta delle Nazioni Unite e il diritto dei popoli di autodeterminarsi e di lottare per realizzare ciò con tutti i mezzi disponibili.
    3. Formazione di un governo di unità nazionale provvisorio con il consenso delle fazioni palestinesi e su decisione del Presidente, in base alla legge fondamentale palestinese vigente, affinché il governo eserciti le sue autorità e i suoi poteri su tutti i territori palestinesi, confermando l’unità di Cisgiordania, Gerusalemme e Striscia di Gaza. Il governo deve iniziare a unificare tutte le istituzioni palestinesi nei territori dello stato palestinese e avviare la ricostruzione della Striscia di Gaza, preparando le elezioni generali sotto la supervisione della Commissione elettorale centrale il prima possibile secondo la legge elettorale vigente.
    4. Fino all’implementazione dei passi pratici per formare il nuovo Consiglio Nazionale secondo la legge elettorale vigente, e per approfondire la partnership politica nella responsabilità nazionale e sviluppare le istituzioni dell’OLP, è stato confermato l’accordo per attivare e regolarizzare il quadro dirigente provvisorio unificato per la partecipazione al processo decisionale politico, come concordato nel documento di riconciliazione nazionale palestinese firmato il 4 maggio 2011.
  4. Resistere e sventare i tentativi di deportare il nostro popolo dalla sua terra natale, in particolare dalla Striscia di Gaza o dalla Cisgiordania e da Gerusalemme, e riaffermare l’illegittimità della colonizzazione e dell’espansione coloniale secondo le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e il parere della Corte internazionale di giustizia.
  5. Lavorare per revocare l’assedio barbaro contro il nostro popolo nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania e fornire assistenza umanitaria e medica senza restrizioni o condizioni.
  6. Sostenere la resistenza eroica del nostro popolo e la sua coraggiosa resistenza in Palestina per superare le ferite e le devastazioni causate dall’aggressione criminale, ricostruire ciò che è stato distrutto dall’occupazione e sostenere le famiglie dei martiri, dei feriti e di tutti coloro che hanno perso le loro case, proprietà e fonti di sostentamento.
  7. Contrastare le cospirazioni dell’occupazione e le sue continue violazioni contro la Moschea di Al-Aqsa e resistere a qualsiasi attacco contro di essa e contro Gerusalemme e i suoi luoghi santi islamici e cristiani.
  8. Rivolgere un saluto di rispetto e ammirazione ai martiri del popolo palestinese e confermare il pieno sostegno ai prigionieri e alle prigioniere coraggiosi nelle carceri e nei campi di prigionia dell’occupazione, che subiscono diverse forme di tortura e repressione, e dare priorità a tutti gli sforzi possibili per liberarli dalla prigione dell’occupazione.

Alla luce di questa dichiarazione, i partecipanti hanno concordato su un meccanismo collettivo per attuare tutti gli aspetti della dichiarazione, decidendo che l’incontro dei segretari generali rappresenterà il punto di partenza per il lavoro dei team nazionali comuni in modo urgente, e si è deciso di stabilire un’agenda temporale per applicare questa dichiarazione.

Alla fine dell’incontro, le fazioni palestinesi riunite hanno espresso il loro apprezzamento e gratitudine per gli sforzi della Repubblica Popolare Cinese e della sua leadership per raggiungere questo importante accordo nazionale.

Le fazioni palestinesi riunite a Pechino sono:

  • Movimento per la Liberazione Nazionale Palestinese (Fatah)
  • Movimento di Resistenza Islamica (Hamas)
  • Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina
  • Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina
  • Movimento del Jihad Islamico
  • Partito del Popolo Palestinese
  • Fronte di Lotta Popolare Palestinese
  • Iniziativa Nazionale Palestinese
  • Fronte Popolare Comando Generale
  • Unione Democratica Palestinese (FIDA)
  • Fronte di Liberazione Palestinese
  • Fronte di Liberazione Arabo
  • Fronte Arabo Palestinese
  • Avanguardie della Guerra di Liberazione Popolare (Forze Sa’iqa)

Quale Stato palestinese?

Nella dichiarazione di Pechino l’accordo tra le varie formazioni militari e politiche della Resistenza indica tra i suoi obiettivi l’istituzione di uno Stato palestinese nei territori negoziati a Oslo: Cisgiordania, Gaza, con capitale a Gerusalemme est; è un obiettivo tattico su cui unificare, attraverso elezioni, le diverse componenti della Resistenza. Due popoli, due Stati? Contro questo obiettivo agisce da sempre il “colonialismo di insediamento” dello Stato sionista (e del sionismo occidentale dagli ultimi decenni dell’Ottocento), rendendolo impraticabile; l’unica strategia israeliana è da sempre, oggi piú che mai, l’espulsione dei palestinesi dalla loro terra. La devastazione di Gaza e la frantumazione dei territori occupati della Cisgiordania rientrano in questa strategia. In assenza di applicazioni territoriali, lo Stato di Palestina è riconosciuto come entità politica dalla stragrande maggioranza dei paesi dell’Onu; le conseguenze territoriali saranno determinate da un processo politico e militare tutto palestinese. Sulla questione dello Stato (due Stati, uno Stato binazionale) è intervenuto con alcune tesi
in progress Ilan Pappé, lo storico israeliano del “colonialismo di insediamento”, nel giugno di quest’anno: un testo pubblicato il 21 giugno 2024 sul blog della «New Left Review» (
The collapse of Zionism, newleftreview.org) che riproduciamo integralmente nella traduzione dell’Associazione di Amicizia Italo-Palestinese, un importante strumento di reale riflessione strategica. Anche in questo caso la censura della propaganda occidentale ha fatto il suo sporco lavoro, rimuovendolo e ignorandolo.

Ilan Pappé, Il collasso del sionismo

L’assalto di Hamas del 7 ottobre può essere paragonato a un terremoto che colpisce un vecchio edificio. Le crepe cominciavano già ad essere evidenti, ma adesso sono visibili fin dalle fondamenta. A piú di 120 anni dal suo inizio, il progetto sionista in Palestina – l’idea di imporre uno stato ebraico a un paese arabo, musulmano e mediorientale – potrebbe trovarsi di fronte alla prospettiva del collasso? Storicamente, una pletora di fattori può causare il capovolgimento di uno stato. Questo potrebbe essere causato da continui attacchi da parte dei paesi vicini o da una guerra civile cronica. Potrebbe seguire il collasso delle istituzioni pubbliche, che diventano incapaci di fornire servizi ai cittadini. Spesso inizia come un lento processo di disgregazione che prende slancio e poi, in breve, fa crollare strutture che un tempo sembravano solide ed inattaccabili.

La difficoltà sta nell’individuare i primi indicatori. Qui, sosterrò che, nel caso di Israele, questi sono piú chiari che mai. Stiamo assistendo a un processo storico – o, piú precisamente, all’inizio di un processo – che probabilmente culminerà nella caduta del sionismo. E, se la mia diagnosi è corretta, allora stiamo anche entrando in una congiuntura particolarmente pericolosa. Perché una volta che Israele si renderà conto dell’entità della crisi, scatenerà una forza feroce e senza alcun freno per cercare di contenerla, come fece il regime di apartheid sudafricano durante i suoi ultimi giorni.

1.

Un primo indicatore è la spaccatura della società ebraica israeliana. Attualmente è composta da due gruppi rivali che non riescono a trovare un terreno comune. La spaccatura deriva dall’anomalia di definire l’ebraismo come nazionalismo. Mentre l’identità ebraica in Israele a volte è sembrata poco piú di un argomento di dibattito teorico tra fazioni religiose e laiche, ora è diventata una lotta sul carattere della sfera pubblica e dello stato stesso. Questa lotta viene combattuta non solo nei media, ma anche nelle strade.

Un gruppo può essere definito lo “Stato di Israele”. Comprende gli ebrei europei piú laici, liberali e per lo piú, ma non esclusivamente, della classe media e i loro discendenti, che sono stati determinanti nella creazione dello Stato nel 1948 e sono rimasti egemoni al suo interno fino alla fine del secolo scorso. Non fraintendetemi, la loro difesa dei “valori democratici liberali” non intacca il loro impegno per il sistema di apartheid che viene imposto, in vari modi, a tutti i palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Il loro desiderio fondamentale è che i cittadini ebrei vivano in una società democratica e pluralista da cui gli arabi siano esclusi.

L’altro gruppo è lo “Stato di Giudea”, che si è sviluppato tra i coloni della Cisgiordania occupata. Gode di crescenti livelli di sostegno all’interno del paese e costituisce la base elettorale che ha assicurato la vittoria di Netanyahu alle elezioni del novembre 2022. La sua influenza nelle alte sfere dell’esercito israeliano e dei servizi di sicurezza sta crescendo in modo esponenziale. Lo Stato di Giudea vuole che Israele diventi una teocrazia che si estende su tutta la Palestina storica. Per raggiungere questo obiettivo, è determinata a ridurre il numero dei palestinesi al minimo indispensabile, e sta contemplando la costruzione di un Terzo Tempio al posto di al-Aqsa. I suoi membri credono che questo permetterà loro di rinnovare l’epoca d’oro dei regni biblici. Per loro, gli ebrei laici sono eretici quanto i palestinesi se si rifiutano di unirsi a questo sforzo.

I due gruppi avevano iniziato a scontrarsi violentemente prima del 7 ottobre. Durante le prime settimane dopo l’assalto, sembravano aver accantonato le differenze di fronte a un nemico comune. Ma questa era un’illusione. Gli scontri di strada si sono riaccesi ed è difficile vedere cosa potrebbe portare ad una riconciliazione. L’esito piú probabile si sta già dispiegando davanti ai nostri occhi. Piú di mezzo milione di israeliani, che rappresentano lo Stato di Israele, hanno lasciato il paese da ottobre, un’indicazione che il paese è stato inghiottito dallo Stato di Giudea. Si tratta di un progetto politico che il mondo arabo, e forse anche il mondo in generale, non tollererà a lungo termine.

2.

Il secondo indicatore è la crisi economica di Israele. La classe politica non sembra avere alcun piano per riequilibrare le finanze pubbliche in mezzo a continui conflitti armati, oltre a diventare sempre piú dipendente dagli aiuti finanziari americani. Nell’ultimo trimestre dello scorso anno, l’economia è crollata di quasi il 20%; da allora, la ripresa è stata fragile. È improbabile che l’impegno di Washington di 14 miliardi di dollari possa invertire questa tendenza. Al contrario, l’onere economico non potrà che peggiorare se Israele darà seguito alla sua intenzione di entrare in guerra con Hezbollah mentre intensifica l’attività militare in Cisgiordania, in un momento in cui alcuni paesi – tra cui Turchia e Colombia – hanno iniziato ad applicare sanzioni economiche.

La crisi è ulteriormente aggravata dall’incompetenza del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che invia costantemente denaro verso gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ma per il resto sembra incapace di gestire il suo dipartimento. Il conflitto tra lo Stato di Israele e lo Stato di Giudea, insieme agli eventi del 7 ottobre, sta nel frattempo spingendo una parte dell’élite economica e finanziaria a spostare i propri capitali al di fuori dello Stato. Coloro che stanno pensando di delocalizzare i loro investimenti costituiscono una parte significativa del 20% degli israeliani che pagano l’80% delle tasse.

3.

Il terzo indicatore è il crescente isolamento internazionale di Israele, che sta gradualmente diventando uno stato paria. Questo processo è iniziato prima del 7 ottobre, ma si è intensificato dall’inizio del genocidio. Ciò si riflette nelle posizioni senza precedenti adottate dalla Corte internazionale di giustizia e dalla Corte penale internazionale. In precedenza, il movimento globale di solidarietà con la Palestina era stato in grado di galvanizzare le persone per partecipare alle iniziative di boicottaggio, ma non è riuscito a portare avanti la prospettiva di sanzioni internazionali. Nella maggior parte dei paesi, il sostegno a Israele è rimasto intoccabile nell’establishment politico ed economico.

In questo contesto, le recenti decisioni della Corte Internazionale di Giustizia e della Corte Penale Internazionale di Giustizia – che Israele potrebbe commettere un genocidio, che deve fermare la sua offensiva a Rafah, che i suoi leader dovrebbero essere arrestati per crimini di guerra – devono essere viste come un tentativo di ascoltare le opinioni della società civile globale, invece di limitarsi a riflettere l’opinione dell’élite. I tribunali non hanno alleviato i brutali attacchi contro la popolazione di Gaza e della Cisgiordania. Ma hanno contribuito al crescente coro di critiche rivolte allo Stato israeliano, che viene sempre piú da tutti i livelli.

4.

Il quarto indicatore, interconnesso, è il cambiamento epocale tra i giovani ebrei di tutto il mondo. A seguito degli eventi degli ultimi nove mesi, molti sembrano ora disposti a liberarsi del loro legame con Israele e il sionismo e a partecipare attivamente al movimento di solidarietà con i palestinesi. Le comunità ebraiche, in particolare negli Stati Uniti, un tempo fornivano a Israele un’immunità efficace contro le critiche. La perdita, o almeno la perdita parziale, di questo sostegno ha importanti implicazioni per la posizione globale del paese. L’AIPAC può ancora contare sui sionisti cristiani per fornire assistenza e sostenere i suoi membri, ma non sarà la stessa formidabile organizzazione senza un significativo elettorato ebraico. Il potere della lobby si sta erodendo.

5.

Il quinto indicatore è la debolezza dell’esercito israeliano. Non c’è dubbio che l’IDF rimanga una forza potente con armi all’avanguardia a sua disposizione. Eppure i suoi limiti sono stati esposti il 7 ottobre. Molti israeliani ritengono che l’esercito sia stato estremamente fortunato, poiché la situazione avrebbe potuto essere molto peggiore se Hezbollah si fosse unito in un assalto coordinato. Da allora, Israele ha dimostrato di dipendere dispera-11tamente da una coalizione regionale, guidata dagli Stati Uniti, per difendersi dall’Iran, il cui attacco di avvertimento ad aprile ha visto il dispiegamento di circa 170 droni piú missili balistici e guidati. Piú che mai, il progetto sionista dipende dalla rapida consegna di enormi quantità di rifornimenti da parte degli americani, senza i quali non potrebbe nemmeno combattere un piccolo esercito di guerriglieri nel sud.

C’è ora una percezione diffusa dell’impreparazione e dell’incapacità di Israele di difendersi tra la popolazione ebraica del paese. Questo ha portato a forti pressioni per togliere l’esenzione militare per gli ebrei ultra-ortodossi – in vigore dal 1948 – e iniziare a arruolarne a migliaia. Questo difficilmente farà molta differenza sul campo di battaglia, ma riflette la portata del pessimismo sull’esercito – che ha, a sua volta, reso ancora piú profonde le divisioni politiche all’interno di Israele.

6.

L’ultimo indicatore è il rinnovamento dell’energia tra le giovani generazioni di palestinesi. È molto piú unita, organicamente connessa e chiara sulle sue prospettive rispetto all’élite politica palestinese. Dato che la popolazione di Gaza e della Cisgiordania è tra le piú giovani del mondo, questa nuova coorte avrà un’enorme influenza nel corso della lotta di liberazione. Le discussioni in corso tra i giovani gruppi palestinesi mostrano che essi sono preoccupati di creare un’organizzazione genuinamente democratica – un’OLP rinnovata, o una completamente nuova – che persegua una visione di emancipazione che è antitetica alla campagna dell’Autorità palestinese per il riconoscimento come Stato. Sembrano favorire una soluzione a uno Stato unico rispetto a uno screditato modello a due Stati.

Ce la faranno ad organizzare una risposta efficace al declino del sionismo? Questa è una domanda difficile a cui rispondere. Il collasso di un progetto statale non è sempre seguito da un’alternativa piú brillante. Altrove in Medio Oriente – in Siria, Yemen e Libia – abbiamo visto quanto possano essere sanguinosi e prolungati i risultati. In questo caso, si tratterebbe di una decolonizzazione, e il secolo scorso ha dimostrato che le realtà post-coloniali non sempre migliorano la condizione coloniale. Solo l’azione dei palestinesi può portarci nella giusta direzione. Credo che, prima o poi, una fusione esplosiva di questi indicatori porterà alla distruzione del progetto sionista in Palestina. Quando lo farà, dobbiamo sperare che ci sia un forte movimento di liberazione a riempire il vuoto.

Per piú di 56 anni, quello che è stato definito il “processo di pace” – un processo che non ha portato da nessuna parte – è stato in realtà una serie di iniziative israelo-americane a cui i palestinesi sono stati invitati a reagire. Oggi, la “pace” deve essere sostituita dalla decolonizzazione, e i palestinesi devono essere in grado di articolare la loro visione per la regione, con gli israeliani invitati a reagire. Sarebbe la prima volta, almeno da molti decenni, che il movimento palestinese prende l’iniziativa di presentare le sue proposte per una Palestina post-coloniale e non-sionista (o come si chiamerà la nuova entità). Cosí facendo, probabilmente guarderà all’Europa (forse ai cantoni svizzeri e al modello belga) o, piú appropriatamente, alle vecchie strutture del Mediterraneo orientale, dove i gruppi religiosi secolarizzati si sono gradualmente trasformati in realtà etnoculturali che vivevano fianco a fianco nello stesso territorio.

Che la gente accolga con favore l’idea o la tema, il collasso di Israele è diventato prevedibile. Questa possibilità dovrebbe essere presa in considerazione nel dibattito a lungo termine sul futuro della regione. Sarà imposto all’ordine del giorno quando la gente si renderà conto che il tentativo secolare, guidato dalla Gran Bretagna e poi dagli Stati Uniti, di imporre uno stato ebraico a un paese arabo sta lentamente volgendo al termine. Ha avuto abbastanza successo da creare una società di milioni di coloni, molti dei quali ora di seconda e terza generazione. Ma la loro presenza dipende ancora, come quando sono arrivati, dalla loro capacità di imporre violentemente la loro volontà a milioni di indigeni, che non hanno mai rinunciato alla loro lotta per l’autodeterminazione e la libertà nella loro patria. Nei decenni a venire, i coloni dovranno separarsi da questo approccio e mostrare la loro volontà di vivere come cittadini uguali in una Palestina liberata e decolonizzata.

La visione di Pappé è ampiamente prospettica e prevede profondi cambiamenti politici e culturali nell’assetto di un territorio condiviso da due popoli, in uno Stato binazionale. Ma è una prospettiva di lungo periodo che non può non misurarsi con la dura realtà della guerra in corso; la guerra può avvicinarla, ma nell’immediato altre soluzioni tattiche possono risultare necessarie. Certamente il popolo ebraico deve liberarsi del suo attuale Stato razziale e dei suoi governi criminali, e la Resistenza palestinese deve svilupparsi come movimento di liberazione da consolidare in ogni fase, impiegando tutti gli strumenti di lotta, con radicale semplicità. E, in questo processo, concretamente sostenuto dai popoli del mondo arabo, dai popoli del “sud globale” (sta accadendo) e da un internazionalismo conseguente, in tempi di guerra e di disfatta delle nefandezze occidentali.

Lanfranco Binni