A chi conosce i lavori di Antonio Prete – i saggi, le poesie, le traduzioni, le prose[1] – può darsi che l’Album di un’infanzia nel Salento[2], apparso nel 2023, faccia pensare a un episodio o a una parentesi a latere di quei suoi scritti, un’escursione in un genere, la memorialistica di ambito autobiografico, sinora non frequentato se non sporadicamente dall’autore. Una tale ipotesi, in effetti, è certamente più che appropriata, data la materia esposta sin dal titolo e circoscritta con precisione in termini spazio-temporali: l’infanzia, il Salento. Ed è anche vero che alla materia memoriale attinge, come pescando da una riva distante – ormai distante dagli anni rievocati, dal sé del racconto – ognuno dei brevi capitoli in cui è organizzato il libro: da Il rifugio a Gli addii, quaranta pezzi di esatta misura con un’appendice intitolata De pueritia. Tuttavia anche in quest’ultimo caso – in apparenza di collaudata definizione classica – le formule risultano sfocate e insoddisfacenti, poiché le due pagine che chiudono il libro (in corsivo e non in tondo, per meglio sbalzarne lo status) sono piuttosto una specie di firma o sigillo che – non senza una certa sprezzatura, in controcanto a paludati De senectute – riconduce proprio ai titoli saggistici dell’autore, alla sua lunga e libera esplorazione di motivi e sentimenti (Trattato della lontananza, Compassione, Carte d’amore…), qui spesso riaffioranti e riassorbiti nella trama dei pensieri e dei flashes del ricordo. C’è allora un filo di manifesta continuità tra questo Album e quanto l’ha preceduto, un comune stile riflessivo; e quanto al De pueritia, l’autore non pare qui voler offrire un compendio dell’itinerario nel tempo fissato nell’Album, quanto dispensare, sulla soglia estrema del libro, una meditazione che verte su ciò che nei frammenti è disperso o implicito; e così deve restare, salvo disperderne l’essenza. Senza ombra di pedanti quod erat demonstrandum e insomma come un envoi o accompagnamento, quel che ci consegna De pueritia è un appunto che riporta al movente primo della scrittura (del libro e non solo di quello), al punto di partenza del «piccolo viaggio verso la terra lontana che è la mia infanzia»[3].
Emerge già nel senso di questa clausola e nel suo rapporto con quanto la precede la felice diversità del libro rispetto al genere memorialistico, il tratto distintivo che lo colloca tra saggio e narrazione, cioè in una dimensione ibrida e aperta, che rivendica un’autonomia inseparabile dallo stile espressivo, dal modo del pescare di cui sopra: come se dell’attraversamento del tempo fossero trattenuti i riflessi nella grana del testo, nel rapporto non definito a priori e ogni volta riproposto tra passato e presente, tra geografia e storia, tra individuale e collettivo. Qui, anche, le lezioni di Proust (in particolare in Nomi dei paesi e in Geografia fantastica), di Baudelaire, Benjamin, Barthes – la foto della madre è l’unica immagine dell’Album, anch’essa cruciale per intensità e pregnanza[4] – emergono come una genealogia di alto e trasparente lignaggio; non come aggravio erudito o esibito ornamento, bensì come segnali di una tradizione del Moderno e di un sentire che si rinnova ogni volta: ora al «lampeggiare dei bengala» in una notte di guerra, ora al «suono del mondo» che si accende nella vecchia radio o guardando il dipinto sul soffitto nella camera che accoglie il bambino «durante le febbri», o ancora alla voce del «dirigente comunista che diceva di un altro mondo possibile», alle «luminarie» delle feste paesane e al ricordo dei «concerti bandistici»; infine, è l’infanzia riassunta in una «interminabile partita di pallone» e in «una corsa in bicicletta sempre lontana dall’arrivo». Così, scrive Prete, «quel che mi era intorno nell’infanzia è rimasto lì, in una sua solare lontananza»[5]: ed è la stessa forma del frammento, con l’aria che circola tra i paesaggi ed i volti e le voci dell’Album, a riflettere l’andamento per ragionati affioramenti di chi non solo rievoca, ma conduce una specie d’inchiesta su sé stesso e, insieme, sulle categorie e gli strumenti che ai ricordi conferiscono senso e orientamento, riorganizzando le tracce di una sapienza.
Di qui, da questa interrogazione, la volontà e il reiterato bisogno di «situare» gli affioramenti, nonché le domande che tornano così di frequente: «che cosa resta…?», «come accade…?», «perché dire io…?», «per quali vie…?, «che ne è…». Non è una strategia retorica: è che lo spunto interrogativo non fa che ripresentare i basamenti della recherche che ha luogo nell’Album, lo sfogliare e l’interpretare senza rendere omaggio ai luoghi comuni, anzi riflettendo un pensiero mobile, inquieto, dialettico. Che è poi per l’appunto il compito e l’onore del saggio. Ma cosa vuol dire far davvero parlare l’infanzia, quest’ossimoro alla radice dell’Album? Dove ci vuol portare questo libro, con il suo tratto suasivo, arioso e invitante, il suo novellare e domandare e rimbalzare di luogo in luogo, da un tempo all’altro? Così Prete: «Dire dell’infanzia è come immaginare un bambino, un sé stesso bambino, che […] tenga un diario del suo vedere, del suo sentire, del suo ascoltare»[6]; e se, dunque, «all’origine del racconto dell’infanzia» è una «finzione», egli aggiunge e precisa che nello spazio e nel tempo percorsi e perimetrati nel suo libro accade di assistere a una specie di lotta, intima, certo, ma in qualche modo appartenente a ognuno, al cammino di ognuno: l’incantamento contro l’assuefazione, lo stupore contro l’abitudine, l’attesa – il tempo sconfinato dell’attesa – contro l’invadenza e il rumore degli avvenimenti[7].
Dar conto di una «lotta» e ricreare l’incanto: è forse qui la sfida vinta dall’Album con la sua originale rivendicazione di scrittura autonoma e unitaria, che non si contenta di raccogliere dal passato istanti o reliquie del tempo, né di registrare perdite e assenze. Come per i suoi maestri (tra questi va rammentato Jabés), in gioco per Prete è molto altro: una promessa, un pegno che dura l’esistenza e che reclama spazio per un diverso rapporto con il passato e con il futuro. Tutto il repertorio di voci familiari, le figure di migranti e i percorsi di esilio, i paesaggi amati di isole e spiagge, i gesti e i momenti disseminati negli anni, nel riapparire sulla pagina brillano di quella luce particolare («di vetro»[8]) di cui è investito non il ricordo in sé, ma l’aura in cui si manifestano l’attesa senza confini e l’immaginazione che rapisce. Solo così la testimonianza si fa annuncio e apparizione, non soltanto «di qualcosa di quel che siamo stati, ma anche qualcosa di quel che non siamo mai divenuti»; ed è così che, pur invecchiando, insieme a lui «calpestiamo la terra incantata del possibile»[9].
[1] Mi limito a ricordare Carte d’amore (Torino, Bollati Boringhieri, 2022); Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi (n. ed. Mimesis, 2021); Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità (Torino, Bollati Boringhieri, 2016); Compassione. Storia di un sentimento (ivi, 2013); All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione (ivi, 2011); Tutto è sempre ora (Einaudi, 2019); Trenta gradi all’ombra (Nottetempo, 2004); Il convito delle stagioni, Torino, Einaudi, 2024.
[2] Antonio Prete, Album di un’infanzia nel Salento, Torino, Bollati Boringhieri, 2023.
[3] A. Prete, Album… cit., p. 140.
[4] Cfr. Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1980.
[5] Ivi, p. 38.
[6] Ivi, p. 139.
[7] Ivi, p. 140.
[8] Ivi, p. 39; con probabile reminiscenza di Montale, Forse un mattino.
[9] Ivi, p. 140.