di Rino Genovese
Concludendo la sua trionfale kermesse fiorentina, Matteo Renzi l’ha detto piuttosto chiaramente: “Andatevene pure, non me ne frega niente”: questo il messaggio indirizzato alla minoranza Pd. Che, per fargli dispetto, non se ne va. Così l’acuto compagno Fassina, il pugnace compagno D’Attorre, il dolce compagno Civati restano nel partito in attesa di logorarne il segretario e presidente del Consiglio. Logorando logorando, tuttavia, finiranno con il logorare se stessi. È vero che la crisi morde e il tempo di Renzi non è infinito. Ma lui ha sotto il tavolo la carta vincente, quella delle elezioni anticipate, in modo da andare davanti al paese come il leader che avrebbe voluto il cambiamento e invece è stato frenato dalla minoranza Pd: della cui zavorra, del resto, può facilmente liberarsi facendo dei gruppi parlamentari a propria immagine e somiglianza (ora invece sono quelli scelti da Bersani).
Per la minoranza Pd non ci sarebbe altra strada che affrontare a viso aperto la partita elettorale a cui Renzi, con tutta la sua prosopopea, si sta preparando. La scissione è nelle cose quando è addirittura il segretario che la fomenta. A questo punto la sfida andrebbe raccolta – per non trovarsi a dovere uscire dal partito successivamente in posizione di svantaggio ulteriore.
Vero è che ci sono due ostacoli da sormontare non da poco. Il primo consiste nel cercare d’imporre in parlamento, grazie ai gruppi parlamentari non allineati, una legge elettorale decente, diversa dalla proposta di porcellum modificato contenuta nel patto del Nazareno. In secondo luogo bisognerebbe riuscire a trattenere Renzi, mediante un accordo politico tra il suo partito e quello che ne verrebbe fuori da una scissione, prima che lui si precipiti tra le braccia del berlusconismo. A pensarci bene, infatti, è questo uno degli esiti possibili – considerata anche la spregiudicatezza del personaggio. Lo spostamento dell’elettorato – ampiamente segnalato dai sondaggi, ma che è nella stessa successione di fatto offerta da Renzi al berlusconismo – può invece favorire un’autonoma forza di centro renziana resa più consistente dal passaggio dei voti moderati dal vecchio uomo della provvidenza al nuovo. All’interno di questa logica, un’uscita tempestiva della minoranza Pd darebbe una spinta all’elettorato moderato che si sentirebbe ancor più garantito da un Renzi slegato dalla sua componente oggi minoritaria. È ciò che il disegno strategico della fondazione di un partito unico del centrosinistra aveva lasciato cadere: l’espressione autonoma di un centro capace di allearsi, da pari a pari, con una sinistra altrettanto autonoma.
In questo si riassumerebbero i compiti immediati di un partito nato da una scissione. La cui missione preliminare sarebbe di far rientrare nella dialettica democratica quei troppi voti che sono andati a Grillo per delusione e protesta. Solo attraverso un doppio movimento – di Renzi versus Forza Italia e di una sinistra versus il grillismo – oggi una coalizione di centrosinistra sarebbe riproponibile.
Ciò nei prossimi sei mesi che vedranno, con tutta probabilità , la corsa di Renzi alle elezioni in mancanza dei risultati del suo governo. In una prospettiva temporale più lunga, ci sarebbe da costruire ex novo il partito di una sinistra del lavoro possibilmente socialista. Un compito cui non vediamo inclini né l’acuto compagno Fassina, né il pugnace compagno D’Attorre, né il dolce compagno Civati. La loro grande furbata di restare nel Pd lo dimostra, mentre la grande manifestazione sindacale del 25 ottobre a Roma proprio in quella direzione spingerebbe.