occhio del ciclonedi Lanfranco Binni

Se perfino il più alto pastore della chiesa cattolica parla di terza guerra mondiale in corso, «a pezzi», non ancora globale, e allerta il suo gregge contro i lupi della guerra, gli spacciatori di armi, gli speculatori finanziari, i politicanti corrotti, e cerca di svegliare le sue pecore dal torpore servile e connivente, la situazione del mondo è davvero grave. Non bastano i disastri ambientali del «progresso» capitalistico che stanno distruggendo il pianeta, non bastano le tragedie delle migrazioni forzate di terra in terra in ogni direzione, non bastano le mutazioni antropologiche indotte dal «mercato», a trasformare in scimmie pseudotecnologiche gli esseri umani, a farne macchine per il consumo; tutto questo non basta, servono guerre e grandi devastazioni, per impadronirsi delle risorse energetiche e contenere la sovrappopolazione. E bisogna fare in fretta.

Il quadro geopolitico è drammaticamente chiaro: alla crisi strutturale del capitalismo finanziario, che da tempo ha superato i suoi limiti di «sviluppo sostenibile», l’Occidente statunitense ed europeo (ne fa parte anche Israele) risponde con strategie di aggressione e dominio, disgregando stati, disarticolando assetti istituzionali, intervenendo militarmente (direttamente o per procura) e attraverso le armi delle campagne mediatiche: la distruzione dell’Iraq, le «primavere» arabe per distruggere la Libia e la Siria, per normalizzare l’Egitto, la «primavera» ucraina per allargare ad est la Nato e l’area di «libero mercato» del trattato transatlantico, il massacro di Gaza per fiaccare la resistenza all’occupazione, prevenire gli accordi tra il governo palestinese e la Cina e sabotare l’istituzione di uno stato palestinese. Bisogna «fare in fretta» perché il terrorismo occidentale sta incontrando crescenti reazioni, e la strategia del caos, figlia del pragmatismo statunitense e ispirata al vecchio adagio divide et impera declinato da un’oligarchia incolta e senza storia, ha il respiro corto e rivela facilmente i suoi congegni: esemplare la vicenda dell’Isis, organizzato e finanziato dagli Stati uniti contro la Siria nel disegno di disgregare ogni assetto statuale nell’area Iraq-Siria-Iran e di eliminare una retrovia storica dei palestinesi; oggi l’Isis, con il suo sedicente stato islamico, è presentato dai media occidentali come la più feroce minaccia all’Occidente, ma è davvero così? Con il pretesto di salvare l’umanità dai crimini dell’Isis, nel suo ultimo discorso alla nazione il premio Nobel per la pace Obama si è riservato una guerra di lunga durata, a partire dai bombardamenti del territorio siriano e dal sostegno agli «islamici moderati» contro l’esercito siriano. Anche i combattenti dell’Isis erano stati definiti «moderati» all’inizio della campagna americana contro la Siria, e la decisione di bombardare l’esercito siriano era già stata presa da Obama nel 2013, costretto a rinviarla per le reazioni internazionali. Ancora pretesti: l’assassinio dei tre giovani israeliani in Cisgiordania fu immediatamente attribuito ad Hamas e innescò l’attacco al ghetto di Gaza (2000 morti, di cui 500 bambini); quel delitto, al quale Hamas si è sempre dichiarata estranea, si è rivelato un ottimo investimento per il governo israeliano, che notoriamente infiltra propri agenti provocatori nella galassia delle formazioni palestinesi.

La Siria resiste, i palestinesi resistono (e si sono rafforzati i legami tra i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania), resistono gli ucraini russofoni della Crimea e dell’Est. In Ucraina il colpo di stato organizzato dalla Nato ha provocato un duro confronto con la Russia e un rafforzamento delle relazioni economiche e militari tra Russia e Cina, e ancora una volta la strategia geopolitica americano-europea è rimasta prigioniera della propria miopia: dietro il potere oligarchico della Russia di Putin è viva e profonda l’esperienza dell’Unione sovietica, sotterranea e carsica dopo il 1989 e i disastri liberisti che ne sono seguiti; contro i «fascisti» di Kiev, contro i bombardamenti su Donetsk, l’antifascismo popolare è riemerso con tutta la sua forza. Sullo sfondo di questo scenario agisce la vera contraddizione principale della guerra economica tra Stati Uniti e Cina, e contro il trattato transatlantico di libero scambio (l’area del mercato di 800 milioni di consumatori che dovrebbe costituire la retrovia strategica degli Stati Uniti e dell’Europa) si sta rafforzando l’asse dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) al quale si sta collegando la Turchia e che esercita un’influenza crescente in America latina, Asia e Africa; il governo irakeno di Al Maliki è stato abbattuto alla vigilia di relazioni economiche con la Cina, e tra le vere cause dell’operazione militare israeliana contro il ghetto di Gaza c’è stato il tentativo di bloccare un accordo tra il governo palestinese e la Cina per lo sfruttamento di un importante giacimento petrolifero marino.

Lo sviluppo del capitalismo finanziario occidentale ha ormai superato i suoi limiti strutturali, l’impero americano è in crisi e non basterà incrementare il fatturato dell’industria militare; la moltiplicazione dei fronti di guerra comporterà costi insostenibili, e c’è un limite anche a questo. Il modo di produzione capitalistico sta entrando nella fase dell’autofagia distruttiva. Si apre una fase di necessaria trasformazione di quel modo di produzione ed è e sarà questo il terreno di confronto e conflitto a livello internazionale. Il mondo (il pianeta) dovrà seguire altre strade, di altra economia, di altre modalità sociali e statuali, ripensando profondamente la sua storia, le esperienze economiche e sociali del passato, a partire dai tentativi abortiti del socialismo sovietico e dalla loro diaspora ereticale negli anni trenta del Novecento. Altre esperienze importanti sono quelle tentate negli anni sessanta dai movimenti di liberazione in Africa, Asia e America latina, con i loro esiti attuali. Bisogna tornare a scuola di progettualità politica, rimettere al centro dell’elaborazione teorica l’analisi storica ed economica in funzione dell’organizzazione politica rivoluzionaria, socialista e internazionalista. Questo sta accadendo in ogni area del mondo. Servono collegamenti, informazioni, iniziative comuni in funzione di una nuova internazionale dell’egualitarismo, della democrazia (democrazia diretta e controllo dal basso dei poteri delegati) e del socialismo (massimo socialismo, massima libertà).

Parlare dell’Italia in questo quadro geopolitico e di potenzialità di cambiamento può sembrare perfino imbarazzante. Il paese è in recessione, totalmente subalterno alle strategie americane e dell’Europa del nord, commissariato dall’Unione europea a guida tedesca. La struttura industriale basata su imprese piccole e medie non permette operazioni di «innovazione competitiva», l’enorme e incontrollabile debito pubblico non permette politiche di investimento, il rapporto con gli investitori stranieri può avvenire solo sul terreno della svendita dei beni pubblici. La Grecia è vicina, il modello sperimentato dall’Unione europea in Grecia è di fatto già applicato anche all’Italia: precarizzazione del lavoro e abbattimento del suo costo, definanziamento della macchina della pubblica amministrazione e dei servizi pubblici (scuola, sanità), privatizzazioni, concentrazione di risorse in grandi opere speculative, collusione con i grandi evasori fiscali e con le reti economiche della criminalità (l’economia illegale che costituisce comunque una voce importante del Pil, da far valere a Bruxelles). Il processo, iniziato negli anni ottanta, sviluppato nel ventennio berlusconiano e dai successivi governi «europei» di Monti e Letta, è oggi portato avanti dai teppisti dell’attuale governo decisamente «americano». La fretta del garzone di Pontassieve nel manomettere la Costituzione per concentrare il potere nell’oligarchia stracciona del paese e ridurre i controlli istituzionali sulla base del «patto del Lazzarone» e sulla linea della P2 di Gelli, l’attacco sistematico alla scuola pubblica, alla pubblica amministrazione, il ruolo attivo nel coinvolgimento dell’Italia nelle operazioni di guerra del padrone americano e dei suoi complici (i caccia israeliani si addestrano in Sardegna), sono tutte operazioni di tradimento della Costituzione e degli interessi del paese.

E gli «italiani»? La nazionale arte di arrangiarsi e di sopravvivere concede ancora qualche margine di manovra; si può ancora seguire con disincanto e rassegnazione lo spettacolo miserabile di una politica ridotta a «cosa nostra», rimbambiti dalle armi di distrazione di massa di un’informazione ridotta a spazzatura (dalla cronaca nera all’eroismo dei due marò), prigionieri dell’ignoranza e dell’incultura. I drammi avvengono sempre altrove e non ci riguardano. Siamo nell’occhio del ciclone, qui c’è pace, per ora. Ma non sarà così. I senza voce (nelle periferie urbane, nell’immensa e dispersa provincia italiana) tacciono, ma è il silenzio di chi non ha più nessuna rappresentanza politica, in una sorta di terra di nessuno. Tra le vite dei singoli e un potere ostile, indifferente alla sorte dei giovani precari, degli operai schiavizzati, dei dipendenti pubblici criminalizzati, dei disoccupati cronici, non ci sono più mediazioni credibili. Durerà poco il preteso consenso plebiscitario del 41% alle elezioni europee (poco più del 20% dei voti degli aventi diritto, un italiano su cinque), durerà poco la trovata (voto di scambio) degli 80 euro alla base elettorale di riferimento.

Le «riforme» del piazzista di Pontassieve sono parole al vento, imbrogli per chi vuole farsi imbrogliare, non ci sarà «crescita», i poveri saranno sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, protetti e garantiti. Tornerà presto il tempo della barbarie, anche nell’occhio del ciclone. E sarà drammaticamente attuale l’alternativa luxemborghiana «socialismo o barbarie». Da questa crisi, non riformabile, crisi di sistema, si potrà uscire in due sole direzioni: la militarizzazione del territorio italiano, il fascismo e la guerra civile, o una democrazia ricostruita dal basso, socialista e internazionalista: è questa l’anima, sotterranea e profonda, carsica, dell’Italia migliore, che riemerge più o meno spontaneamente in tante esperienze di base, locali e frammentarie ma importanti, dell’opposizione sociale ai disegni di un potere criminale. L’ultimo segnale, in questi giorni, viene dalla Sardegna: contro le basi militari, contro le «servitù» di guerra, erano tanti in piazza a Capo Frasca, il 13 settembre, a dire NO. E dal 15 settembre sono riaperte le scuole pubbliche, i nostri laboratori più importanti per la formazione di soggettività consapevoli e autonome. In questi stessi giorni il trombone di Pontassieve comincia a essere fischiato ovunque si esibisca: la caccia è aperta.

Un altro segnale, del tutto diverso, viene dall’area tra Siria, Libano, Iraq e Kurdistan: il 13 settembre, su iniziativa del Fronte al-Nusra di ispirazione quaedista, l’Isis e le formazioni islamiste «moderate» tra cui il Fronte rivoluzionario siriano collegato all’Esercito libero, braccio armato di quella Coalizione nazionale che dal 2012 è considerata dall’Occidente la legittima rappresentante del popolo siriano, e per questo sostenuta e armata dagli Stati uniti e dall’Europa, hanno firmato un patto di non aggressione, per concentrare l’attività militare sull’esercito di Assad che ha ripreso il controllo su buona parte del nord del paese. Così i «tagliagole» dell’Isis diventano alleati degli Stati uniti nella vera partita sul campo: la disarticolazione dello stato siriano (ma la partita è ancora tutta da giocare sia sul campo che a livello internazionale, dove ancora una volta Russia e Cina sono in conflitto con gli Stati Uniti e l’Europa) e il controllo dell’intera area in funzione antiraniana.

E l’Italia del partito unico di Napolitano-Berlusconi-Renzi? L’invio simbolico di armi ai kurdi perché si facciano ammazzare per gli interessi occidentali e la dichiarata volontà di partecipazione alla coalizione anti-Isis ma in realtà antisiriana, una politica filoisraeliana, le bellicose dichiarazioni antirusse del grande stratega di Pontassieve (da cui si dissocia Berlusconi perché pensa ai propri affari), sono certamente il ruggito di un topo, ma coinvolgono tutto il paese nel duro e irresponsabile confronto militare tra Occidente e mondo islamico. La quiete nell’occhio del ciclone si sta facendo sempre più improbabile.