Grandi opere pubblichedi Ferdinando Imposimato

Sandro Pertini a Francesco Saverio Nitti, che, incaricato di formare il nuovo governo, aveva detto «dirò tutta la verità perché il Paese si orienti spontaneamente sui doveri indeclinabili dell’ora», rispose con estrema durezza in un articolo pubblicato sul «Lavoro nuovo» il 18 maggio 1947. Scrisse infatti: «per noi la ragione prima dell’aggravarsi della situazione economica e dell’instabilità politica, in cui viviamo da mesi, bisogna ricercarla soprattutto nella sperequazione dei sacrifici che pesano sul popolo italiano. Vi è una parte del nostro popolo, la maggioranza – che va dall’operaio al professore, dall’impiegato al magistrato, dal disoccupato al pensionato – la quale è costretta a sopportare tutto il peso dell’attuale situazione. Un’altra parte, invece, ha più di quanto abbisogni e si rifiuta non solo di accettare sacrifici, ma specula sulla presente situazione per aumentare il proprio benessere, rendendo più penoso il sacrificio altrui. Ora è ingenuo pensare che questa parte del popolo italiano accetti spontaneamente i doveri indeclinabili dell’ora. Ricordiamo quanto disse il ministro del Tesoro: “bisogna far pagare le classi abbienti”. E forse proprio per questo è stato liquidato».

Ma l’impresa di ridurre i privilegi non riuscì nemmeno a Pertini quando gli si presentò l’occasione, nel giugno 1968, dopo l’insediamento come presidente della Camera dei deputati. Disse: «Noi dobbiamo pensare di lavorare in una casa di cristallo. Da noi deve partire l’esempio di attaccamento agli istituti democratici e soprattutto l’esempio di onestà e di rettitudine. Perché il popolo italiano ha sete di onestà. Su questo punto dobbiamo essere intransigenti prima verso noi stessi, se vogliamo poi esserlo verso gli altri. Non dimentichiamo, onorevoli colleghi, che la corruzione è nemica della libertà. E non dimentichiamo che i giovani ci stanno a guardare».

Quel richiamo non servì a nulla: non riuscì infatti ad arginare i privilegi del personale della Camera e degli stessi parlamentari. E scrisse a Ugo La Malfa, che lo aveva pubblicamente accusato di tollerare la giungla retributiva del personale della Camera, una lettera di sofferta ammissione di impotenza.

Ecco alcune parti della lettera, pubblicata con il titolo Lettera a La Malfa su «Il Lavoro» del 14 ottobre 1975: «Caro Ugo, ho trascorso un’altra notte insonne e ti scrivo per alleviare, sia pure per qualche istante, il peso che mi opprime l’animo. Io ho reagito al tuo articolo per difendere il Parlamento da te attaccato duramente. Era mio dovere fare questo. Ma hai ragione tu per quanto riguarda il trattamento economico della Camera e del Senato. È supremamente stupido darti del “qualunquista”, per la pubblica denunzia da te fatta. Certo, il tuo compagno di partito, onorevole D’Aniello, invece di scatenare lo scandalo giornalistico, avrebbe fatto bene a sollevare la questione nella riunione dell’ufficio di Presidenza, di cui fa parte. Avrebbe avuto il mio pieno appoggio, perché, caro Ugo, sa Cosentino come da tempo io abbia cercato di modificare l’attuale situazione ereditata dalle precedenti presidenze. Ma mi sono trovato di fronte le incomprensioni altrui. Non sono stato ascoltato. L’unica via di uscita per salvare il mio nome sarebbe stata quella di andarmene. Vado pensando a questa soluzione anche adesso, ma mi si dice che aggraverei la situazione».

Da notare che Pertini ignorava certamente che Cosentino, da lui evocato, non era un funzionario qualsiasi: era il potente Francesco Cosentino (tessera n. 1618) il cui nome era nella lista della Loggia massonica P2 di Licio Gelli, lista scoperta nel 1981 a Villa Wanda, nel corso dei processi paralleli che io a Roma, sul falso sequestro di Michele Sindona, e Gherardo Colombo e Giuliano Turone a Milano, per l’omicidio Ambrosoli, conducevamo, ignorando l’esistenza della Loggia P2. Il ruolo di grand commis di Cosentino, organicamente al servizio di quella associazione, cui venne ascritta la stesura del piano di rinascita democratica di Licio Gelli, secondo alcuni studiosi avrebbe condizionato le titubanze e le inerzie di Pertini, che aveva piena fiducia in quel funzionario preparato e zelante.

Proseguendo nella sua angosciosa ammissione, Pertini concludeva: «Cosa devo dire caro Ugo? Sono disperato. Passo le notti in bianco. Che vale sentirmi dire che io personalmente ho le carte in regola, perché io a suo tempo rinunciai all’aumento della mia indennità di Camera, sicché essa è inferiore di 200.000 lire allo stipendio di una dattilografa o di un commesso? Avrei dovuto dimettermi quando le mie sollecitazioni e proposte per sanare la situazione furono respinte. E adesso devo sostenere l’intollerabile e sciocca parte dell’avvocato d’ufficio di una causa sballata. […] Sento crollare mezzo secolo di una vita politica onesta. Che disperazione, Ugo, non ne posso più». Furono le ultime drammatiche parole di Sandro Pertini.

Dai tempi degli appelli di Pertini e della denunzia della questione morale da parte di Berlinguer, la situazione è nettamente peggiorata. L’illegalità e le diseguaglianze nel paese raggiungono dimensioni e gravità crescenti, nonostante gli allarmi reiterati che vengono da giornalisti che hanno dedicato una vita alla ricerca dei casi di corruzione e leggi ingiuste. Il fenomeno si riflette nelle dilaganti manifestazioni di corruzione e di evasione fiscale, ma soprattutto nella costante ingiustificata dilatazione dei costi delle grandi opere pubbliche.

Il governo di Matteo Renzi non sembra voler eliminare quei privilegi, che anzi sono aumentati nell’arco di quaranta anni. A Renzi, che cercava di limitare le indennità dell’apparato burocratico, sarebbe stato risposto che le Camere godono di autonomia amministrativa ed economica sulla quale il governo non può interferire. Non è così. È inaccettabile la perdurante assenza di controlli e di giurisdizione sugli organi costituzionali e parlamentari. L’impenetrabilità degli organi costituzionali (Corte costituzionale e Quirinale) e parlamentari (Camera dei deputati e Senato) comporta che essi possano decidere ad libitum aumenti di indennità a proprio favore con un chiaro conflitto di interessi e senza il rispetto dell’art. 53 della Costituzione, secondo cui «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Questa regola vale anche per gli organi costituzionali, compreso il Quirinale, le Camere e la Consulta.

Tale impenetrabilità e assenza di controlli non è giustificabile e non è valida nell’attuale ordinamento costituzionale che si ispira a principi di un equilibrato bilanciamento di tutte le funzioni e le attribuzioni fra i vari organi della Repubblica, ai quali spetta l’esercizio delle diverse funzioni nello specifico ambito di competenza.

Oggi invece la natura della giurisdizione contabile è tale da non poter ledere in alcun caso l’autonomia e l’indipendenza di detti organi. Sicché è accaduto spesso che, all’insaputa dei cittadini e contro i principi di equità sociale, quegli organi hanno aumentato a dismisura i propri privilegi economici. Del resto l’art. 69 stabilisce che i membri del Parlamento ricevono un’indennità stabilita per legge. Una legge ordinaria, non una legge costituzionale, per cui il governo potrebbe emanare un decreto legge anche per adeguare stipendi di apparati burocratici e di parlamentari, così come fa per le pensioni dei lavoratori privi di protezione.

Il presidente del Consiglio dovrebbe finalmente fare la riforma più importante e urgente: la lotta alla corruzione recuperando i 70 miliardi di euro all’anno, frutto del pagamento di tangenti, accertati dalla Corte dei conti, che servirebbero ai lavoratori, ai docenti della scuola pubblica, alle forze dell’ordine, agli esodati, ai giovani, assicurando loro molto più di quanto sia possibile lasciando le cose come stanno. Sono queste le riforme necessarie, non gli ottanta euro, che non hanno prodotto nuovo lavoro. La corruzione è un cancro che si manifesta con la moltiplicazione – fino a sei volte il costo reale – dei costi delle grandi opere pubbliche, fenomeno che si è manifestato nell’Alta Velocità, nell’Expo e nel Mose a Venezia, tanto che ci siamo chiesti se le opere servivano per le tangenti da distribuire tra maggioranza e opposizione o per lo sviluppo, orientandoci nettamente per la prima opzione.

Il presidente Renzi, e prima ancora Enrico Letta, fino a quando la magistratura di Milano, Venezia e quella di Firenze, con il Tav, non hanno scoperchiato la pentola degli imbrogli senza fine, hanno ignorato ciò che era stato denunziato, da un decennio, da studiosi seri, dalla Corte dei conti e dalla Vigilanza sugli appalti. La Commissione europea, nella relazione del 3 febbraio 2014 al Parlamento europeo, sulla corruzione in Italia ha scritto: «nelle grandi opere pubbliche la corruzione è stimata ben il 40% del valore totale dell’appalto (Corte dei conti). Grandi opere di costruzione come quelle per la ricostruzione a L’Aquila dopo il terremoto 2009, per l’Expo Milano 2015 o per la futura linea ferroviaria ad Alta Velocità Torino-Lione sono viste, nella sfera pubblica, come particolarmente esposte al rischio di distrazione di fondi pubblici e infiltrazioni criminali. L’Alta Velocità è tra le opere infrastrutturali più costose e criticate per gli elevati costi unitari rispetto a opere simili. Secondo gli studi dell’ingegnere Ivan Cicconi, autore del Libro nero della Tav, l’Alta Velocità in Italia è costata 47.3 milioni di euro al chilometro nel tratto Roma-Napoli, 74 milioni di euro tra Torino e Novara, 79.5 milioni di euro tra Novara e Milano e 96.4 milioni di euro tra Bologna e Firenze, contro gli appena 10.2 milioni di euro al chilometro della Parigi-Lione, i 9.8 milioni di euro della Madrid-Siviglia e i 9.3 milioni di euro della Tokio-Osaka [Relazione C.E. al Parlamento europeo, 03.02.2014, p. 13]. In totale il costo medio dell’Alta Velocità in Italia è stimato a 61 milioni di euro al chilometro. Una somma di circa sei volte superiore a quella spesa per la Parigi-Lione, per la Madrid-Siviglia e per la Tokio-Osaka».

La Commissione europea trascurò invece come altra possibile fonte di corruzione il Mose di Venezia, voluto fortemente da Romano Prodi, che aveva sponsorizzato l’Alta Velocità. A Venezia i fatti sono emersi in tutta la loro portata ed evidenza, e, per sintetizzare, come nella Tav l’opera è costata molto più del costo iniziale, con una distribuzione di mazzette che è avvenuta secondo criteri di eguaglianza. I maggiori beneficiari sarebbero stati, secondo Roberto Pravatà, ex vicedirettore del Consorzio di Venezia, politici di ogni colore, ex ministri, ex presidenti del Consiglio, funzionari, mediatori, consulenti e affaristi di ogni genere. Tutto quello che era accaduto nell’Alta Velocità, ed era stato denunziato da me nella XII legislatura, non era servito a niente. Una volta eliminati alcuni rompiscatole, l’andazzo era proseguito con lo stesso ritmo e le stesse modalità e spese enormi a carico della collettività, che ormai non si scandalizza più di niente. La relazione dello scrivente in Commissione Antimafia del 1996 sull’Alta Velocità, e sui suoi costi enormi rispetto alla somma prevista, fu insabbiata per volontà di quasi tutte le forze presenti in Commissione. E non fu mai discussa neppure in seguito. Era l’inizio delle larghe intese.

Ebbene, che ha fatto il governo italiano per curare il cancro? Assolutamente niente, o molto poco. Il presidente dell’Autorità anticorruzione, il 13 maggio 2014, ha dichiarato al «Corriere della sera» che l’inchiesta Expo 2015 ha rivelato che «la corruzione è il male italiano, perfino superiore a quello della criminalità organizzata». E ha aggiunto che crede nella prevenzione, se però si applica a un organismo sano, mentre Expo 2015 si è rivelato un organismo malato: «una evidente anomalia», con «Infrastrutture Lombarde», «una società privata che gestiva la stragrande maggioranza degli appalti pubblici». E ha concluso: «Mi stupisco dello stupore per quello che è accaduto. Non mi sembra del tutto inatteso».

La prima cosa da fare sarebbe stata quella di stabilire, fin dai tempi dello scandalo della Tav, con un decreto legge, una progressiva eliminazione delle migliaia di società partecipate, e un controllo pubblico della Corte dei conti sulle stesse società con capitale pubblico, tra cui la Tav, l’Expo-Milano e il Mose, in cui sono stati e sono gestiti enormi quantità di soldi pubblici. Soldi dei cittadini che andavano protetti fin dall’inizio. Inoltre andavano inasprite le pene per la corruzione, portandole a livello europeo, mentre oggi sono del tutto inadeguate. L’idea di vincere la lotta alla corruzione col disegno di legge anticorruzione in corso di discussione in Parlamento, preparato dal presidente Piero Grasso è illusoria. Con quello che sta accadendo, alla fine abbiamo avuto l’ennesima legge propaganda, con una serie incredibile di deroghe. E il coraggioso e puntuale lavoro compiuto dal M5S, con una schiera di parlamentari guidati da Massimo Enrico Baroni e decisi a varare una efficace legge anticorruzione, ha dovuto subire le prepotenze di potentissime lobbies presenti in Parlamento, in grado di pilotare le discussioni parlamentari e di vanificare il lavoro dell’opposizione. Anche le legge sulle lobbies, proposta da alcuni giovani parlamentari come Luigi Di Maio, Carlo Sibilia, Riccardo Fraccaro, Riccardo Nuti, Federico d’Incà e Giuseppe Brescia, ristagna e ciò favorisce la corruzione.

I gruppi di pressione, i gruppi di interesse e le lobbies la fanno da padrone in Parlamento. Riescono, attraverso la minaccia dell’uso di sanzioni, a influire sulle decisioni che vengono prese dal potere politico sia al fine di mutare la distribuzione di beni, servizi, oneri e opportunità, sia al fine di conservarla di fronte alle minacce di intervento di altri gruppi. In realtà i gruppi di pressione sono proiettati verso obiettivi specifici settoriali e non verso interessi generali. Occorre riconoscere che esistono stretti rapporti tra partiti e gruppi di pressione. In alcuni casi i gruppi di pressione controllano i partiti, cioè non solo finanziano l’attività dei partiti, ma possono anche decidere il reclutamento dei dirigenti del partito e il tipo di politica da seguire. Spesso i gruppi di pressione ostacolano fortemente la capacità dei partiti di perseguire interessi generali: il processo legislativo finisce per dover fronteggiare una serie di domande grezze e particolaristiche o generiche e vaghe. In alcuni casi i gruppi di pressione sono emanazione dei partiti o comunque ne ricevono un sostegno indispensabile (per esempio le cooperative rosse rispetto al Pci). Spesso i partiti subiscono i condizionamenti dei gruppi di pressione, che favoriscono processi corruttivi.

Nel mondo il fenomeno è diffuso ma spesso regolamentato; basti pensare alla tradizione nordamericana fino all’esame dei partners europei. Il primo Stato europeo a normare la materia è stato la Germania, con un processo di regolamentazione che parte dal 1951; i più recenti interventi sono avvenuti in Austria, Olanda e Francia che sono pervenuti a specifiche normative nel 2012. Da ultimo, è stata la volta dell’Inghilterra con il «Lobbyng Bill». In sostanza, a oggi sono 26 i paesi al mondo – di cui 10 europei – ad avere norme che regolamentano le attività delle lobbies. A questi si aggiunge l’Unione europea, ove la regolamentazione dei gruppi di pressione è stata affrontata dapprima dalla Commissione (con il Libro verde sulla governance europea del 2006 e con il successivo Libro bianco del 2011) che è giunta alla creazione, nel marzo 2007, di un registro europeo dei rappresentanti di interessi (purtroppo a iscrizione volontaria) e del relativo codice di condotta per i lobbisti; quindi dal Parlamento europeo che nel 2011 ha creato un registro comune europeo dei rappresentanti di interessi. Di fronte a questo fenomeno si staglia la sconsolante situazione italiana che ha visto negli ultimi quarant’anni naufragare decine di iniziative legislative sotto la forza di correnti politiche spesso trasversali alle forze parlamentari. Da ultimo si ricorda il tentativo dell’esecutivo Letta di adottare, lo scorso anno, un ddl per regolamentare le lobbies.

Il presidente Grasso si difende dicendo che il disegno di legge contro la corruzione è stato stravolto. In verità anche nella versione originaria non serviva a niente; era acqua fresca, una legge che lasciava intatti i meccanismi di corruzione. Gli appalti senza regole, gli aumenti dei costi a dismisura, le consulenze rimaste intatte. I settori a rischio corruzione sono le gare d’appalto, che neppure la legge sulla corruzione ha risolto. Anzi, tale legge, dopo una prima stesura accettabile, è stata stravolta con emendamenti inseriti, in violazione dell’art. 77 della Costituzione, da deputati della maggioranza che versavano in clamorosi e intollerabili conflitti di interesse, essendo portatori di interessi che andavano in contrasto con l’interesse generale.

Come concludere? Purtroppo sembra vincere su ogni altra considerazione lo stato d’animo di Pertini: la disperazione.