bicameralismo perfettodi Marcello Rossi

Non capisco perché alcuni – anzi, la grande maggioranza degli italiani, a quanto ci vogliono far credere – ritengano che leggere un disegno di legge due volte – una volta alla Camera e una volta al Senato – sia una perdita di tempo. Io penso, invece, che le leggi (e i relativi decreti attuativi, che però nessuno prende in considerazione) siano momenti importanti della vita associata e allora leggerle due volte è sempre meglio che leggerle una volta sola, tanto che si potrebbe pensare che il bicameralismo si sia chiamato “perfetto” proprio per i vantaggi indotti da questa doppia lettura.

Possibile che i nostri costituenti – i Mortati, i Moro, i Calamandrei, i Codignola, i Terracini – non si siano posti il problema se una doppia lettura fosse una perdita di tempo, o no? Possibile che in un momento di grande difficoltà per il paese, che usciva dalle macerie morali e materiali della guerra, si sia dato vita a un inutile doppione del potere legislativo? Non era questo apparente doppione un di piú di democrazia di cui il paese aveva bisogno? E oggi possiamo davvero rinunciare a questo di piú di democrazia, sposando le “raffinate” elaborazioni di una Maria Elena Boschi che ritiene che il bicameralismo “perfetto” sia solo una perdita di tempo?

Ma allora il Parlamento deve rimanere quello di sempre? Non voglio dire questo. Un dimagrimento delle due Camere forse si impone, per cui 200 senatori e 400 deputati, pagati la metà di quello che oggi percepiscono, sarebbero più che sufficienti. Ma sufficienti per fare che cosa? Per fare le leggi e non per approvare i decreti legge del governo. Certo, se il potere legislativo si comprime sempre di piú fino ad annullarsi nell’esecutivo, allora il Senato serve veramente a poco e si potrebbe addirittura eliminarlo, ma la stessa cosa si potrebbe pensare anche per la Camera. E nel contempo si dovrebbe eliminare anche l’art. 76 della Costituzione che vuole che «l’esercizio della funzione legislativa non [possa] essere delegato al governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti».

Ho sentito dire, tra le ragioni che giustificano questo nuovo Senato, che “questo è il progresso”, “questo ci chiede l’Europa” (e forse anche l’America): possiamo noi andare contro il progresso, contro l’Europa, contro l’America?

Si dice sempre piú spesso che le regole si fanno tutti insieme appassionatamente, e per dare credibilità a questa affermazione si porta a esempio la partita di calcio che non si potrebbe giocare se le due squadre che si contendono la vittoria non si attenessero al rispetto di un’unica e comune regola del gioco. Anche se non vedo che rapporto ci sia tra una partita di calcio e il fare politica, devo ammettere che la metafora non mi meraviglia affatto perché questi politici della Seconda repubblica nelle loro elaborazioni fanno continuamente riferimento al calcio: spesso occorre “fare il catenaccio” o “giocare in contropiede”, e, quando i tempi stringono, siamo ai “supplementari” o addirittura ai “rigori”. E c’è chi è piú raffinato e si addentra in schemi di gioco che per il cittadino comune sono un mistero. Una volta erano gettonati i filosofi antichi – Platone e Aristotele in particolare – e i detti latini erano pane quotidiano dei parlamentari. Calamandrei e Togliatti citavano Dante, e De Gasperi, che era di formazione austriaca, era ritenuto «uomo di scarse lettere e di poche letture»1. Altri tempi, certo, e altra cultura.

Tornando alle regole da scrivere tutti insieme, l’idea non mi convince. Si prendono impegni comuni quando si ha una stessa formazione e si vogliono raggiungere gli stessi fini. Quando, in sintesi, si ha una stessa filosofia di vita, o, come si diceva una volta, una stessa Weltanschauung. Nella società americana, per esempio, le persone che contano sono liberali – o almeno cosí si crede – e di conseguenza Repubblicani e Democratici possono scrivere le regole insieme. Nel loro liberalismo, tutti affermano e confermano il capitalismo per cui le regole non possono essere se non comuni e l’alternanza al potere dei due partiti – o meglio, delle due lobbies – è la condizione irrinunciabile del fare politica.

Ma noi possiamo pensare secondo questi parametri? La nostra storia politica è storia di liberali, di cattolici, di anarchici, di socialisti, di comunisti, di fascisti, di azionisti, che di volta in volta hanno combattuto per il proprio credo. I liberali del Regno d’Italia si affermarono prima sui cattolici e poi sui socialisti, i fascisti sui liberali, e sui fascisti gli antifascisti, e le regole che quest’ultimi scrissero alla fine della Seconda guerra mondiale si chiamarono Costituzione della Repubblica italiana. Precisava Calamandrei: «Durante il periodo della lotta clandestina le sole forze politiche vive sono state quelle raggruppate intorno ai comitati di liberazione: vive perché disposte a lottare e a sacrificarsi. A queste stesse forze, e ad esse sole, spetta oggi il compito di ricostruire il nuovo Stato italiano. Ad esse sole: questo è uno dei punti su cui occorre avere idee chiare»2.

Dopo settant’anni, a chi spetta la ricostruzione dello Stato italiano, se di ricostruzione si deve parlare? Se fascismo e antifascismo sono ormai realtà obsolete (ma la cosa, secondo me, non è cosí scontata), due altri concetti – che, tra l’altro, erano già presenti nell’antifascismo della Costituzione – possono fare da spartiacque: capitalismo e socialismo, liberalproprietari e liberalsocialisti, diceva Walter Binni, concetti assolutamente alternativi che non ammettono alcuna mediazione.

Ricostruzione dello Stato è intervento sulla Costituzione, cioè su quella Carta mai attuata nella Prima repubblica – e non a caso – per volontà precisa della Democrazia cristiana. «Per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa»3, dirà Calamandrei, riandando alle origini della Carta, ma in realtà le forze di destra cercarono con ogni mezzo di contrastare questa rivoluzione che la Costituzione prometteva perché la sua attuazione non sarebbe stata cosa da poco: avrebbe significato dar di balta a quell’organizzazione statuale su cui la borghesia uscita dalla Seconda guerra mondiale stava costruendo il suo potere.

Questo il paradosso della politica italiana: aver realizzato una Carta costituzionale che il partito di maggioranza – la Democrazia cristiana –, intriso di autoritarismo, clericalismo, bigottismo, neofascismo, non poteva usare, pena la sua disfatta. Ed è questo un paradosso che rimarrà nel tempo, perché è divenuto sempre piú chiaro che l’attuazione della Costituzione avrebbe comportato un governo che avrebbe dovuto assumere i diritti sociali come fondamentali per la vita associata e muoversi di conseguenza. Ancora Calamandrei, percependo il paradosso, cosí commentava: «abbiamo avuto per venti anni, sotto il regime fascista, l’esperimento di un ordinamento giuridico a doppio fondo, nel quale, dietro lo scenario venerando dello statuto albertino, un regime di assolutismo dittatoriale faceva tranquillamente i suoi affari. Non vorremmo che anche la Repubblica diventasse un apparato di illusionismo costituzionale dello stesso stampo»4.

Illusionismo costituzionale che è durato per i cinquant’anni del potere democristiano, che è continuato con Berlusconi e che oggi purtroppo sembra addirittura accentuarsi. Sí, perché Renzi e le “appassionate” donne (che non sembrano allieve di Dolores Ibárruri) che lo affiancano, rifiutando come la Democrazia cristiana la Costituzione, non solo non la attuano ma la stravolgono, sostenendo che ormai “il progresso” chiede altre regole e affermano di aver aperto con questa loro azione una stagione “storica” e “rivoluzionaria”. Illusionismo costituzionale e linguistico! Non resta che prendere atto che ormai le parole che definiscono gli atti politici hanno perso il loro significato originario ed è calata su di noi quella notte in cui tutte le vacche sono nere.

A elezioni avvenute, si deve sapere subito chi governa e chi farà l’opposizione. Questa la caratteristica della nuova legge elettorale: cosí sembra pensi la maggioranza della classe politica. Permettetemi di non essere d’accordo perché la nostra è una Repubblica parlamentare e quel “parlamentare” qualcosa vorrà pur dire. E secondo me vuol dire che le elezioni dovrebbero servire a determinare la rappresentanza parlamentare, mentre i governi dovrebbero farsi in parlamento. E questo significa anche che occorrerebbe eliminare qualsiasi premio di maggioranza – che non a caso nel 1953 fu chiamato «legge truffa» – e qualsiasi sbarramento: una testa un voto, si diceva un tempo, e si pensava che questa fosse la condizione primaria della democrazia.

Ma c’è qualcosa di piú. Una legge, che attraverso un premio di maggioranza stabilisce chi governa e chi si oppone, mostra di «aver tradito lo spirito di cooperazione democratica lasciato dalla Resistenza». Se nel 1953 «il premio di maggioranza fosse stato raggiunto, la democrazia si sarebbe definitivamente trasformata in oligarchia […]. E i cittadini di nuovo ridiventati sudditi; e rafforzata quella distinzione tra dominatori e dominati, quella fatale scissione e ostilità tra governo e popolo, che ha costituito per secoli la tara italiana e che la Resistenza aveva creduto di poter finalmente superare»5.

Dunque, premio di maggioranza che genera un’oligarchia: questo il problema. Ma, si obietta, il premio di maggioranza serve a determinare la governabilità, che in Italia è sempre stata labile. Niente di piú falso. In Italia la governabilità è sempre stata fin troppo forte, e per molteplici ragioni, non ultima la guerra fredda. Senza portare a esempio il fascismo che, in quanto dittatura, governò ininterrottamente e senza opposizione per vent’anni, basterebbe soffermarsi sulla Democrazia cristiana che nei cinquant’anni successivi alla Seconda guerra mondiale – gli anni che oggi sono detti della Prima repubblica – determinò le sorti del paese. Chi si ferma alla constatazione che questi governi democristiani in media non duravano piú di un anno, e con questo giustifica la labile governabilità, non va oltre il proprio naso: i governi si alternavano secondo il potere momentaneo delle diverse correnti del partito, ma sempre governi democristiani erano. Il fatto è che la governabilità non dipende da un premio di maggioranza, ma dalla capacità di un partito di fare politica. Per tornare all’esempio sopra citato, come avrebbe potuto la Democrazia cristiana governare per cinquant’anni senza premio di maggioranza, se non fosse stata un partito capace di esprimere una leadership tra le forze moderate?

E allora fine del bicameralismo perfetto, regole realizzate da tutto quanto il ceto medio e per il ceto medio, riforma elettorale centrata sul premio di maggioranza sono la spia di una mutazione genetica che si vuol imporre al paese. E tutto fa prevedere che si andrà verso una nuova forma di oligarchia in cui ancora una volta il popolo sarà chiamato a pagare duramente errori non suoi. E tuttavia la storia non finisce qui.

1 P. Togliatti, Discorso su Giolitti, Roma, Rinascita, 1950.

2 P. Calamandrei, Funzione rivoluzionaria dei comitati di liberazione, «Il Ponte», n. 2, maggio 1945.

3 P. Calamandrei, «La Costituzione e le leggi per attuarla», in Dieci anni dopo. 1945-1955. Saggi sulla vita democratica italiana, Bari, Laterza, 1955.

4 P. Calamandrei, Repubblica pontificia, «Il Ponte», n. 6, giugno 1950.

5 P. Calamandrei, La Resistenza ha resistito, «Il Ponte», n.6, giugno 1953.