La libertà nel socialismo1

Quando nell’ormai lontano 1984 con Enzo Enriques Agnoletti e Giacomo Becattini, di fronte all’ennesima difficoltà che la rivista attraversava, decidemmo di continuare nell’“impresa Ponte”, lo facemmo perché già allora a noi sembrava che tutta una certa realtà politica – e non solo italiana – cercasse di «respingere dall’Europa il mondo del socialismo, non solo quello “reale” ma anche quello ideale, profittando degli errori, della involuzione, della rozzezza, della politica autoritaria dei paesi dell’Est».

«Una posizione, la nostra, – commentava Enzo Enriques – per molti anni difficile, spesso isolata, spesso rappresentata da gruppi o componenti minoritari, più che da partiti: una posizione che per alcuni anni è sembrata trovar posto all’interno del Partito socialista, fino a che […] non è parso a molti che quel partito avesse tagliato i ponti […] con il proprio passato ideale». E proseguiva: «Si aggira in Europa una specie di nuovo fantasma: il socialismo è morto? La teoria socialista, il marxismo, sono definitivamente superati e inadatti a spiegarci la realtà?»2

È una domanda, questa, che in questi ultimi venticinque anni sul «Ponte» è ricorsa molto spesso. Addirittura direi che è la domanda del «Ponte». Il socialismo è morto?

Se per socialismo intendiamo il Partito socialista italiano, la risposta è abbastanza scontata: il Partito socialista è morto, e non da ora. È morto con il fallimento del primo centrosinistra, è morto con l’idea craxiana che il compito del partito fosse quello dell’occupazione del potere, è morto con l’idea che per fare politica occorressero molti milioni di lire, addirittura miliardi, e che fosse lecito procurarseli in qualunque modo. È morto nell’intreccio di affari e politica, fino a rendere gli uni e l’altra inscindibili.

Ma questo nel lontano 1984 era già avvenuto. Lo fa presente lo stesso Enzo Enriques ricordando l’azione di Tristano Codignola: «È interessante che un uomo come Codignola, che per quarant’anni con tenacia ed eccezionale capacità di inventiva politica unita a grande concretezza di giudizio pratico si è dedicato alla ricerca costante di uno strumento politico in grado di portare avanti – con la convergenza di altri movimenti, gruppi e partiti – quella proposta di grande riforma della società che da sempre aveva inseguito, abbia concluso per considerare prevalente su tutto una nuova progettualità e anche una nuova teoria della sinistra. Era indubbiamente la constatazione di un fallimento, che se era così esplicito nel Partito socialista in quanto rinuncia a ogni progetto alternativo, coinvolgeva però tutta la sinistra»3. E la nuova progettualità di Codignola dette vita alla Lega dei socialisti che, per quanto per l’improvvisa scomparsa del suo fondatore sia durata l’espace d’un matin, permise però a molti di noi di ricollegare idealmente il Codignola della Lega con il Codignola del Liberalsocialismo. Si ebbe l’impressione che «Il Ponte» tornasse alle sue origini.

Ma tornare alle origini significava anche prendere contatto con forze nuove, estranee alla tradizione italiana, che davano del marxismo un’interpretazione non convenzionale. Per questo stabilimmo un rapporto con Henri Lefebvre4 e riprendemmo i contatti con Noam Chomsky, già collaboratore del «Ponte» in occasione della lunga vicenda del Vietnam, perché ci commentasse l’America di Reagan e le possibili vie d’uscita.

Un ritorno alle origini che era perciò anche un andare avanti in una linea diversa da quella che la sinistra ufficiale (Pci e Psi) aveva battuto fino ad allora. È con questa luce che va letto il numero speciale del gennaio-febbraio 1986 intitolato Liberalsocialismo. Quarant’anni prima, nell’aprile 1946, Tristano Codignola in una lettera ad Aldo Capitini aveva delineato un possibile programma per un rinnovato Partito d’Azione di matrice chiaramente liberalsocialista in cui anche Capitini, che si era rifiutato di far parte del Partito d’Azione, avrebbe trovato il suo posto: «impedire ad ogni costo che i socialisti finiscano per diventare anticomunisti, che si considerino centro d’equilibrio fra P.C. e D.C.; impedire, per quanto possibile, che il P.S. si infogni nel conformismo e nel trasformismo; indicare d’altra parte al P.C. le soluzioni democratiche della rivoluzione sociale, volgerlo a interessi più vasti di quelli della classe operaia. Questa funzione non potremo svolgere dentro il P.S. o il P.C. In quest’ultimo saremmo inesorabilmente travolti dalla disciplina gesuitica che vi domina; nell’altro, saremmo una setta fra le molte sette, chiusa e ostile alle altre, e saremmo trascinati sul terreno delle sterili lotte interne e degli inevitabili compromessi. Da fuori, invece, se sapremo essere a sinistra del P.S., in certi casi anche del P.C., avremo la nostra funzione, dura ma utile, forse non per noi ma per le sinistre.

Certo, ciò significa ricostruire il partito su nuove basi: gettare la zavorra (ce n’è ancora, specialmente nel Nord): non preoccuparsi di ridurci a partito ancora più piccolo, purché costituito di pattuglie attive, vivaci, decise, rivoluzionarie, sparse dovunque nei più piccoli centri. Non movimento di intellettuali, anzi movimento di gruppi popolari (piccoli ma chiaramente orientati), certo guidati da intellettuali. Questa trasformazione richiederà tempo e battaglie difficili, ma mi pare sia l’unica via per fare del P.d’A. una cosa politicamente seria, nel momento attuale. Naturalmente, ciò significa abbandonare il piano elettorale, e mirare al futuro, ai dieci o vent’anni avvenire. Socialisti e comunisti non ci aiuteranno certo: essi si dilettano a dimostrare in ogni occasione che siamo morti, arcimorti: a parte l’ingenerosità, essi non comprendono quanto debbono a noi, e quanto perderebbero se noi fossimo morti davvero»5.

Lette sessant’anni dopo, queste note di Codignola sembrano rivelatrici di un pericolo di involuzione della sinistra che poi è divenuto realtà. I socialisti sono diventati anticomunisti (e i comunisti antisocialisti) e per un certo periodo, quello craxiano, il più oscuro della loro storia, hanno pensato di essere il centro di equilibrio tra Pci e Dc, l’ombelico della politica italiana. Il Partito comunista per cinquant’anni ha avuto come faro l’Unione Sovietica e ha messo in soffitta la ricerca di «soluzioni democratiche della rivoluzione sociale».

Non ho nulla in contrario a riconoscere che l’espressione «soluzioni democratiche della rivoluzione sociale» è vaga e indefinita, anche se di grande effetto, ma bisogna tener presente che Codignola scriveva a una persona che sulle «soluzioni democratiche della rivoluzione sociale» aveva giocato gran parte della sua vita e non aveva bisogno di ulteriori specificazioni. Sosteneva Capitini: «siamo socialisti, ma non possiamo ammettere il totalitarismo burocratico statalistico; siamo liberali, ma non possiamo ammettere il dominio del capitalismo che è nel liberismo. […] Questa vita della “libertà” era da vedere come intrinseca al socialismo stesso […]. Socialismo voleva dire l’avanzare della classe lavoratrice con i suoi giovani e la sua sete di cultura; insomma doveva venire, al posto dello Stato cattolico-borghese, uno Stato intellettual-popolare»6. E Walter Binni, a commento del pensiero di Capitini, ribadiva: «Mi preme chiarire che questa parola [liberalsocialismo], coniata soprattutto da Capitini, voleva indicare un “socialismo” che proponendosi obbiettivi radicali da un punto di vista sociale (socializzazione dei mezzi di produzione, messa in discussione della proprietà privata nel momento in cui essa assumeva l’aspetto di sfruttamento dell’uomo sull’uomo), permettesse una circolazione di libertà, in qualche modo una nuova “libertà”. Il liberalsocialismo suscitava il problema di come in una società socialista si potessero far rivivere la libertà e la democrazia ma non nei termini “socialdemocratici” del “socialismo della libertà” che è cosa assai diversa»7. E ancora: «Per Capitini e per alcuni di noi, diversamente da altri, il liberalsocialismo non era un contemperamento di liberalismo e socialismo, ma la strutturazione di una società radicalmente socialista entro cui riemergesse una libertà anch’essa nuova e ben diversa dalla libertà formale e ingannevole dei sistemi liberal-capitalistici. Il nostro liberalsocialismo aveva al centro il problema della “libertà nel socialismo” e non quello socialdemocratico del “socialismo nella libertà”»8.

Anche la seconda parte della lettera di Codignola presenta motivi di grande interesse. Si delinea un programma per ricostruire un partito nuovo della sinistra e non un partito del ceto medio. Gettare via la zavorra e costruire pattuglie attive, vivaci, decise, rivoluzionarie. Non movimento di intellettuali ma movimento di gruppi popolari guidati da intellettuali. E non avere furia: abbandonare il piano elettorale perché la creazione richiederà tempi lunghi e battaglie difficili. Sembra un programma per l’oggi, un programma per una sinistra in disfacimento – o meglio, già disfatta – che annaspa tra il 2 e il 3% dei consensi.

Questo il clima in cui circa venticinque anni or sono «Il Ponte» riproponeva i problemi del socialismo. E sulla stessa lunghezza d’onda è il dibattito Quale economia politica per il socialismo? aperto da Giacomo Becattini all’inizio dell’85. Vi parteciparono i grandi nomi dell’economia politica di sinistra del tempo: Caffè, Napoleoni, Lunghini, Graziani, De Vecchi, La Grassa, Giovannini, Jossa e ovviamente, in apertura e in chiusura, Becattini.

Riletto ventiquattro anni dopo, il dibattito presenta senza dubbio posizioni datate che gli avvenimenti si sono incaricati di ridimensionare, ma, accanto a queste posizioni, c’è in tutti gli interventi un’amara constatazione dell’inadeguatezza della sinistra. Chi più chi meno, tutti lamentano un abbandono troppo frettoloso dei canoni fondanti del socialismo. Commenta Becattini: «lo stato d’animo dominante è l’amarezza; amarezza per come sono andate le cose in Italia nell’ultimo decennio, per le speranze deluse, per le possibilità dissipate, per i pericoli all’orizzonte»9. Tutte cose determinate non da un destino cinico e baro ma da un’inadeguatezza di pensiero propria degli uomini della sinistra. Lo fa presente Graziani in una parte del suo intervento che è uno sfogo accorato contro chi crede di aver trovato senza troppo lavoro e senza grande travaglio una nuova via per la sinistra.

«Pullulano al giorno d’oggi uomini che pensano e militano nella sinistra, i quali sono sinceramente persuasi del fatto che i movimenti del Sessantotto fossero viziati da autentici errori teorici, e che di conseguenza la sinistra debba oggi battere altre strade: non più la lotta di classe e la rivendicazione sindacale, bensì la lotta per la pace e per la salvezza della natura. Nobili scopi questi, che purtroppo questi nobili militanti ritengono di poter perseguire con la sola arma della predica. Ma le prediche persuadono soltanto coloro che sono già persuasi. […] Grazie ai movimenti pacifisti e verdi, oggi sappiamo tutti che il mondo è trasformato per metà in un arsenale e per l’altra metà in un cumulo di rifiuti. Ma non sapendo bene perché ciò avvenga, non ci resta che pensare che tutto sia dovuto alla cattiveria dei governanti. […] Io non voglio dire che tutti i mali di oggi, guerra e inquinamento compresi, derivino, come avrebbe detto un marxista ortodosso, dalla struttura di classe della società. Ma voglio certamente dire che la teoria marxista, oggi tanto disprezzata, ci dava almeno una traccia di interpretazione sulla quale discutere e costruire, mentre i predicatori di oggi non ci danno nemmeno quella.

Qui emergono a mio avviso le debolezze culturali della sinistra. […] Se la sinistra avesse avuto una preparazione teorica adeguata, essa saprebbe oggi reagire alla sconfitta politica con un’analisi precisa e argomentata. Non avendo invece una base teorica solida, la sinistra non ha saputo fare altro che ripudiare in fretta e furia il marxismo, denunciare gli errori del keynesismo, e rifugiarsi nel moralismo predicatorio dei pacifisti, ecologisti, verdi, e via discorrendo, e degradando!»10.

Il 1989 è un anno importante per la sinistra. Il crollo all’Est dei regimi stalinisti, la caduta del Muro di Berlino, la perestrojka di Gorbaciov in Unione Sovietica autorizzavano a prevedere per la sinistra occidentale – non solo italiana – una riformulazione delle posizioni tradizionali. In Italia si aprì, a opera del Pci, un processo di ripensamento, rifondazione e ricostruzione del partito. A prima vista sembrò che la capacità critica dell’intellighènzia del partito fosse così larga da mettere in campo lo scioglimento del vecchio partito, il Pci, e la creazione di un partito nuovo, il Pds, che avrebbe dovuto interpretare con categorie adeguate la nuova realtà che si andava delineando. Di fatto ci si accorse quasi subito che, al di là del cambiamento del nome, gli uomini dell’ex Pci non erano capaci di andare oltre un “rinnovamento nella continuità”, senza rendersi conto che il patrimonio della sinistra italiana era molto più vasto di quello che il Pci poteva offrire e del continuismo di togliattiana memoria. Né, a contrario, ci si poteva accontentare del riformismo senza riforme che il Psi di Craxi proponeva al paese.

«II Ponte», intuendo questa realtà variegata della sinistra, ritenne opportuno mettere in cantiere una ricerca sul socialismo di sinistra (non sulla sinistra socialista) ripercorso nella sua storia, nelle sue elaborazioni fattive e nelle sue illusioni, nei suoi successi e nei suoi fallimenti. Occorreva rivisitare l’esperienza di chi a suo tempo si era posto contro lo stalinismo e contro la forma-partito organizzata sul centralismo burocratico.

La ricerca fu affidata alla cura di Luciano Della Mea che per la sua lunga militanza nel socialismo di sinistra accanto a Raniero Panzieri, Stefano Merli, Riccardo Lombardi e Lelio Basso dava certezze sulla riuscita del lavoro.

Nella crisi del socialismo reale, «Il Ponte» usciva con un numero intitolato Viva il socialismo. Era una provocazione, ma era anche la constatazione – o meglio, la speranza – che, sulle orme di quel liberalsocialismo capitiniano, binniano e codignoliano di cui dicevamo prima, si potesse ricostruire una via per la sinistra. Di questo Luciano Della Mea era più che certo. «Io considero il socialismo di sinistra, non da oggi, […] un’utopia: ieri pensavo che essa con il tempo si sarebbe senz’altro realizzata, e intanto bisognava darsi da fare con azioni, obiettivi, riflessioni subitanei e adeguati, prestando attenzione a tutto quel che di positivo in quel senso avvenisse su tutta la terra; oggi, invece, io penso che quella utopia, e in tempi più brevi, potrebbe realizzarsi ma non come inevitabile sbocco storico»11. Più pessimista, e in definitiva più disincantato, Stefano Merli: «Oggi che lo stesso Pci sembra a tratti recuperare vistosamente, nel suo itinerario di revisione e di ricerca, elementi e spezzoni di quella cultura politica, pur senza dichiararne mai la fonte, ciò può costituire la rivincita postuma di quella tradizione, la base per un ulteriore passo in avanti dell’intero movimento operaio? Noi ne dubitiamo fortemente […]. Il riconoscimento storiografico e politico del socialismo di sinistra che intendiamo ancora oggi perseguire si accompagna in noi al riconoscimento storico della sconfitta politica da esso subita e all’indicazione di un’autocritica che possa davvero servire oggi a recuperarne, ma su altro impianto, le istanze non caduche»12. Inutile dire che della sconfitta, secondo Merli, era fondamentalmente responsabile il Pci che «traduceva in italiano una politica che era confezionata altrove e veniva applicata omogeneamente (anche se con creatività in qualche situazione, fra cui certo quella italiana) dal partito comunista internazionale»13. E Merli proponeva: «Occorrerebbe far superare definitivamente il vecchio metodo togliattiano – e il togliattismo è stato una forma dello stalinismo all’italiana – di innovare conservando, con il risultato paralizzante di non innovare né conservare, o di innovare poco e conservare molto. Incalzare questa revisione è la vera precondizione dell’ulteriore possibile rinnovamento del Pci: l’uno senza l’altro finisce col bloccarsi»14

All’89 noi del «Ponte» eravamo vicini a Luciano Della Mea nell’ analisi del socialismo di sinistra, ma col passare del tempo e con lo svolgersi degli avvenimenti dobbiamo riconoscere che Merli aveva avuto una vista più lunga. Aveva cioè intuito che il Pci non si sarebbe evoluto spostandosi sul socialismo di sinistra, ma in tutt’altra direzione e avrebbe mantenuto – riveduta e corretta – quella linea tanto cara a Togliatti e a Berlinguer dell’abbraccio con i cattolici. Questa posizione lo portava tuttavia a rivalutare le posizioni del Psi, e in particolare l’azione che Craxi in quel momento stava attuando per contrastare la politica berlingueriana, il che per noi, dopo quanto era accaduto nell’81 con la Lega dei socialisti, era inaccettabile.

Gli anni novanta sono fondamentali per un discorso sul socialismo in Italia, fondamentali a contrario, nel senso che sono questi gli anni in cui si comprende con chiarezza che l’ex Pci, trasformatosi in Pds prima e in Ds poi, nella sua “rigenerazione” non intende battere le vie del socialismo.

Noi del «Ponte» questa mutazione genetica dell’ex Pci, al contrario di quanto ci era accaduto con il Psi, l’abbiamo colta con un certo ritardo, tanto che ancora nel febbraio del ’93 lanciavamo l’idea di una costituente per la sinistra.

«Questa rivista ritiene che i partiti sopra menzionati [Pds, Psi, Rifondazione comunista] si dovrebbero autosciogliere per dare vita, attraverso un’assemblea costituente, opportunamente preparata, a un partito unico della sinistra laica e socialista italiana, il quale, con una pluralità di proposte adeguatamente articolate sui singoli problemi, ma unitarie nell’ispirazione centrale e nelle linee essenziali di movimento, raccolga nel paese e in parlamento le aspirazioni delle grandi masse dei lavoratori onesti “del braccio e della mente”, come suonava la formula ottocentesca.

La basi “teoriche” e ideali di una tale rifondazione della sinistra laica e socialista non possono essere specificate oggi […] ma si può anticipare fin d’ora che tali basi dovranno liquidare, senza mortificanti pentitismi, ciò che di irrimediabilmente datato vi è nel socialismo europeo, restaurando e ridefinendo, al tempo stesso, ciò che vi è di ancora valido nella critica socialista del capitalismo»15.

Il punctum dolens era proprio quella «critica socialista del capitalismo» che l’ex Pci non era in grado di fare. La caduta del Muro e l’implosione dell’Unione Sovietica hanno mostrato che il legame tra il comunismo del Partito comunista italiano e quello dell’Unione Sovietica era molto più consistente di quanto gli apparenti «strappi» potevano far pensare. Non era una questione di apparati burocratici: per il popolo del Pci l’Unione Sovietica era il comunismo e la sua fine era la fine del comunismo. L’ex Pci non aveva un apparato teoretico né una prassi consolidata in grado di proporre «soluzioni democratiche della rivoluzione sociale» diverse da quelle che prima Togliatti e poi Berlinguer, con una evidente continuità, avevano messo in campo.

Quest’assenza di un’alternativa determinava in una minoranza nostalgica, ma aggressiva, l’idea di “rifondare” il comunismo e negli altri – la grande maggioranza – l’idea di stemperare il comunismo in un partito democratico di sinistra, non altrimenti qualifìcato, che, privo di una sua visione del mondo, non poteva dar luogo a una critica né “socialista” né di altro tenore dell’americanismo e finiva per accettare l’esistente, magari corretto nelle sue contraddizioni più eclatanti, legittimando l’ipotesi heideggeriana – non so se più lucida o più fosca – secondo cui capitalismo e comunismo avrebbero finito, con il tramonto dell’Occidente, per camminare a braccetto.

Ma l’esistente era espresso al meglio da una nuova destra che Berlusconi, un “imprenditore dell’etere”, aveva costituito. Non è questo il luogo per analizzare la genesi e lo sviluppo di Forza Italia, ma noi del «Ponte» da subito abbiamo posto l’accento sul fatto che Berlusconi era essenzialmente un “allievo” di Craxi e che il berlusconismo si poteva leggere come un’evoluzione – forse la più coerente – del craxismo. Quella mutazione genetica che all’inizio degli anni ottanta aveva colto il Psi, a metà degli anni novanta approda a Forza Italia con un programma di anticomunismo piduista e di integralismo cattolico che miete consensi tra tutti coloro che per le ragioni le più diverse avevano tollerato obtorto collo la Repubblica democratica fondata sul lavoro e nata dalla Resistenza. Berlusconi ha un apparato massmediale di grande rilevanza e di grande efficacia e prima, con l’aiuto dei fascisti e della Lega, sbaraglia la «gioiosa macchina da guerra» che Occhetto credeva di aver messo in piedi e poi impone la sua idea di governo, che si rivela una gestione mafiosa del potere unita alla realizzazione spudorata dei propri interessi personali.

In Berlusconi l’italiano medio ritrova se stesso: poca cultura, assenza di grandi ideali sociali, una buona dose di qualunquismo e di cinismo, e, nella difesa della “roba”, un comportamento mafioso e una furbizia creativa. E il centrosinistra resta a guardare, stordito dai molti consensi – un quarto dell’elettorato – che Berlusconi riesce a mettere insieme. Poco importa che questo successo sia realizzato contro la Costituzione e contro le leggi ordinarie: la nuova regola è che il consenso di per sé lava ogni bruttura e dà diritto a governare.

Contro questo assunto noi del «Ponte», insieme al circolo «Giustizia e Libertà» di Roma, realizzammo nel settembre 1999 una tavola rotonda16. Si sosteneva, secondo l’art. l0 del decreto pres. 30 marzo 1957, n. 361, l’ineleggibilità di Berlusconi in quanto titolare di una concessione statale. Il problema tuttavia non era giuridico ma politico. La Giunta per le elezioni della Camera dei deputati già nel 1994 aveva valutato se ricorresse nei confronti di Berlusconi la causa d’ineleggibilità di cui all’ art. l0 testé men-zionato e aveva concluso negativamente in base alla considerazione che egli non era titolare di tali concessioni nella sua qualità di persona fisica, giacché tale titolarità spettava alla società Fininvest, né in qualità di rappresentante, amministratore o dirigente di tale società, in quanto nella Fininvest queste cariche erano tenute da persone di sua fiducia, ma non da lui personalmente. Una considerazione discutibilissima in quanto non prendeva in considerazione il fatto, senz’altro non irrilevante, che della Fininvest Berlusconi era il padrone, e cioè qualcosa di più che rappresentante, amministratore o dirigente. Si arrivava così al paradosso giuridico che la legge, secondo la Giunta per le elezioni della Camera dei deputati, statuiva l’ineleggibilità di figure minori quali erano i dipendenti dell’azienda, ma non quella dei padroni. «Il pericolo che corriamo è tremendo, commentava Paolo Sylos Labini, ma la gente non se n’è resa ancora conto. Neanche i democratici di sinistra se ne sono resi conto e di questa loro “disattenzione” pagano loro stessi le conseguenze».

Era disattenzione? Si può nutrire qualche dubbio dal momento che i Democratici di sinistra e i loro alleati non hanno mai voluto affrontare seriamente l’anomalia, tutta italiana, del conflitto di interessi. È come se gli ex Pci, provenendo da un’anomalia, anch’essa tutta italiana, quale fu la conventio ad excludendum, volessero mostrare la loro superiorità morale e politica accettando quale avversario anche chi giocava una partita scorretta in quanto giocata con armi immensamente superiori a quelle di cui loro disponevano; oppure, molto più pedissequamente, sottovalutando la forza dell’ avversario, che della politica era un novizio, pensavano di condizionarlo con la loro esperienza parlamentare di lungo corso, magari trovando con lui anche un punto d’incontro. Ma tutto questo rifletteva molto chiaramente il fatto che i Democratici di sinistra avevano ormai rinunciato all’idea di un mondo “altro”, di un mondo, cioè, che non fosse quello del capitalismo. Il socialismo, che è socializzazione dei mezzi di produzione e di molte altre cose ancora, era ormai uscito dal loro orizzonte e anche l’altra sinistra (o sinistra “radicale”, o sinistra Arcobaleno, o sinistra chissà come) sembrava molto più attratta dai problemi dell’ambientalismo e di un vago e inconsistente pacifismo che non da quelli della socializzazione.

Un esempio di questa trasformazione che, secondo me, ha i caratteri di una mutazione genetica è dato dall’assunzione da parte di tutta la classe politica dell’idea dell’«alternanza» quale massima espressione della democrazia. L’idea, che è di matrice anglosassone-statunitense, forse è buona per i conservatori e i democratici di quei paesi i quali, assumendo ambedue gli schieramenti il capitalismo come il migliore dei mondi possibili, combattono una battaglia politica non di trasformazione, ma di miglioramento, dell’esistente. È un’idea, questa, che fino a poco tempo fa non si addiceva né alla destra nostrana né alla sinistra, che si ponevano alternative l’una all’altra, né si addiceva assolutamente al socialismo che nasce per distruggere il capitalismo e non per giocare con esso una partita di “alternanza”. L’alternanza, poi, porta con sé il “nuovo riformismo” che, nella crisi delle ideologie, si addice in definitiva ad ambedue gli schieramenti. Destra e sinistra fanno a gara a chi è più riformista: il guaio è che talvolta le riforme che propongono purtroppo riescono anche ad attuarle.

Noi del «Ponte» (e, per non cadere in un cahier des doléances, ricordo le brutture più eclatanti) avremmo fatto volentieri a meno della riforma del Titolo V della Costituzione; della legge 30 sul precariato; delle molte leggi ad personam e delle leggi-vergogna che il precedente e l’attuale governo Berlusconi hanno varato; del Porcellum, la famigerata legge elettorale che, a detta dell’ ultimo governo di centrosinistra, avrebbe dovuto essere immediatamente cambiata; di quella particolare politica estera che tanto i governi di centrodestra quanto quelli di centrosinistra hanno attuato in barba all’articolo 11 della Costituzione. E potremmo continuare, ma per avere un quadro esauriente credo basti sfogliare, anche a volo d’uccello, «Il Ponte» degli ultimi dieci anni e soffermarsi sulle molte denunce che in esso compaiono. Non riporto i nomi dei collaboratori perché sarebbero troppi e comunque rischierei di dimenticare qualcuno, e la cosa sarebbe estremamente spiacevole. Due persone però voglio ricordare: Paolo Sylos Labini e Gaetano Arfè che di recente ci hanno lasciato. Provenivano ambedue dal «Ponte» di Calamandrei e ambedue erano animati dallo spirito tagliente del loro maestro: Gaetano Salvemini. Sylos, come già ricordavo, fu il primo tra noi a rendersi conto della pericolosità di Berlusconi e lo ha combattuto con tutte le sue forze fino all’ultimo respiro. In Berlusconi vedeva l’arroganza del potere – di matrice craxiana –, la potenza della ricchezza sciolta da ogni controllo della legge, la mediocrità dell’uomo incolto, l’affarismo illegale del mercante privo di scrupoli. Con costui la democrazia liberale riceveva un vulnus da cui non sarebbe stato facile rialzarsi e non a caso proprio per le sue grazie la destra fascista tirava su la testa e tornava addirittura al governo. Arfè, con una collaborazione che si era rifatta intensa dopo gli anni calamandreiani, riaffermava il valore del socialismo in opposizione al riformismo vago e inconcludente che la sinistra diessina e radicale, con il consenso dei cattolici democratici, proponeva.

«In Italia il socialismo passato alla storia come riformista […] credette nella funzione della classe operaia, ne promosse l’organizzazione e la guidò nella costruzione delle sue autonome istituzioni di classe a fini dichiaratamente socialisti; fece proprie le regole della democrazia parlamentare e concorse in maniera determinante, rompendo il cerchio dell’isolamento, a sconfiggere la reazione di fìne Ottocento; ebbe una propria rigorosa etica con solido fondamento dottrinale, ma sempre aderente alla realtà politica e ne trasse i motivi dell’opposizione alla prima guerra d’Africa, all’impresa libica e alla guerra mondiale; si batté per una pace che non fosse di vendetta e di sopraffazione; solidarizzò con la rivoluzione antizarista e ipotizzò con argomentazioni ortodossamente marxiste l’involuzione “bonapartista”, vale a dire burocratica e poliziesca, del regime sovietico; denunciò come velleitaria e suicida la predicazione rivoluzionaria del primo dopoguerra; capì e documentò la novità e l’originalità del fenomeno fascista e propose una politica specificamente rivolta a combatterlo – Matteotti fu ucciso per questo –; ne intuì la natura tendenzialmente europea. […] Il tratto caratterizzante del riformismo socialista, in sostanza, non fu quello di voler dare un volto umano al capitalismo, ma di trasformare le strutture della società per costruire un ordinamento dove trovassero fondamento stabile i valori della pace, della libertà e della giustizia»17.

«E qui va detto a chiare lettere che bisogna sbarazzare il terreno di quella parola insulsa e vuota che ha nome riformismo. Non c’è riforma che possa dar pane agli affamati del mondo, non c’è riforma che possa bloccar gli uragani e fermare lo scioglimento dei ghiacci, che possa impedire la desertificazione del pianeta, non c’è riforma che possa spegnere le guerre, i terrorismi, i genocidi. E per questo bisogna aggredire i miti omicidi che oggi egemonizzano il mondo e ne indirizzano le politiche: il culto idolatra del mercato che contiene, nella sua dottrina e nella sua pratica, la negazione di ogni diritto, anche quello di vivere, all’essere umano; lo sviluppo che ha cessato di essere, in tutti i campi, “compatibile” per cui ogni progresso su questa via è un colpo dato alla possibilità di sopravvivenza dei nostri figli e dei nostri nipoti; la competitività intesa e praticata come la legittimazione della bestialità nei rapporti sociali e umani»18.

Dunque, Sylos e Arfè li ricordiamo in quanto sono l’emblema di due battaglie proprie del «Ponte»: quella per la democrazia e quella per il socialismo, o meglio, come diceva Walter Binni, quella per la libertà nel socialismo.

Libertà nel socialismo: un problema ormai da storici che la nostra classe politica ha messo da tempo in soffitta. Eppure la nostra Costituzione si può leggere proprio sotto questa luce. Come altrimenti interpretare l’art. l, l’art. 3, l’art. 4 e l’art. 11? E così l’art. 33 e tutti gli articoli che regolano i rapporti economici (artt. 35-47)? E a questo riguardo non è a caso che destra e sinistra abbiano affermato in piena consonanza che occorre procedere a una riforma della Costituzione. Per il momento tutti sostengono che non saranno toccati i principi fondamentali, ma, quand’anche questo fosse vero, la riforma della Parte seconda (Ordinamento della Repubblica) cambierà di fatto tutto l’impianto. La prima parte della Costituzione non si può legare indifferentemente a qualsiasi altro testo, ha un senso solo se ha come corollario l’attuale seconda parte. Ha un senso, in altre parole, se statuisce che l’Italia è una repubblica parlamentare e non una repubblica presidenziale. Purtroppo la maggioranza dei nostri politici – di destra e di sinistra – ritengono che una repubblica giocata sulla centralità del parlamento e sulla forza dei partiti – che ormai sembrano scomparsi – non serva più: è molto più funzionale una repubblica presidenziale, all’americana, in cui i partiti sono sostituiti da lobbies dirette da “capi” con forte carisma mediatico. Una repubblica presidenziale in cui ciò che rimane dei partiti non si differenzia per una diversa visione del mondo, ma per una maggiore o minore efficienza all’interno del capitalismo. Una repubblica presidenziale in cui il potere legislativo si scioglie nel potere esecutivo e anche i pubblici ministeri sono alle dipendenze dell’esecutivo: in definitiva una monocrazia, come dice Gianni Ferrara.

Noi del «Ponte» abbiamo combattuto, e combattiamo, in splendida solitudine questo disegno. La nostra storia calamandreiana non ci permette di buttare alle ortiche la Costituzione della repubblica democratica (e per questo parlamentare), laica, fondata sul lavoro (e per questo socialista), nata dalla Resistenza. Non nutriamo grandi speranze di vittoria, ma talvolta si combatte non per vincere, quanto invece per salvare il rispetto di se stessi e la propria dignità. E, a proposito di rispetto e dignità, dobbiamo prendere atto che quella Firenze di sinistra, che ieri in via Giusti allevò Carlo e Nello Rosselli, che accolse giovinetto Gaetano Salvemini, che pianse la lunga detenzione nelle carceri fasciste di Nello Traquandi ed Ernesto Rossi, che assisté impotente alla brutalità di Carità, che – prima in Italia – si liberò dal giogo nazifascista, oggi, in un’assemblea che vorrebbe raccogliere a festa il popolo del centrosinistra, tributa un grande applauso a Bossi e Calderoli. C’è rispetto di se stessi? C’è dignità?

La mutazione genetica che negli anni ottanta attraversò il Psi e nei novanta il Pci ha dato i suoi frutti. Oggi, sulle orme di Craxi e Berlusconi, tutti tendono all’occupazione del potere a qualsiasi costo. In questo senso la sedicente destra e la sedicente sinistra si equivalgono e non c’è da meravigliarsi se sulle grandi questioni (riforma della Costituzione, riforma della giustizia, riforma della legge elettorale) potrebbero trovare anche un accordo.

Per la libertà nel socialismo si aprono scenari foschi.

Dunque la storia è finita? No, la storia continua, ma forse in Italia per la sinistra si è chiuso quel ciclo che era iniziato alla metà del secolo XIX. Le attuali scorie non servono più: prima ce ne liberiamo, meglio è. Ma c’è qualcosa di nuovo, o forse di antico, su cui credo valga la pena scommettere: gli Stati Uniti d’Europa e le autonomie locali. Sul primo tema non vorrei essere frainteso: non l’attuale Unione europea che è espressione degli interessi del grande capitale bancario, ma quegli Stati Uniti di cui Piero Calamandrei ha parlato fin dagli anni cinquanta19 e di cui oggi scrive Vincenzo Accattatis. Quell’Europa politica tutta da costruire che superi la ristrettezza degli Stati nazionali. Occorre che la sinistra pretenda vere elezioni politiche, quale espressione diretta della volontà dei cittadini europei. Solo riproponendo un forte partito socialista europeo, che raccolga larghi consensi per il suo essere veramente socialista, si può ipotizzare un superamento dell’attuale crisi. Forse una certa idea di Europa potrebbe salvarci dal disfacimento politico e sociale di questo nostro presente. È un’ipotesi, niente più che un’ipotesi, con tutte le incertezze del caso, ma al momento non abbiamo niente di meglio.

Quanto alle autonomie locali voglio tornare molto indietro e ancora una volta a un’intuizione di Tristano Codignola.

Nel settembre 1944, su «La Libertà», organo del Partito d’Azione toscano, Codignola pubblicava un articolo dal titolo Introduzione allo Stato autonomistico. «Il Partito d’Azione – vi sosteneva – ravvisa nell’autonomia una delle condizioni indispensabili, forse la più necessaria, della ricostruzione dello Stato italiano […]. In breve, noi vogliamo costituire per l’Italia un sistema ben articolato di forti autonomie locali […]. Noi siamo convinti che, data la varietà di fattori e di problemi esistenti in Italia, un sano federalismo regionale sarebbe la condizione ideale per lo sviluppo, non soltanto degli aspetti amministrativi ed economici, ma altresì dei lati politici, giuridici, sociali della questione italiana. […] Per di più, entro il vasto ambito della regione, altre minori autonomie: provinciali e comunali. Comune e provincia hanno bensì problemi di natura regionale, e così problemi che interessano direttamente lo Stato: ma hanno anche una quantità di problemi propri, caratteristici, il cui quadro complessivo comprende e riassume, in piccolo, tutti gli aspetti e tutte le guise della vita politica. E quale migliore palestra della vita locale, per la vita politica della intera nazione?». E concludeva: «Agilmente articolato sul solido telaio delle autonomie locali, lo Stato sarà davvero per la prima volta una sintesi e una guida; troverà finalmente un’atmosfera più lucida e più tersa in cui porsi e realizzarsi come democrazia integrale, instauratrice a un tempo, indissolubilmente, di libertà politica e di giustizia sociale».

Quest’articolo lo ripresentammo sul «Ponte» nell’ottobre 1994 – cinquant’anni dopo – con un autorevole e significativo commento di Alessandro Natta20. Volevamo affermare che quello delle autonomie locali era un problema che la sinistra si era posto fin dal suo nascere. Che poi questa sinistra non sia riuscita – come sostiene Natta – «a promuovere e a operare una vera e propria rottura nella cultura e nella pratica del centralismo statale, che aveva ormai la sua espressione nel sistema politico imperniato sulla Dc», questo non autorizza a pensare che il sistema delle autonomie locali sia retaggio di una forza a dir poco equivoca qual è la Lega. Anzi, io ritengo che il federalismo che la Lega sbandiera e propone, o meglio impone, sia la degenerazione cialtronesca di un’idea sicuramente democratica che attraversò politici e intellettuali della Resistenza e che divenne un cardine irrinunciabile dell’edificio costituzionale. Il rischio, che già Natta aveva messo in luce, «è che, dopo le agitazioni clamorose, i tambureggiamenti del “nuovisrno”, e le annunciate rivoluzioni federalistiche, finirà per avere la meglio […] la tentazione secolare di appropriarsi e di usare, ai propri fini di parte, la macchina dello Stato». E questo, se vogliamo sciogliere quei «propri fini di parte», significa che ogni regione diverrà uno Stato e che quel centralismo burocratico, che sempre più ha preso i caratteri del decisionismo e del presidenzialismo, sarà la cifra dominante di ogni Stato-regione. Altro che autonomie locali!

Concludendo, a me sembra che ci siano gli elementi perché «Il Ponte» continui nella sua azione. Un’azione che, anche per la difficoltà che le riviste hanno oggi a raggiungere il grande pubblico, non può essere un intervento politico diretto, ma la voce di un gruppo di intellettuali a cui piacerebbe che quella libertà nel socialismo, che, come dicevo, i politici hanno messo in soffitta, tornasse a essere non il sole dell’avvenire – ché nell’odierno disincanto nessuno è in grado di scommettere sull’avvenire – ma almeno argomento di studio e di discussione.

La ricostruzione

L’esito monetario delle “quattro giornate di Bruxelles”, imprevedibilmente molto generoso con l’Italia, sta producendo nel sistema politico italiano pulsioni predatorie vecchie e nuove, convulsioni e trasformismi. La nuova corsa all’oro mobilita i tradizionali istinti animali dei gruppi di potere esperti in pratiche spartitorie e corruttive, e criminali. La partita, in nome di una “solidale” Europa dei mercati, rimette in gioco anche i replicanti di stagioni sconfitte, da Berlusconi a Prodi a Renzi, alla ricerca di una nuova verginità “responsabile”.

Poiché tutto è processo, l’Unione europea a trazione tedesca rafforzata ha semplicemente preso tempo: la “montagna di soldi” promessa all’Italia seguirà i percorsi politici, negoziali e procedurali, dell’Unione; di fronte a una profonda crisi di sistema aggravata dal Covid-19 e dai cambiamenti climatici, e alla necessità di intervenire sui modelli di sviluppo dei vari Stati del continente mantenendo il controllo sulle economie e sui mercati nazionali, l’Unione ha allentato le briglie delle catene di comando: la crisi va affrontata subito, e il 2021, quando entreranno in vigore i provvedimenti “solidali”, è molto lontano. Prima della metà del prossimo anno, numerosi passaggi: negoziazioni, valutazioni dei progetti d’impiego delle risorse concesse, nuovi rapporti di forza. Le briglie si allentano anche sui “valori” retorici dello “Stato di diritto” (Ungheria, Polonia), e tanto più sui privilegi fiscali dei governi “frugali” del Nord.

Il governo italiano, forte dei suoi 35.000 morti da Covid-19, ha sicuramente svolto un ruolo attivo nei negoziati di Bruxelles, presentandosi come paladino di un nuovo europeismo non rigidamente vincolato dalle regole di quel “patto di stabilità” che aveva strangolato la Grecia, ma la partita è ancora tutta da giocare. In attesa di valutare i progetti italiani finanziabili, l’Unione “porta a casa” la fedeltà di un paese anomalo costretto ad abiurare la sua diversità in nome di una nuova affidabilità. Fedeltà anche alla Nato e alle sue strategie nel continente europeo condivise dalla Germania; e l’attuale governo italiano si dichiara ripetutamente atlantista, amico a oltranza dell’attuale governo degli Stati Uniti d’America.

L’anomalia italiana

Per l’Unione europea e per gli Stati Uniti d’America, l’Italia è un paese da stabilizzare e modernizzare.

La crisi economica del 2019 ha aggravato quella irrisolta del 2008, collassando apparati produttivi e consumi. Le straordinarie iniezioni di liquidità della Bce non incidono sugli assetti di sistema. Un tracollo dell’economia italiana, dopo la Brexit, comporterebbe l’implosione dell’Unione europea. Servono “riforme” radicali con obiettivi di “crescita” e nuova stabilità. Le ricette sono quelle tradizionali: riduzione del debito, precarizzazione e flessibilità del lavoro, investimenti pubblici a vantaggio delle grandi imprese, riduzione della forza contrattuale dei lavoratori-consumatori. Anche gli Stati Uniti d’America hanno bisogno di un’Italia stabile e fedele alle strategie atlantiche, in una fase di duro confronto economico, politico e militare dell’amministrazione Trump con la Cina; la propaganda mediatica contro l’“impero del male”, il mercato degli armamenti e il potenziamento in corso delle basi militari sul territorio italiano sono gli strumenti principali della geopolitica statunitense.

L’Italia è un paese instabile, forte delle sue “anomalie”. Le più importanti, fondative: le tradizioni del socialismo, dell’anarchismo e del comunismo tra Ottocento e Novecento; l’antifascismo e la Resistenza; i movimenti degli studenti e degli operai negli anni sessanta e settanta; le lotte per i diritti civili degli anni settanta; i femminismi; i movimenti ambientalisti e antimilitaristi. Nel paese la cui anomalia più consistente è stata la presenza di una delle sinistre più forti e articolate a livello europeo, tutte queste esperienze e tradizioni hanno continuato a operare nonostante le involuzioni di un sistema politico sempre più separato dagli interessi generali. Contro quella “politica” di ristretti gruppi di potere l’onda lunga dei movimenti di opinione e di cittadinanza attiva che ha scardinato il sistema politico alle elezioni del 2013 e del 2018, battendo il referendum anticostituzionale del 2016, continua a esercitare costanti pressioni dal basso. Il sistema politico, oggi rappresentato da una maggioranza parlamentare eterogenea in cui agiscono culture e interessi profondamente diversi, e da un’opposizione di destra che sopravvive grazie ai media di servizio, si limita a gestire amministrativamente misure sociali emergenziali e inefficaci, rese ardue dalla burocrazia della pubblica amministrazione e oggetto di continue negoziazioni tra Stato centrale e satrapie regionali. L’attuale non-governo, il migliore possibile perché incapace di prendere decisioni risolutive (il caso della vicenda di Autostrade per l’Italia è emblematico), si guarda bene dal turbare “l’ordine costituito” degli interessi di potere.

La crisi pandemica, irrisolta a livello globale e oggi itinerante tra i continenti, in Italia ha messo a nudo le devastazioni neoliberiste del sistema sanitario, della scuola pubblica, della pubblica amministrazione e in generale dell’apparato statale, delle relazioni tra Stato centrale ed enti locali. Non ha risparmiato un sistema produttivo basato sulle piccole e medie industrie. È riemersa, nell’opinione pubblica e nelle richieste di provvidenze emergenziali, la centralità dello “Stato”, uno Stato disastrato e fatto a pezzi da decenni di caotica gestione e di svuotamento delle sue prerogative costituzionali. A questo Stato sono oggi chieste risposte che non è in grado di dare, e i prossimi mesi saranno drammatici.

Più Stato, meno Stato, quale Stato

Quale Stato? è la questione fondamentale. Uno Stato da ricostruire, ormai lontano dai contenuti programmatici della Costituzione del 1948. Dall’“alto”, dal “basso”, trasversalmente. Alto e basso sono sicuramente categorie generiche ma crudamente reali. Da un punto di vista sociologico, nelle catene di comando della piramide sociale italiana sono collocati in alto i gruppi di potere economico e finanziario, le confraternite dei partiti di sistema vecchi e nuovi, gli alti burocrati dello Stato, i “decisori” che eseguono mandati di rilievo internazionale; in basso, la base sociale oggi implementata da una rapida proletarizzazione dei ceti medi. La tradizionale distanza tra alto e basso, tra ricchi e poveri, tra chi ha e chi non ha, sta assumendo caratteri ferocemente malthusiani. Da un punto di vista più complesso e attento ai processi culturali e politici, l’attuale declinazione alto/basso si presenta sempre più dinamica e contraddittoria: in una fase di crisi profonda e irreversibile del sistema politico, diventano centrali le soggettività e le responsabilità dei singoli, liberi per scelta o per necessità dai vincoli di appartenenze non più sostenibili.

Guardiamo avanti. Nei primi mesi del 1943 Emilio Lussu riceve in Francia la notizia che in Italia si è costituito il Partito d’Azione e ne legge il programma, che trova tipico di una “borghesia radicale” che vede la sola prospettiva della sostituzione di una nuova classe dirigente a quella fascista, ai vertici di uno Stato da ricostruire. Lussu racconterà in Diplomazia clandestina («Il Ponte», nn. 1, 2 e 3, gennaio, febbraio e marzo 1955, poi nei Quaderni del Ponte, Firenze, La Nuova Italia, 1956): «Mi detti subito a scrivere un opuscoletto, La ricostruzione dello Stato, che finito di stampare clandestinamente in Marsiglia, a luglio, passò in Italia con Joyce, nell’agosto, e fu in seguito ristampato più volte a Roma e nell’Alta Italia, durante la Resistenza». L’opuscolo porta la data del giugno 1943 e oppone al programma “elitario” del Pd’A una prospettiva radicalmente rivoluzionaria e socialista che rovesci la piramide sociale e ricostruisca lo Stato su basi completamente nuove. In sedici brevi capitoli, con una scrittura sintetica dettata dall’urgenza dell’azione politica, Lussu delinea gli obiettivi e le caratteristiche di un nuovo Stato che superi radicalmente il fascismo e il liberalismo prefascista. Riproduciamo i primi due capitoli, il sesto e l’ottavo21. Ci riguardano, con il dovuto senso della storia.

I

Vent’anni di regime fascista hanno dimostrato a che punto può una dittatura abilmente organizzata stroncare iniziative autonome di individui e di gruppi e asservire la vita di una nazione. Il fascismo segna il trionfo della violenza come forza generatrice di consensi. Operai, contadini, artigiani, piccola e media borghesia, tecnici, intellettuali, hanno, gli uni dopo gli altri, capitolato di fronte alla forza. Solo una ristretta minoranza si è ribellata a servire: ma ha dovuto pagare con la morte e con la persecuzione implacabile il suo atto di fede.

Questo spiega perché, dopo tre anni di guerra, che gli avvenimenti presentano all’universalità degli italiani come la certa disfatta e la rovina del paese, non si è avuta ancora una positiva reazione popolare.

È che il fascismo ha impedito il crearsi di correnti politiche talmente potenti da essere in grado di agitare le masse e condurle all’insurrezione nazionale. La fame, i sacrifizi, i bombardamenti col massacro dei civili e la distruzione delle città, la serie crescente di scacchi militari non sono sufficienti da sé soli, a far levare la bandiera della rivolta. Senza un’avanguardia politica, capace di far passare fra le sofferenze delle masse un ideale superiore di liberazione, non v’è insurrezione possibile sotto un regime di polizia. Quest’avanguardia comincia solo ora a formarsi, ancora senza coesione, disparata, i quadri dispersi, ed è da temere che la disfatta militare del regime preceda le sue effettive possibilità d’azione insurrezionale. Se così fosse, si creerebbe una crisi che peserebbe su tutto lo sviluppo politico nazionale del dopoguerra, parendo ben difficile che l’occupazione anglo-americana del suolo nazionale possa permettere una libera azione politica.

Non è facile pertanto vedere nel buio di domani, ché solo le forze politiche che agiscono creano l’avvenire. Nell’ora presente, le caratteristiche sono l’attività di pochi, l’attesismo dei più e il disorientamento generale. Ma ciascuno, nei limiti delle sue possibilità, ha il dovere di contribuire a un’opera di chiarificazione.

II

Il fascismo non è, come alcuni liberali tradizionalisti amano credere, una svolta improvvisa nel corso della civiltà del nostro paese. Né, come la letteratura degli esuli era portata a sostenere di fronte a un pubblico straniero, un male che il popolo italiano non meritava. Il fascismo non è caduto dall’alto, come un bolide. Esso è stato il prodotto naturale della civiltà politica italiana, una malattia del popolo italiano, formatasi nel suo organismo e nel suo sangue. È stato la conseguenza del passato.

Se su questa critica fondamentale non si concorda, è difficile pensare si possa essere d’accordo nel ricostruire l’Italia.

Il fascismo è il prodotto delle forze reazionarie che hanno costantemente influenzato l’Italia fin dalla sua unità, malgrado le aspirazioni liberali. Mussolini è la ripetizione riveduta e migliorata ed aggiornata del fenomeno Crispi alla fine del secolo scorso. Vittorio Emanuele III è la ripetizione, anch’essa aggiornata, di re Umberto. La reazione e la monarchia non si sono smentite. Il re si sentiva veramente padrone in casa sua. In altri paesi, altri re hanno giocato la testa, e pagato della medesima, l’attentato alle libertà popolari. Da noi, la decadenza e la corruzione delle forze politiche della democrazia hanno creato l’ambiente favorevole. Come uno squadrone bene ordinato di corazzieri, i grandi dignitari dello stato, e i grandi burocrati, e i prefetti, e consiglieri provinciali, e sindaci e consiglieri municipali, tutti liberali e democratici, hanno accolto il colpo di stato monarchico che ha preso il vistoso nome di «marcia su Roma» al grido fatidico di «Viva il Re!». Non è per un accidente inspiegabile che il capo incontestato del liberalismo italiano, anzi la sua più fedele incarnazione, Giovanni Giolitti, è stato la levatrice patentata del fascismo. Lo stesso partito del proletariato e dei lavoratori italiani, il solo cui, in ultima istanza, spettava, storicamente, il compito di spazzare dalle piazze le camicie nere e le azzurre, era uscito dai trionfi elettorali del dopoguerra, idropico, diviso e senza senno politico. E fu incapace all’urto.

Il fascismo è l’ortica spuntata dalle rovine della democrazia italiana.

Le responsabilità sono generali, in rapporto alle iniziative, alle complicità o alle deficienze di ciascuno. Azione positiva quella delle forze reazionarie che hanno pagato lo squadrismo e finanziato la grande avventura, in testa la borghesia industriale e rurale; azione negativa quella della democrazia decadente. Esse investono tutta la vita dello stato nel dopoguerra.

Il fascismo va debitore del suo trionfo e a quanti l’hanno sostenuto per arrivare al potere, e a quanti, arrivato al potere, l’hanno difeso, consolidato e glorificato, sì da farlo apparire come l’espressione storica delle aspirazioni nazionali. Fra questi ultimi stanno in primo piano non pochi ambienti politici responsabili di paesi stranieri, che nel fascismo individuavano, con gioia, l’espressione più moderna delle forze dell’ordine; e il papato. Di fronte alla moltitudine dei cattolici dell’Italia e del mondo, fino ad allora avversi ad una dittatura nata e vivente nel sangue, il papato, accordandosi clamorosamente col fascismo, ha asservito la religione al regime.

Non v’era più dunque ragione di rivolta morale.

VI

Una trasformazione politica che seguisse il crollo del fascismo, senza essere accompagnata da una trasformazione sociale, lascerebbe i grandi problemi della democrazia italiana, senza soluzione. L’Italia avrebbe, a breve scadenza, dopo un periodo di confusione e di disordine, di nuovo la guerra civile, e un fascismo n. 2 o n. 3, in camicia bianca o gialla.

La cosiddetta crisi dello stato, nella civiltà moderna, altro non è, sostanzialmente, che l’incapacità dello stato liberale a evolvere costituzionalmente e legalmente verso quelle che erano e che sono le aspirazioni socialiste del ventesimo secolo. Non si sottrarranno a questa crisi né gli Stati Uniti d’America, ove il proletariato comincia solo ora a formarsi una coscienza politica, e neppure l’Inghilterra, malgrado la psicologia essenzialmente tradizionalistica del suo popolo, e nonostante il proletariato graviti attorno ai grandi interessi dell’impero. Gli avvenimenti del dopoguerra europeo dimostrano che questa crisi è sociale, e non è suscettibile d’essere risolta con espedienti di riforme costituzionali. La grande borghesia, quella finanziaria e agraria in prima linea, non accetta di essere spodestata in omaggio alla libertà. Per quanto il fascismo sia ancora considerato da noi un fenomeno complesso, storicamente esso apparirà ben semplificato domani, e sarà esclusivamente considerato come la rivolta armata della borghesia alle rivendicazioni del lavoro. Lo stato sarà sempre in crisi finché le forze della reazione non saranno definitivamente sconfitte. Lo stato liberale, così come si è formato sulle correnti ideologiche e politiche del XVIII e XIX secolo, è destinato a sparire. In Italia, esso è finito. Esso è già scomparso. Ma questa sarà una fase di trapasso; l’essenza spirituale del liberalismo si salverà solo in una società socialista vittoriosa.

VIII

Tali obiettivi non possono essere raggiunti, né, raggiunti, potranno mai essere solidamente conquistati, se il proletariato italiano non ridiventa un’attiva e consapevole forza politica. Alla violenza squadrista e alla tirannide del regime, il proletariato ha piegato come tutti gli altri, e ha perduto, come massa, la sua coscienza di classe e la sua autonomia. Ma non può essere dimenticato che è contro il proletariato organizzato, non solo nei suoi partiti politici, ma nei sindacati, nelle camere del lavoro e nelle cooperative che il fascismo ha scatenato la sua prima e più grande offensiva, con soddisfazione larvata o palese di non pochi democratici autentici e liberali puri. La violenza fascista ha dimostrato che, caduto il proletariato come forza politica, cessano la resistenza e la lotta politica in forma collettiva: la massa abbandona la lotta, e solo la continuano individui e gruppi sporadici. Dove il proletariato è battuto, non v’è più lotta politica per la libertà e per la democrazia: esse scompaiono per rivivere solo, più profonde ma sterili, nella coscienza di pochi. Tutta l’esperienza del dopoguerra ci ha mostrato che, contro il fascismo, non si è battuto senza quartiere, quale classe, che il proletariato: avanguardia eroica in Austria, esercito popolare in Spagna. L’avvenire della democrazia è nel suo cuore e nella sua forza. È ben per questo che le speranze degl’italiani liberi sono agitate, per la prima volta dopo vent’anni, non dalle audacie e dai sacrifizi, spesso sublimi, di singoli, ma dai recenti scioperi degli operai di Torino e di Milano. Senza proletariato, ridivenuto forza politica, vano è parlare di conquiste sociali o politiche o di democrazia italiana.

Nel giugno del 1943, alla vigilia del previsto naufragio del fascismo, Lussu pone come centrale la questione dello Stato, da ricostruire come Stato federale, popolare e socialista, con un forte coordinamento centrale per la gestione economica e sociale di quelli che oggi sono definibili “beni comuni”, nazionalizzando le grandi aziende e le banche, espropriando i grandi patrimoni. L’esito del secondo dopoguerra non sarà questo, e il regime democristiano sarà garante della “continuità dello Stato”. La questione di uno Stato realmente democratico rimarrà irrisolta.

Il controllo dal basso

Venti anni dopo, nel gennaio 1964, nello stesso mese in cui la sinistra del Psi abbandona il partito in dissenso con la linea di Nenni nel governo di centrosinistra, riorganizzandosi come Partito socialista di unità proletaria, non a caso riprendendo il nome del partito negli anni 1943-1947 (e ancora una volta è Lussu a svolgere un ruolo determinante nella scissione), Aldo Capitini sposta radicalmente il baricentro dell’azione politica verso il “basso” della piramide sociale. La sua lunga esperienza di antifascista liberalsocialista dagli anni trenta e l’esperienza dei Centri di orientamento sociale, strumenti di democrazia diretta nell’immediato dopoguerra, gli permette di affrontare la questione del potere in concrete situazioni territoriali, per costruire un «potere di tutti» ( «omnicrazia», più che democrazia) che ricostruisca dal basso la società e lo Stato in un momento di forte ripresa del movimento operaio e alla vigilia della stagione rivoluzionaria del 1968-69. Nel gennaio 1964 Capitini pubblica un nuovo mensile, «Il potere è di tutti», strumento di orientamento e organizzazione, rivolgendosi direttamente alle persone comuni della «moltitudine»; il titolo dell’editoriale del primo numero è Il controllo dal basso22. È utile rileggerlo oggi:

«Il piano per arrivare ad una società che sia veramente di tutti non è ancora realizzato. Sono ancora poche le cose che tutti hanno liberamente, oltre la vita, l’aria, il sole, un corpo naturale, un cuore, una mente per pensare, una volontà per decidere. Esiste la società civile, che è una creazione storica molto importante, ma essa è ancora troppo imperfetta. Vi esiste lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’autoritarismo dell’uomo sull’uomo: alcune mani hanno ricchezze grandissime, altre mani, pur lavorando tutto il giorno, non riescono a riportare a casa (e quale casa, certe volte!) un guadagno sufficiente; alcuni hanno un potere grandissimo nel comandare, nell’imporre agli altri la loro volontà anche con la forza, e molti altri debbono raccomandarsi e ubbidire per salvare la semplice vita.

Eppure, se si guarda bene, gli sfruttati e gli oppressi sono una immensa maggioranza in confronto a quelli che hanno il potere politico ed economico. Poche persone decidono della pace e della guerra, del benessere e del disagio di tutti. E chi controlla questi pochi potentissimi? Solo i gruppi di potere; la moltitudine non è presente. Anche se viene convocata alle elezioni (una buona cosa, certamente) ogni quattro anni, ogni cinque anni, i pochi potenti non si preoccupano, durante i quattro o cinque anni, di dare informazioni esatte a tutti, di aprire scuole per chi non ha nessuna cultura, centri sociali per aiutare gli uomini a ritrovarsi insieme, a discutere e imparare l’uno dall’altro. Anzi i potenti fanno di tutto perché le persone non si trovino insieme a discutere e a criticare, se occorre; e i grandi industriali sono pronti a dare la settimana lavorativa di cinque giorni agli operai, cosi la sera dei cinque giorni saranno spossati e non andranno al centro sociale a parlare di politica ed istruirsi liberamente, e nei due giorni liberi scapperanno dalla città a fare i turisti o a pescare.

Per trasformare tutta la società è, dunque, necessario cambiare il metodo, e farla cominciare “dal basso” invece che dall’alto. Bisogna cominciare uno sviluppo del controllo dal basso che dovrà crescere sempre più.

Anzitutto essendo uniti. L’industria lo insegna; ma oggi anche l’agricoltura, perché si è visto che la salvezza della campagna è nelle grandi cooperative, nelle grandi aziende. Essere uniti, ma anche attivi, pronti a dedicare un po’ di tempo, un po’ di energie, un po’ di soldi, a organizzare libere associazioni, perfezionandole sempre più. E bisogna anche cercare di conoscere i fatti, di sapere come vanno le cose politiche, sociali, sindacali, amministrative. Per arrivare a questo è bene avere centri sociali, con libri, giornali, discussioni. Anzi una cosa fondamentale è riunirsi in una discussione settimanale, specialmente sui problemi della propria località. È vero: ci sono i partiti, i sindacati, le amministrazioni comunali e provinciali, il governo con i suoi ministeri; ma questo non basta, è necessario aggiungere il controllo di tutti dal basso, per criticare, approvare, stimolare, per dare elementi che quelli dell’alto non conoscono e fare proposte a cui essi non hanno pensato.

Noi vogliamo dare un aiuto per questo lavoro di controllo dal basso, favorendo la costituzione di Centri di orientamento sociale in ogni località, anche piccola, e collegandoli con questo periodico, stimolando a formare consigli di gestione nelle aziende, consigli di classe nelle scuole, consigli di assicurati nelle previdenze sociali e nelle mutue, consigli di ammalati nei sanatori e negli ospedali, là dove è possibile. Ognuno deve imparare che ha in mano una parte di potere, e sta a lui usarla bene, nel vantaggio di tutti; deve imparare che non c’è bisogno di ammazzare nessuno, ma che, cooperando o non cooperando, egli ha in mano l’arma del consenso e del dissenso. E questo potere lo ha ognuno, anche i lontani, le donne, i giovanissimi, i deboli, purché siano coraggiosi e si muovano cercando e facendo, senza farsi impressionare da chi li spaventa con il potere invece di persuaderli con la libertà e la giustizia, e l’onestà esemplare dei dirigenti.

È un errore pensare che basta che uno molto bravo (e chi lo giudica?) o un gruppo di pochi vada al potere anche con la violenza, riesca a cambiare tutto in bene. Noi non ci crediamo. Bisogna prepararci tutti al potere per il bene di tutti, cioè per la loro libertà, per il loro benessere, per il loro sviluppo».

Oggi si parla molto di “ricostruzione”. La crisi pandemica sarebbe lo spartiacque di un prima e di un dopo Covid-19, azzardando una già avvenuta conclusione del fenomeno. Nella propaganda dei media si ripete che “niente sarà più come prima”, che la crisi pandemica costituirà un’opportunità di profonda modernizzazione del sistema produttivo e di rinnovamento del sistema politico attraverso una nuova stagione di grandi progetti e imponenti investimenti. Nei prossimi mesi il quadro istituzionale si chiarirà ulteriormente, e l’attuale governo sarà messo alla prova dei fatti. Non solo di economia si tratterà, né di una politica ridotta a miope gestione amministrativa delle macerie di un paese devastato e disgregato già molto prima che lo spettro di un virus ignoto si aggirasse per il pianeta. Sì, c’è molto da ricostruire, ma sulla linea di Lussu, Capitini e tanti altri maestri di pensiero critico e azione politica rivoluzionaria, costruendo potere dal basso per una società di «tutti».

L’unica alternativa è il socialismo23. La pace non è soltanto l’assenza di guerra, è giustizia sociale, egualitarismo, liberazione dalla preistoria del capitalismo, liberazione delle potenzialità umane in una società di tutti in cui il potere sia di tutti e la “democrazia” sia reale. La democrazia come “potere di tutti” è un processo rivoluzionario di esperienze e situazioni di contropotere, dal basso, preparando le soggettività del cambiamento all’esercizio di un nuovo potere fondato sulla democrazia diretta, e delegata con controlli dal basso. Non si tratta di sostituire una classe dirigente “democratica” a una classe dirigente oligarchica lasciando intatta l’organizzazione della società, i suoi attuali rapporti di produzione e di proprietà. Si tratta di rovesciare dal basso la piramide sociale, forti delle esperienze storiche dell’anarchismo, del socialismo e del comunismo critico, costruendo reti sociali di progettazione e di azione politica in una prospettiva di massimo socialismo e massima libertà, costruendo potere di resistenza e opposizione per poi esercitare la liberazione del “potere di tutti”. In molti casi si tratta di riprendere cammini interrotti e rimossi dalla sinistra di sistema, quella “sinistra” di cui Luigi Pintor aveva decretato la morte già negli anni novanta e che si è fatta destra, ruota di scorta di un sistema politico ed economico irriformabile. È questo il terreno fecondo di tante esperienze in corso: dalle reti sociali sulle tematiche dei “beni comuni”, ai comitati di cittadinanza attiva sulle tematiche ambientali, alle esperienze di cooperazione tra associazionismo ed enti locali, alle reti di insegnanti e studenti impegnati nella difesa della scuola pubblica, al sindacalismo attivo nei luoghi di lavoro, alle pratiche interculturali e di accoglienza degli immigrati, e il quadro, nelle sue positive diversità, è aperto e in divenire. La creazione di relazioni sociali di tipo nuovo, orizzontali e partendo dal basso, dalle periferie, fondate sulle persone attive come “centri” di un potere di tutti costruito nelle situazioni concrete, sulla conoscenza, la critica e l’informazione, sul controllo e la disarticolazione delle catene di comando oligarchiche, libera straordinarie potenzialità di uomini e di donne e prepara la libera autonomia di tutti, per una realtà che è comunque e sempre di tutti.

Questa la risposta alle guerre delle oligarchie: creare, organizzare società di persone consapevoli e attive, moltiplicando esperienze e situazioni di autonomia e di potere dal basso. In questo momento, in Italia, si vanno costruendo esperienze di radicale estraneità ai riti di un sistema politico sempre più concentrato, isolato e screditato; il fallimento del neoliberismo di una sinistra perduta, alla vigilia di bombardamenti economici senza precedenti, ha prodotto guasti profondi, politici e culturali, in un’opinione pubblica sempre più disorientata e disinformata dai media, e il governo fascio-atlantista commissariato da un’Unione europea (che non è l’Europa, di cui fa storicamente parte anche la Russia) al servizio delle strategie di guerra economica e militare degli Stati Uniti e di una Nato che non dovrebbe neppure esistere dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, tenterà invano di “governare” processi ingovernabili se non con i soliti mezzi di distrazione di massa affidati a una politica tutta televisiva. La nuova composizione di classe di una società sempre più impoverita e in declino demografico, il nuovo proletariato precarizzato e implementato da settori estesi di ceto medio, favoriscono la ripresa di lotte sociali radicali e una necessaria ricerca di nuove soluzioni progettuali e di visione. L’esperienza della lotta in corso del collettivo operaio della ex Gkn di Campi Bisenzio, dalla fabbrica al territorio, alla costruzione di una rete nazionale di esperienze di autorecupero di fabbriche in crisi, alla cooperazione con i giovanissimi di Fridays for Future e ai movimenti contro la guerra, è un esempio significativo di questa fase della lotta di classe in Italia.

Si stanno moltiplicando le occasioni di confronto politico e culturale sulle questioni fondamentali: quale società, quale pace, quale socialismo. È il momento di attivare collegamenti, confronti, progettazioni e iniziative. La questione fondamentale è un socialismo senza aggettivi, in tempi di guerra e di catastrofe climatica a minaccia di estinzione della specie umana.

MARCELLO ROSSI E LANFRANCO BINNI

1 2008, 2020, oggi: due passi indietro, uno avanti, nel nostro percorso iniziato nel 1945 da Piero Calamandrei e dai “liberalsocialisti” umbri e toscani (dall’antifascismo degli anni trenta alla Resistenza: Aldo Capitini, Walter Binni, Enzo Enriques Agnoletti, Tristano Codignola e tanti altri). Dal 1945, ottant’anni di costante presenza politica e culturale, tenendo aperto il cantiere del “liberalsocialismo” socialista e libertario delle origini, sviluppandone le implicazioni teoriche e pratiche nelle esperienze di democrazia diretta dell’immediato dopoguerra, di decostruzione dell’egemonia cattolica negli anni cinquanta, di costruzione di una visione geopolitica internazionalista negli anni sessanta, e sempre, fino a oggi, di progettazione di un socialismo liberato dalle involuzioni staliniste, socialdemocratiche, riformiste. Nel 2022, nel volume La libertà nel socialismo. Liberalsocialisti. Una controstoria (pp. 520, Firenze, Il Ponte Editore), abbiamo ricostruito, in una “controstoria” socialista, priva di equivoci liberaldemocratici, questo nostro percorso, che oggi vede un rilancio della rivista e un importante ampliamento della rete dei collaboratori (cfr. in seconda di coperta il nuovo assetto organizzativo). Per celebrare a modo nostro l’ottantesimo anno di vita attiva del «Ponte», ricomponiamo in successione due articoli del 2008 e del 2020: nel primo, di M. Rossi (La libertà nel socialismo, n. 10, ottobre), veniva ricostruito il percorso politico-culturale del «Ponte» di Enzo Enriques Agnoletti, nell’anno della grande crisi finanziaria del capitalismo occidentale; nel secondo, di L. Binni (La ricostruzione, n. 4, luglio-agosto 2020), nel secondo anno della pandemia, veniva proiettato in avanti il grande tema della “ricostruzione”, oggi più che mai attuale in tempi di guerra. In una breve aggiunta ai due testi, la nostra continua insistenza: l’unica alternativa è il socialismo.

2 E. Enriques Agnoletti, Ai lettori, Il Ponte», n.1, gennaio-febbraio 1984.

3 E. Enriques Agnoletti, Ai Lettori cit.

4 Nel febbraio 1984, in occasione di una sua visita a Firenze, Mario Monforte e io (che avevamo conosciuto Lefebvre l’anno precedente in Francia) lo presentammo a Enzo Enriques Agnoletti che rimase affascinato dalla personalità di costui e lo invitò a tenere un incontro con il gruppo del «Ponte». Lefebvre si dichiarò disponibile per l’autunno-inverno e il 7 dicembre 1984, all’Istituto Gramsci di Firenze, ebbe un confronto con Cesare Luporini sul marxismo nel XX secolo (cfr. H. Lefebvre e C. Luporini, Una via per la sinistra, «Il Ponte», n. 1, gennaio-febbraio 1985, pp. 8-20). Lefebvre fu per noi una scoperta fondamentale. Attraverso lui ci avvicinammo all’ultimo Marx: il Marx della Comune di Parigi, della crisi dello Stato, del pubblico non statuale. Il Marx “non marxista” che neppure la Scuola di Francoforte aveva messo a fuoco. Ma oltre a Marx conoscemmo anche un Nietzsche inconsueto, un Nietzsche “di sinistra” che Lefebvre aveva iniziato a studiare fin dal 1938. Fino alla morte, Lefebvre fu collaboratore attivo del «Ponte».

5 Lettera di Tristano Codignola ad Aldo Capitini (21 aprile 1946), «Il Ponte», n. 1, gennaio-febbraio 1986.

6 A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, Trapani, Célèbes, 1966; ora Firenze, Il Ponte Editore, 2018.

7 W Binni, La tramontana a Porta Sole, Perugia, Morlacchi, 2007, pp. 143-144; ora Firenze, Il Ponte Editore, 2017.

8 W. Binni, op. cit., p. 172.

9 G. Becattini, Una speranza che non può cadere, «Il Ponte», nn. 5-6, settembre-dicembre 1985, p. l08.

10 A. Graziani, Prediche inutili e contrattazione politica, «Il Ponte», n. 3, maggio-giugno 1985, pp. 36-37.

11 L. Della Mea, Una proposta per non dimenticare, «Il Ponte», n. 6, novembre-dicembre 1989, p. 7.

12 A. Mangano e S. Merli, Ripensando la politica unitaria. Lettera aperta a Luciano Della Mea, «Il Ponte», n. 6, novembre-dicembre 1989, pp. 17-18.

13 A. Mangano e S. Merli, art. cit., p. 21.

14 A Mangano e S. Merli, art. cit., p. 20.

15 Una costituente per la sinistra, «Il Ponte», n. 2, febbraio 1993, pp. 165-167.

16 Cfr. Una democrazia anomala: conflitto d’interessi e ineleggibilità parlamentare, interventi di V Cimiotta, A. Pizzorusso, P. Sylos Labini, G. Sartori, E. Veltri, C. Vallauri, P. Di Nicola, A. Corasaniti, R. Borrello, G. Bezzi, «Il Ponte», nn. 11-12, novembre-dicembre 1999, pp. 47-73.

17 G. Arfè, Perché non possiamo dirci riformisti, «Il Ponte», n. l0, ottobre 2005.

18 G. Arfè, Cinquantadue anni dopo, «Il Ponte», n. 11, novembre 2005.

19 Cfr. «Il Ponte» (ma in realtà P. Calamandrei), Chiarezza sul federalismo, «Il Ponte», n. 11, novembre 1950, pp. 1353-1354; Aa. Vv., Risposte all’inchiesta sul federalismo e Note conclusive, «Il Ponte», n.12, dicembre 1950, pp. 1485-1511.

20 A. Natta, Per il rispetto delle identità; per una persuasione di massa, «Il Ponte», n. 10, ottobre 1994.

21 Testo integrale in E. Lussu, Tutte le opere, 3 voll., vol. 2 a cura di M. Brigaglia, Cagliari, ed. aísara, 2010, pp. 781-802.

22 A. Capitini, Il controllo dal basso, «Il potere è di tutti», a. I, n, 1, gennaio 1964, poi in Id., Il potere di tutti, introduzione di N. Bobbio, Firenze, La Nuova Italia, 1969, nuova ed. a cura di P. Pinna e L. Schippa, Perugia, Guerra Edizioni, 1999, e in Id., Un’alta passione, un’alta visione. Scritti politici 1935-1968, a cura di L. Binni e M. Rossi, Firenze, Il Ponte Editore, 2016, pp. 353-354.

23 Da L. Binni, Un programma per il programma, «Il Ponte», n. 1, gennaio-febbraio 2024.