Nel 1987 Leonardo Sciascia pubblica un romanzo, quasi un racconto lungo: una finestra di misura, aperta su una voragine. Siamo in piena era craxiana e democristiana, impazza un potere irresponsabile, è già cominciato lo sdoganamento del fascismo. E qualcosa scricchiola. Sciascia guarda a cinquant’anni prima, a un altro tempo sospeso. Con un’ottica sfocata si potrebbe confonderlo con gli anni del consenso; invece ha caratteristiche particolari, che devono aver toccato la sensibilità dello scrittore: c’è l’impero ma gli italiani non vivono meglio, Italia e Germania si sono avvicinate eppure non molti anni prima si sono combattute, il fascismo è solido però tira un’aria inquietante, specie dall’estero. Un periodo di ma, di eppure, di però. Porte aperte, titolo elettrico. Il regime si vanta che in Italia si dorma con le porte aperte, la politica nei confronti di Berlino dà la sensazione che il Brennero sia una porta aperta; in più, pesa qualcosa. Qualcosa di tredici anni prima.

Licenziato da un ente fascista, un uomo ha ucciso la moglie, poi la persona assunta al suo posto e poi anche il fascistissimo, potentissimo avvocato da cui l’ente era presieduto. Un delitto chiaro nei fatti, solo in quelli. Un delitto sul filo della follia, quel filo che quando diventa catena, quando pesa ma tanti non lo vedono, si chiama dittatura. Diversamente da altri testi sciasciani il crimine non ha bisogno di indagini, e anzi va a giudizio. Il punto è che il fascismo ha reintrodotto la pena di morte: si deve applicarla?

Giacomo Matteotti fu assassinato nel 1924. Il regime sembrò vacillare, tutto il paese fu scosso, fra sincero dolore, coraggio, rabbia, preoccupazione di perdere potere e privilegi, soddisfazione, stati d’animo e posizionamenti intermedi, ambigui, con varie sfumature. Poi la ricompattazione, la vittoria del nuovo ordine mussoliniano, sulla base di dinamiche che nessuna lettura imparziale potrà mai descrivere. Di fronte al delitto Matteotti – Sciascia lo sa bene – non si può che prendere posizione. Anche adesso. Lo scrittore prende quella che gli è congeniale: angolosa e scalena, attenta e ruotata su se stessa.

Al colpevole del triplice omicidio, quello del 1937, hanno trovato un cartoncino rosso con la fotografia di Matteotti: è un’immagine famosa ancor oggi, con lo sguardo severo, appena interrogativo, e con l’ombra di una maschera tragica. Ci sono queste frasi: «Uccidete me ma l’idea che è in me non la ucciderete mai; la mia idea non muore; i miei bambini si glorieranno del loro padre; i lavoratori benediranno il mio cadavere; viva il socialismo!». È uno di quei cartoncini di propaganda dal linguaggio forte, convinto, che oggi diremmo retorico; siamo condizionati, non saprei da cosa. Forse da un obbligo di moderazione, forse più dai grigi demoni che vi si nascondono dietro: l’anestesia morale, il cinismo. Oggi potremmo acquistare uno di quei biglietti della propaganda antifascista; una piccola anticaglia per illudersi di mettere in cornice la storia, di aver capito. In Porte aperte, invece, la presenza del documento fra le cose del colpevole non sarà mai chiarita: sarà un fatto decentrato, una sfrangiatura irrisolta. Anche un monito inascoltato, indecifrato. Come il corpo di Matteotti.

Nel processo del triplice omicidio, due magistrati molto diversi. Il conformista procuratore, dall’«imponente statura», abituato a sedere sull’«imponente scranna», e il «piccolo giudice». Il primo è ligio ad Alfredo Rocco, il bieco giurista fascista cui si deve una legislazione che in parte vige ancor oggi. L’altro, è altro. La descrizione del mondo giudiziario, acutissima, si distende e si stringe in volute sontuose, miniature urticanti.

Un incontro fra i due magistrati. Il procuratore cerca di condizionare il giudice, di ottenere la sua ubbidienza o la sua uscita dal processo. Compare sul tavolo, come un jolly pericoloso, proprio il cartoncino, quello rosso, quello trovato all’imputato. Il giudice riflette, poi:

Di pensiero in pensiero, si trovò avventatamente a dire: «Una cosa cui allora si badò poco: era libero docente di diritto penale all’università di Bologna».

«Chi?» domandò il procuratore.

«Matteotti» disse il giudice: ma dallo sguardo guardingo, e con un che di compassionevole, del procuratore, capì di avergli suscitato, oltre che diffidenza, un sospetto di disordine mentale, di sconnessione. L’argomento era spinoso, spinosissimo; e che c’entrava quel particolare della libera docenza? Ma da quel particolare era rampollata nella mente del giudice una constatazione: che Matteotti era stato considerato, tra gli oppositori del fascismo, il più implacabile non perché parlava in nome del socialismo, che in quel momento era una porta aperta da cui scioltamente si entrava ed usciva, ma perché parlava in nome del diritto. Del diritto penale1

Qui sta il punto. Il delitto Matteotti è entrato nella memoria – anche a me è stato insegnato così – come la rappresaglia per aver denunciato le violenze fasciste e il condizionamento delle elezioni, muscolare e a mano armata. Ma basta approfondire e ci si rende conto che i motivi sono più complessi; le violenze, poi, erano sotto gli occhi di tutti e una denuncia pubblica non avrebbe svelato novità. Il coraggioso parlamentare, grazie alla sua conoscenza della legge, della contabilità e della pubblica amministrazione, ha messo in chiaro un quadro generale di ingiustizia, di vessazioni e di malgoverno; si è anche reso conto, agevolato da contatti con l’estero, di specifiche ruberie ad alto livello: passaggi di denaro, falsificazioni, favoritismi. Fatti che oggi chiameremmo corruzione, conflitti d’interesse, casta, parentopoli. Affari ai danni del popolo, perché dal 1922 comandano profittatori, clienti e familiari. A proposito di famiglie, però: solo nel 2022 entreranno direttamente nel governo due cognati.

In che modo Matteotti abbia imparato sul campo a saldare teoria e prassi, lo spiega Piero Gobetti:

Le sue predilezioni per le scienze giuridiche ed economiche trovavano qui [nelle leghe e nelle cooperative] l’opportunità di inserirsi nella sua fede di socialista, e non fu solo il più dotto dei socialisti che scrivessero d’economia e di finanza, ma il più infaticabile nel lavoro quotidiano di assistenza amministrativa2.

Matteotti è un socialista, ha chiara la lotta di classe e riconosce nell’imbroglio, nelle malversazioni e nei reati predatori dei funzionari pubblici e dei colletti bianchi uno strumento dell’oppressione sociale. Ed è anche un giurista, un penalista: sa distinguere cosa è legale e cosa no. Non possiamo dire che sia un ambientalista, ma possiamo aggiungere che la sua attenzione ha toccato ciò che chiamiamo estrattivismo. Matteotti è a conoscenza di una vicenda legata al petrolio: c’è di mezzo un accordo estrattivo favorito da Arnaldo Mussolini3.

Come altri giuristi, per esempio Silvio Trentin, che sceglie di rinunciare alla carriera accademica pur di non servire il fascismo, e passa in Francia a fare il contadino e il manovale, anche Matteotti vede, e già prima del fascismo, il problema dell’ipocrisia e dell’angustia mentale dei legulei, dei giureconsulti di regime o conformisti. Sono quelli che di lì a qualche anno scriveranno codici forcaioli, norme liberticide, leggi razziali. Lui ammonisce sin dal 1919:

[Dalla] sfornata annua di giurisperiti, l’Italia attende il minimo di utilità sociale; e vi ravvisa anche il minimo di sostanzialmente alta cultura. […] Il laureato in legge in Italia, se non ha avuto per suo conto una singolare volontà di apprendere, assomiglia a quegli specialisti di Multatuli [lo scrittore Eduard Douwes Dekker], i quali, col pretesto delle poche conoscenze raggiunte in una materia speciale, si permettono di dimenticare o ignorare tutto il rimanente4.

Anche nel giugno 1922 Matteotti non perde di vista la questione:

Quella enorme fabbrica di spostati, che è attualmente la facoltà di legge […], moltiplicata per tutta Italia in modo uniforme, fabbrica così i magistrati, come gli avvocati, come tutti gli impiegati statali, con una cultura che è tutta posticcia, formalistica, proceduristica5.

Si capisce l’importanza della battaglia contro i formalismi e i dogmatismi quando si considera cosa hanno prodotto, in Italia, i conciliaboli dell’ubbidienza insediati dal fascismo nelle accademie. Si paga ancora adesso, quella nera caligine.

Quanto il deputato abbia presente il diritto ingiusto, traspare da un intervento alla Camera del 31 gennaio 1921 sulla questione della forza:

Sappiamo classisticamente che tutte le leggi sono applicate dalla borghesia a suo favore; perché voi avete l’organo applicatore delle leggi nelle vostre mani; perché sappiamo che resteranno armati gli ufficiali e gli ex-ufficiali, i quali pur formano il grosso delle bande fasciste; perché al contadino, tolta l’arma che possiede, non gliene rimane altra, mentre ciascun fascista o agrario ha dietro di sé il rifornimento della forza pubblica e del regio esercito! […] Ma se voi continuerete, non voi avrete la conservazione, non noi la rivoluzione, ma si sarà, purtroppo, creata la guerra civile, e la dissoluzione del Paese6

Come siano i giuristi in vendita, poi, ce lo dice la seduta del 30 maggio 1924, l’ultima, quando la Camera è presieduta proprio da Rocco. Matteotti scaglia la verità contro il governo ed è interrotto e minacciato di continuo. Due battute, sciasciane prima di Sciascia:

Presidente. Onorevole Matteotti, se ella vuol parlare, ha facoltà di continuare, ma prudentemente.

Matteotti. Io chiedo di parlare non prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente!7

L’uomo che ha visto per tempo, che ha capito l’alleanza fra lo squadrismo e la parola prostituita, morirà di pugnale. E ha da insegnarci, quella sua polemica robusta che sa di buon diritto, di umanità calorosa – lo chiamavano «Tempesta» – e di lotte sociali: è un sogno di una cosa che non rinuncia a nessun mezzo; è una lotta che ha un fine ma non lo reifica. Quella sua critica della ragion sana esorta, per bocca di un deputato del Polesine, a fare le cooperative e a votare alle elezioni, a organizzare i sindacati e ad amministrare gli enti locali, a padroneggiare la forza di massa e a studiare.

Lui è documentatissimo. Il suo Un anno di dominazione fascista, uscito poco prima della morte, tocca con denunce circostanziate il lavoro e la burocrazia, ma anche – ricorda niente? – la giustizia e il sistema tributario. Tocca persino – e questo, adesso, ricorda niente? – l’abuso dei decreti-legge, la manipolazione delle autonomie locali e il rischio di una modifica costituzionale nel senso del cancellierato. È preciso contro lo sfruttamento, anche quando rivendica il riconoscimento delle leghe e l’imponibile di mano d’opera. Sa da giurista e fa da socialista, ricordando le conquiste faticose tra l’unità d’Italia e il regime fascista:

Si era arrivati a una maggiore giustizia, a una maggiore civiltà, distribuendo il poco lavoro fra la mano d’opera agricola. Ma questo l’Agraria più non vuole; e, dopo aver firmato i patti, vuole infrangerli, perché non vuol sostenere il peso della mano d’opera agricola obbligatoria. […] E siccome l’esercizio reale dell’organizzazione offende, intacca i profitti capitalistici, ecco più forte che mai l’insurrezione dell’Agraria, ecco il movimento dei fasci8

La lotta di classe insurrezionale, quella fatta dall’alto verso il basso, non si potrebbe smascherare meglio. Gli assassini lo sanno. Si legge malvolentieri, quanto scrive il sicario Amerigo Dumini, con la sua coscienza sporca e la sua prosa teatrale; ma sulle ragioni della scelta del bersaglio, in fondo, non ha motivi per mentire. Mussolini aveva spiegato perché proprio Matteotti:

I socialisti massimalisti non rappresentavano per lui il pericolo costante della giornata; nemmeno i repubblicani né tampoco l’esiguo gruppo dei comunisti. L’insieme di tutti questi agglomerati politici costituito in massima parte da elementi blateratori, dalla parola risonante e ad effetto, buoni soltanto per l’impressione momentanea da far sulla folla era privo di individui dalle concezioni profonde da cui potesse scaturire un vero e proprio pericolo per l’ordinamento fascista9

Anche il testo sciasciano, non solo la dirittura di Matteotti, ha da insegnarci. Per esempio. Quando il procuratore comincia il suo monito subdolo per intimorire il giudice, un la si insinua: «Lei sa come la penso». A Sciascia non sfugge la presa, su questa sillaba che separa il soggetto dal suo pensiero:

Pronome, per gli italiani, della religione cattolica, del partito al governo, della massoneria, di ogni cosa che avesse – evidentemente o, peggio, oscuramente – forza e potere, di ogni cosa che fosse temibile; e ora del fascismo, delle sue imposizioni, dei suoi riti. «Lei sa come la penso, io so come lei la pensa: e dunque non pensiamola, non stiamo a pensarci. Che è meglio»10

I discorsi dei giuristi, del Palazzo, sono fitti di questi sottintesi, di questi garbugli che occhieggiano. Prismi deformanti che fanno le viste di essere innocui e invece falsificano le leggi come i fatti. Ce ne sono ancor oggi: sono i «non è chi non veda», i «combinati disposti», i «nei sensi di cui sopra», le «istituzioni».

Ma l’assurdità della mistificazione, nella società come nelle sue regole, non coinvolge solo il mondo della legge: se da un lato i giuristi di mestiere smettono di credere nelle regole che proclamano, chi quel mestiere non ha scelto pretende di dar lezioni, a costo di farsi danno da sé, e anche questo ha una sconcertante somiglianza con l’oggi, tempo di avvocati nel cassetto, di cattivi divulgatori, di programmi del pomeriggio. Il colpevole del delitto del 1937, un po’ per il lavoro che gli è stato tolto, un po’ per oscuro puntiglio, non vuole una perizia psichiatrica, e pensa di saperla lunga: «L’imputato, avendo frequentato il mulino giudiziario e avvocatesco, di diritto si sentiva infarinato»11; imperdibili, su questo, le massime di La Rochefoucauld citate, sull’amor proprio. Sciascia premette, con acume zenitale: «Contorto, feroce e disperato amor proprio; incontrollabile ormai». Quell’autostima malata, carnivora e autopunitiva, segna un’epoca. Il 1937 precede l’anno sia delle leggi razziali sia dell’esperimento romano, meno noto, che inaugura l’uso dell’elettroshock: un uomo viene catturato dalla polizia e consegnato ai medici, che gli praticano le scosse; poi si redige una convinta descrizione dell’avvenimento12. Bisognerà aspettare la psichiatria democratica e Franco Basaglia per vedere altro; ma proprio mentre il diritto e la psichiatria costruiranno democrazia e umanità, la loggia P2 scriverà il Piano di rinascita democratica, con dentro l’attacco all’indipendenza dei magistrati e i test psicologici per selezionarli. Sono i test voluti oggi dalla maggioranza governativa.

E poi, questo amor proprio e questa ferocia non ricordano a tutti noi qualcosa, qualcuno, qualche volto noto, fra i tanti sociopatici che ammorbano l’aria, dalle assemblee di condominio sino alle campagne elettorali e presidenziali, passando per i consigli di amministrazione, per i vertici degli enti locali? Non c’è una parentela sotterranea, tra il vicino di casa che aizza il cane e il miliardario zazzeruto che ha assaltato Capitol Hill sguinzagliando i suoi botoli?

I giuristi, però, hanno speciali responsabilità. Vale per loro, anzi vale di più, quanto scrive Raffaello Ramat nell’agosto 1943 – quell’estate è una porta temporale – sugli scrittori. Basta mettere al posto dell’arte la giustizia (un’arte priva di cattivo intrattenimento, prima di certa televisione):

Gli scrittori hanno il compito di educare. Non si venga fuori con l’autonomia dell’arte: quello è un altro discorso, e chi lo incominciasse ora, vorrebbe imbrogliare le carte. […] In ispecie agli scrittori dei giornali, si deve la situazione che si era stabilita in Italia, per cui ciascuno mentiva e chi l’ascoltava fingeva di crederlo in buona fede perché gli altri fingessero di crederlo in buona fede quando fosse arrivato il suo turno di mentire13.

Ai giuristi si deve chiedere di più, e proprio a sottolineare questo, Porte aperte si svolge in una corte d’assise, dove lavorano insieme il giudice di mestiere e i giurati. Uno in particolare, fra questi, lascia un segno indelebile. Quasi un enigma.

Contrari entrambi alla pena di morte, il giurato riceve il giudice nella sua casa vecchiotta, dove ospita Simone, una francese, «la signora che per ora vive con me». La conversazione è un’altra porta, e ascoltata oggi fa trasalire:

«A meno che non si voglia ammettere che l’abbia capito Mussolini, nessuno» disse il giudice «capisce che la guerra di Spagna è la chiave di volta di quel che minaccia il mondo».

«E a meno che non si voglia ancora ammettere che l’abbia capito Mussolini, con quella sua buffonata della spada dell’Islam, e nessuno di quelli che vi sono direttamente interessati, quel che succede a Tel Aviv mi inquieta molto» disse l’amico. […]

Quell’apprensione su delle notizie che la guerra di Spagna relegava ai margini, il terrorismo degli ebrei che volevano fondare uno Stato, il modo in cui gli inglesi gestivano il loro mandato in Palestina, sembrava a Simone e al giudice del tutto eccessiva e, facendone argomento di discussione, alquanto maniacale. E, peraltro, non avevano le informazioni che sembrava avesse invece il loro amico, che in quei luoghi aveva viaggiato14.

Non ci sono sconti, non ci sono riguardi. Simone è una «per ora», meno di un’amante. Gli ebrei sono terroristi. I musulmani sono bambocci: proprio nel 1937 hanno giocato con un balocco fascista, la «spada dell’Islam»15. Un giurato colto ha capito anche più del giudice: una porta aperta è di fronte all’Europa ma affaccia su un precipizio. Nel gorgo ci sono la spartizione del continente, il doppiogiochismo staliniano e gli stukas, il sionismo e lo sterminio degli ebrei, gli ultimi bagliori del colonialismo e i primi della decolonizzazione. E ancora più giù, tra i moniti della coscienza, si vede lo sguardo di quell’uomo, quell’assassinato che nel 1924 è rimasto senza giustizia, perché chi ha in mano il potere si vende e gli altri aspettano le briciole chiedendo ordine. Quel cadavere tornerà, fra pochi anni. Tornerà nel buio: all’ora del lupo.

In Italia ha lasciato qualche traccia nella memoria una leggenda. Corre durante la Seconda guerra mondiale, sotto i bombardamenti, quando la notte, sopra le città oscurate, si sente il volo dei ricognitori. Secondo la diceria quell’aereo – uno e, pensa un po’, sempre lo stesso – si chiama Pippo ed è pilotato dal figlio di Matteotti. In questa suggestione possono esserci molte cose. L’odio contro la famiglia; l’amore per l’eroe caduto. Il rimorso per non averlo difeso, non aver colto l’occasione di rovesciare il regime. Il senso di colpa. Se l’Italia va in polvere è perché non difendemmo ciò che avevamo, vent’anni fa. Sperammo in un aiuto dall’alto e da lontano, in quel 1924: chi sperò nel re e chi nella mano divina; chi sentì gli alti squilli della rivoluzione, con la forza del proletariato, e chi l’eco solenne della storia romana, con l’Aventino; chi contò sullo Statuto Albertino e chi sulla dichiarazione Balfour. Adesso dall’alto, da lontano viene il castigo.

Lezione da scrivere a lettere d’oro: non arrendersi, soprattutto non cedere sulle conquiste già realizzate, anche parziali, anche malmesse; non trascurare la presa sui fatti, lo studio dei dati; non spezzare le alleanze utili, neanche se mediocri; non abbandonare le sedi di conflitto, neanche se ti dicono che non è quello il campo, che il voto non cambia le cose, che il compromesso frena cambiamenti più grandi, che la storia la fanno ingranaggi più alti di te, che leggi e costituzioni le scrive chi comanda e non contano niente. Non arrendersi.

 

1 Leonardo Sciascia, Porte aperte, Milano, Adelphi, 2009, pp. 16-17.

2 Piero Gobetti, Matteotti, Torino, Piero Gobetti Editore, 1924, p. 15.

3 Mauro Canali, Il delitto Matteotti, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 238-240. Fa riferimento al petrolio anche il memoriale di Amerigo Dumini del 7 gennaio 1933, in Paolo Paoletti, Il memoriale Dumini, «Il Ponte», XLII, n. 2 (marzo-aprile 1986), pp. 76-93. Escludono la pista del petrolio Marzio Breda e Stefano Caretti, Il nemico di Mussolini. Giacomo Matteotti, storia di un eroe dimenticato, Milano, Solferino, 2024, soprattutto pp. 199-207.

4 Giacomo Matteotti, Sulla scuola, a cura di Stefano Caretti, Pisa, Nistri-Lischi, 1990, pp. 126-127, che cita Giacomo Matteotti, Spunti universitarii, paragrafo Troppi avvocati, in «Critica Sociale», XXIX, n. 11, 1-15 giugno 1919, pp. 138-139.

5 Matteotti, Sulla scuola cit., pp. 214-217, che cita un ordine del giorno, Camera dei deputati, XXVI legislatura, 1ª sessione, discussioni, 1ª tornata del 14 giugno 1922.

6 Giacomo Matteotti, Contro il fascismo, Milano, Garzanti, 2019, pp. 25-26.

7 Ivi, p. 44.

8 Ivi, p. 44.

9 Memoriale di Amerigo Dumini del 7 gennaio 1933, in Paoletti, Il memoriale Dumini cit., specialmente p. 80.

10 Sciascia, Porte aperte cit., p. 12.

11 Ivi, p. 54.

12 Thomas S. Szasz, La psichiatria a chi giova?, in Franco Basaglia e Franca Basaglia Ongaro (a cura di), Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, Torino, Einaudi, 1975, p. 426 ss.

13 Aa.Vv., La Resistenza in Toscana. Atti e studi dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 102-103.

14 Sciascia, Porte aperte cit., pp. 99-100.

15 Francesco Gabrieli, La spada dell’Islam, «Il Ponte», VIII n. 10 (ottobre 1952), pp. 1453-1457. Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia dal fascismo a Gheddafi¸ Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 284, che cita Il Duce in Libia, ed. speciale dell’Agenzia Stefani, Milano, Alfieri & Lacroix, 1937.