Non c’è stata una campagna elettorale: le diverse propagande si sono per lo più concentrate sulla difesa o la critica all’agenda Draghi (qualsiasi cosa ciò volesse significare), e, soprattutto, sulla fedeltà alla Nato, misurata dalla maggiore o minore adesione manifestata all’invio di armi all’Ukraina invasa. Gli altri problemi – la crescita costante della povertà, assoluta e relativa, la recessione in vista, il progressivo esaurirsi del “tesoro” ottenuto dall’Europa dal governo Conte – dopo un rapido accenno, sono stati subito accantonati, non avendo i partiti in lizza idee concrete su come farvi fronte.

Il clima di guerra fredda che ha investito l’Italia ha quindi inciso in modo determinante sul già asfittico dibattito politico, per cui gli esponenti dei vari partiti si sono avviati al voto rinfacciandosi l’un l’altro di “non avere una visione” e scrutando al contempo, ossessivamente, i sondaggi quotidiani, su cui calibrare o variare i propri messaggi.

Ha prevalso, come previsto e propiziato dai media, la coalizione di destra guidata dalla Meloni, che, complessivamente ha ottenuto 12,15 milioni di voti, quasi gli stessi del 2018 (150 mila in più, ma 800.000 in meno rispetto alle Europee del 2019); all’interno della stessa, però, il suo partito, cresciuto dal 4,3% del 2018 al 26% del 2022, ha fagocitato gli alleati, crollati all’8%, Forza Italia e all’8,9% , la Lega.

Sul fronte opposto, gli sconfitti si sono presentati in ordine sparso, rinunciando sin dall’inizio a qualsiasi possibilità di vittoria, puntando ad affermazioni “secondarie”: il PD, che voleva solo imporsi come primo partito a livello nazionale, ha però perso anche questa scommessa, attestandosi al 19%, subendo una emorragia di voti, solo in parte affluiti nella coalizione di centro destra di Calenda-Renzi, che ha sfiorato l’8%; il Movimento 5 Stelle, precipitato dai 10,7 milioni di preferenze del 2018 ai 4,3 milioni del 2022, ha cercato di fermare da ultimo la caduta, attestandosi, con nuove parole d’ordine di “sinistra”, al 15,6%; poco più di una testimonianza è stata quella della formazione di Bonelli e Fratoianni, i cui consensi si sono fermati al 3.6%, un risultato di poco superiore al quorum richiesto; assolutamente negativo è stato poi l’esito dell’ennesimo tentativo di riunire, in vista delle scadenze elettorali, i gruppuscoli di estrema sinistra, che, sotto l’insegna dell’Unione Popolare di Luigi De Magistris, non raggiungendo il quorum con l’1,5% dei consensi ottenuti, hanno semplicemente disperso nel nulla oltre 700.000 voti.

Per chiudere il quadro va poi segnalata la crescita continua dell’astensione dal voto, crollato nelle regioni del Sud di ben 13,5 punti: in quelle zone, tra coloro che non si sono recati ai seggi, il 50% è costituito da “chi si dichiara in difficoltà economiche” e che ormai pensa che il voto non possa far migliorare la sua condizione: e questo induce a preoccupate riflessioni sullo stato di salute di questa democrazia procedurale, il cui carattere virtuoso è legato essenzialmente all’efficacia inclusiva del suo meccanismo elettorale.

In tale contesto, negli ultimi quattro anni, gli elettori attivi hanno fatto registrare uno spostamento dei consensi verso la destra estrema, un processo compiutosi in due tempi: dapprima con il rapido affluire di metà degli elettori del Movimento 5 Stelle nella Lega di Salvini (evidenziando quanto folta fosse, in origine, la componente di destra di quel raggruppamento), quindi col passaggio, negli ultimi tempi, delle preferenze di gran parte dei votanti di Lega e Forza Italia alla formazione della Meloni (chiarendo che sostanzialmente unico è il bacino che alimenta questi tre vasi comunicanti, che registrano, a seconda dell’umore dei loro elettori, il travaso dei consensi dall’una all’altra delle formazioni in campo).

All’origine di quest’ultimo spostamento due sono stati i fattori determinanti: da un lato, il declino evidente degli altri leader della coalizione, Salvini, naufragato dopo il Papeete e sconfitto alle amministrative in Emilia Romagna e Berlusconi, di fatto irriso dagli alleati quale candidato alla Presidenza della Repubblica e poi abbandonato anche da figure di spicco del suo stesso partito; e, d’altro lato, l’impatto prodotto in Italia dalla guerra russo americana in Ukraina, poiché la Meloni ha potuto rivendicare, a differenza dei suoi due alleati, una fedeltà alla Nato a prova di bomba, risalente, ai tempi di Giorgio Almirante e di Pino Rauti.

Tuttavia, malgrado queste circostanze favorevoli, i media per giustificare il loro recente appoggio, hanno dovuto archiviare in silenzio il suo neofascismo giovanile, presentandola all’elettorato come l’astro sorgente di un moderno conservatorismo; hanno avuto, è vero, una certa difficoltà nell’individuare le ragioni di questo suo improvviso carisma, ma, dopo tanto cercare, la stampa, con il Corriere in testa, ha trovato la “chiave del suo successo” nella “coerenza”, dimostrato dal fatto che la Meloni è rimasta all’opposizione, per anni, nei confronti dei vari governi succedutisi nel tempo (così, senza ironia, Antonio Polito, il 26/9/2022): un’opposizione netta e urlata nei toni quando Conte era al governo con il PD ed era impegnato ad acquisire i fondi europei; ed un’opposizione invece ragionata e pacata, quando al governo si è insediato Draghi, con i suoi alleati di destra, impegnato a distribuire i soldi così ottenuti.

Le prime mosse della Meloni hanno però delusi i sostenitori di questo conservatorismo moderno, poiché le elezione dei Presidenti di Camera e Senato di moderno hanno mostrato ben poco: l’uno, Ignazio Benito La Russa, è rimasto da sempre ancorato al passato fascista, ricordato e coltivato ancor oggi in famiglia ( con la custodia in casa di un busto di Mussolini, da lui definito, non nel secolo scorso, ma ancora nel 2013, “un grande statista”; e col fratello Romano, filmato, alla vigilia del voto, mentre si esibiva nel saluto del ventennio); l’altro, Lorenzo Fontana, cattolico ultraconservatore, noto per avere chiesto l’abolizione della legge Mancino nel 2018 e per aver patrocinato, l’anno dopo, quale ministro della famiglia in quota Lega, il Congresso mondiale delle famiglie a Verona,organizzato da un’associazione russo americana contraria al divorzio, all’aborto, ai matrimoni gay e all’immigrazione.

In questa prima fase, a parte questo tuffo nel passato, un solo fatto è risultato degno di nota: la coalizione di destra, in occasione dell’elezione di La Russa, si è subito divisa ed i consensi mancanti di Forza Italia sono stati sostituiti da 17 voti compiacenti provenienti dalla c.d. opposizione: il siparietto tra Berlusconi e Meloni (“arrogante e supponente”, lui – “non sono ricattabile”, lei), si è concluso con un oscuro baratto siglato dalla neo presidente del consiglio con il ventre molle dell’opposizione. Presumibilmente, il primo di una lunga serie vista la qualità, le divisioni e l’incerto procedere di quest’ultima.

La seconda fase della formazione dell’esecutivo è stata poi accompagnata dal lancio di un “ governo politico di alto profilo”, formula escogitata a suo tempo dal Presidente della Repubblica per presentare il governo Draghi, ma subito rivelatasi inadatta a rappresentare il nuovo esecutivo, formato essenzialmente dal riciclaggio di una decina di personaggi che avevano seguito Berlusconi nella quasi bancarotta del 2011, Meloni compresa, e dall’ingresso nel governo dei fedelissimi della generazione Atreyu, dai profili spesso sconosciuti, guidati da Francesco Lollobrigida, cognato della premier, noto per aver inaugurato il sacrario di Graziani ad Affile e oggi diventato ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare (sic).

Poi è stato il turno della Meloni, accompagnata, in vista del discorso di insediamento, dal sollecito suggerimento del Corriere di fare grande uso della parola libertà ( di parola, di pensiero, di intraprendere, di investire, ecc.) se voleva “tagliare qualsiasi filo con il passato postfascista”. Un auspicio volto a farle indossare i nuovi panni senza doversi togliere i vecchi, prontamente accolto dalla Meloni, che infatti, nel suo discorso in Parlamento, ha ripetuto il termine libertà una quarantina di volte, raccontando che la sua parte politica era stata a suo tempo criminalizzata ed affrontata “dall’antifascismo militante che uccideva a colpi di chiave inglese”: una delegittimazione pretestuosa di tutto l’antifascismo, coniugata con qualche omissione di troppo nella descrizione degli anni della strategia della tensione, una narrazione peraltro risultata gradita ai molti che hanno gonfiato il suo successo.

L’ esordio, tuttavia, era stato poco brillante: la Meloni, uscita dal colloquio con Mattarella, aveva annunciato i nomi dei neo ministri dell’Ambiente e della Pubblica Amministrazione, Zangrillo e Pichetto Fratin, per poi scambiare i loro incarichi nel giro di due ore, a seguito di affannose telefonate; quindi si era rivolta al neo eletto deputato Soumahoro, sbagliandone il nome e dandogli del tu, quasi un riflesso nostalgico dei bei tempi andati; dovendo indicare quanti metri cubi di gas sarebbero stati destinati alle aziende a prezzo calmierato ha parlato, prima, di 1.000-2.000 m.c., poi, avvertita dell’errore, di milioni e infine di miliardi, evidenziando di ignorare completamente i termini della questione che cercava di spiegare; da ultimo, “dovendo” prendeva le distanze dal proprio passato, l’ha fatto in modo maldestro, sostenendo, in un inciso, di non “aver mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici, fascismo compreso”: un avverbio insincero, due sostantivi inadeguati, una frase nel complesso penosa.

Il 28 ottobre, poi, centesimo anniversario della marcia su Roma, non sapendo anche questa volta cosa dire, si è rinchiusa in un poco onorevole silenzio.

Sviste, scivoloni e omissioni vengono, però, subito oscurate, poiché i riflettori mediatici illuminano altre parti del discorso del “signor Presidente del consiglio”, quelle in cui espone la sua “visione” politica, cioè l’impegno a seguire le scelte del governo Draghi sia in materia economica (“il nostro motto sarà: non disturbare chi vuole fare”), sia, soprattutto in politica estera (ha subito rassicurato Biden, Stoltemberg e Zelenski su “ Armi e Atlantismo”, come sollecitatole per tempo dal Corriere, il 28/9), rivelando così di quale pasta fosse stata la sua “coerente opposizione” al governo precedente.

A questo punto gli estimatori ad oltranza, archiviata in silenzio la sua prima qualità, la coerenza, ne scoprivano una seconda e cioè l’autorevolezza, dimostrata questa nell’esercizio della leadership, sia nei confronti di Berlusconi, con l’esclusione della Ronzulli dall’esecutivo, sia nei confronti di Salvini, cui aveva negato l’ambita carica di ministro dell’interno.

In realtà anche questa sua acclamata capacità è risultata prevalentemente di facciata, perchè la Meloni, come da tradizione, ha solo usato in modo attento il manuale Cencelli: ha infatti accontentato l’alleato più debole, Berlusconi, assegnando la delega per l’editoria , cui la famiglia tiene molto, al forzista Barachini; ed ha premiato in misura maggiore Salvini, indicandolo come vice presidente e ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture ( ivi comprese quelle portuali, sottratte al neo varato ministero del Mare !) e designandolo, per interposta persona, anche in quello più ambito, visto che ministro dell’interno è diventato Matteo Piantedosi, suo ex capo di gabinetto e teste a discarico nei “processi dei migranti”.

La Meloni, dunque, subordinata alle direttive economiche della UE (che ha inteso subito rassicurare mantenendo nell’esecutivo, a vario titolo, due esponenti significativi del governo Draghi, Giorgetti e Cingolani) e vincolata, in politica estera, da quelle della Nato (e qui, col suo esibito atlantismo ha tracciato il solco anche per i suoi incerti alleati), ha poi potuto mostrare la discontinuità dal precedente esecutivo, solo inserendo nel programma le promesse tipiche della destra tradizionale: la pace fiscale, rituale omaggio all’amplia platea degli evasori, la flat tax , volta a premiare le corporazioni di riferimento, un robusto incentivo all’economia sommersa (e ad altro) con l’innalzamento del tetto per il contante, il “condono” immediato ai medici no vax, ecc.

Ritenendo questo insufficiente per marcare l’ identità del nuovo governo, il consiglio dei ministri tenutosi il 31 ottobre, ha individuato, come prima emergenza da affrontare, quella dell’ordine pubblico “minacciato” da un rave di circa 3.000 partecipanti che ballavano la techno, organizzato in un capannone dismesso ed isolato nella campagna del modenese.

La vicenda è parsa subito surreale: non vi erano, infatti, pericoli di sorta per l’incolumità o la salute pubblica (il raduno si è sciolto con l’abituale intervento della polizia, senza incidenti) e la legge che proibiva le invasioni e le occupazioni abusive di case o terreni già esisteva (l’art. 633 del codice penale, modificato da uno dei Decreti Sicurezza di Salvini nel 2018, prevedeva una pena elevata da 2 a 4 anni di reclusione, per gli autori numerosi delle invasioni): malgrado l’esistenza di tale reato, il governo ha deciso di inventarne un altro (l’art. 434 bis), praticamente identico al precedente, ma solo aggravato dalla possibilità che dall’occupazione derivi un pericolo “per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”; e per motivare l’ulteriore stretta repressiva – il delitto è ora punito con una pena da 3 a 6 anni di reclusione, sì da consentire la custodia cautelare in carcere, le intercettazioni e la confisca obbligatoria delle cose usate per organizzare tali raduni – il governo-legislatore ha collocato il reato tra “i delitti di comune pericolo mediante violenza”, accanto agli attentati, ai disastri dolosi e alla fabbricazione di materie esplodenti (sic).

Non vi era, dunque, alcuna necessità od urgenza per intervenire con un decreto legge: stupisce che il Presidente Mattarella abbia firmato l’atto senza nulla obiettare, visti, a tacer d’altro, gli “irragionevoli” minimi e massimi di pena stabiliti per tali comportamenti: trattasi di un “caso assoluto di analfabetismo legislativo” (Tullio Padovani, su “Il Foglio, 2/11/2022), di un mero espediente identitario e propagandistico, pensato male e scritto peggio, che avrebbe dovuto suscitare la riprovazione, almeno, del ministro della giustizia, il garantista Carlo Nordio: questi aveva infatti più volte sostenuto la necessità di varare una consistente depenalizzazione (evidentemente pensava alla eliminazione dell’abuso d’ufficio); ed aveva altresì annunciato la sua ferma intenzione di “riformare il codice, firmato da Mussolini, in senso liberale, con la pena proporzionata al crimine secondo la Costituzione”(La Repubblica, 5/11/2022); ma di fronte a questa duplicazione di reati ed all’ulteriore sterzata repressiva introdotta in quel codice non ha proferito verbo e si è uniformato a quanto da altri deciso.

Dopo questo esordio infelice, il ministro Piantedosi è tornato all’usato sicuro, inventandosi un’altra invasione, quello dei migranti favoriti dalle ONG straniere che avevano la pretesa di approdare in un porto della Nazione.

In Italia, dal febbraio di quest’anno, sono giunte e sono stati accolte, senza che Salvini fiatasse, 172.000 persone, a seguito della guerra in Ukraina; nello stesso periodo, sospinti spesso da altre guerre, sono giunti tramite le ONG 11.090 migranti (ma non erano bianchi e cristiani come gli altri); il ministro sa bene – ed i dati da lui elencati in Parlamento lo comprovano – che la stragrande maggioranza degli arrivi via mare ( l’87 %) avviene indipendentemente dall’attività delle ONG; e tuttavia, poiché l’idea sbandierata dalla Meloni del blocco dei porti africani era ovviamente pura propaganda e Piantedosi doveva spiegare agli elettori come mai, anche con nuovo governo, tutto continuava come prima, il ministro è dovuto ricorrere al capro espiatorio di sempre, nascondendo la propria impotenza, che poi è quella della “fortezza Europa”, dietro la rituale accusa all’ attività delle ONG.

L’esito di questa ennesima prova muscolare non ha dato tuttavia i frutti sperati : dopo una grottesca selezione medica, i migranti alla fine sono tutti sbarcati, tramite i 234 trovati “in buona salute” (dopo 23 giorni trascorsi, stipati con altri 301, a bordo della Ocean Viking !) e dirottati, come “carico residuo”, in un porto francese, previo l’assenso di Macron, intervenuto, a suo dire, per scopi umanitari. Poiché Salvini aveva subito esultato, sostenendo che la “musica era cambiata”, il francese, pressato a sua volta dai sovranisti di casa propria, reagiva duramente, suscitando un incidente diplomatico. Per attenuarne la portata, ha dovuto intervenire Mattarella, dopo che la comunicazione diretta Meloni – Macron si era interrotta.

Dunque, in questo primo mese, al duo Salvini – Piantedosi è stato consentito di gestire la propaganda “legge e ordine” (con qualche incidente di troppo), mentre la presidente del consiglio ha seguito la linea Draghi, valorizzando il proprio atlantismo, utilizzando con cura la decina di miliardi lasciatile in eredità e seguendo con attenzione i consigli del suo predecessore, che la invitavano alla prudenza “per non spaventare i mercati”. Così come ha diligentemente fatto; non senza lanciare, peraltro, un messaggio “unitario” agli elettori della coalizione: ha prelevato i pochi fondi destinati ai percettori “occupabili” (!) del reddito di cittadinanza per colmare, anche se in modo poco più che simbolico, i buchi prodotti all’Erario, grazie all’estensione della flat tax al 15% sino a 85.000 euro (per professionisti, artigiani, commercianti, ecc) ed alla spinta all’evasione fiscale indirizzata a fasce ancora più ampie di votanti (rottamazione delle cartelle, aumento del contante, recupero dei voucher, ecc): ha in tal modo allargato ulteriormente la distanza esistente tra categorie e ceti diversi, indicando con chiarezza quale sia la strada che intende percorrere, se non per tempo contrastato, questo governo.

Sulla scena politica, poi, tra Fratelli d’italia e Lega è iniziato così un gioco delle parti, con il partito di Forza Italia nel ruolo di “moderatore”, tanto da far apparire esistente una dialettica politica, sia pure tutta interna ai confini della maggioranza.

Ma non appena Calderoli ha presentato il testo di un articolato progetto sull’Autonomia differenziata “da portare in Consiglio dei ministri entro Natale” – un testo incostituzionale che riduceva persino la potestà legislativa dello Stato e rendeva il ministro delle autonomie, cioè Calderoli stesso, dominus dell’intero processo attuativo (art. 2) – la Meloni, vista anche la reazione negativa di molti governatori del Sud, convocava un vertice negli uffici del suo partito, invitando il ministro alla calma, perché il suo progetto non poteva precedere le due bandiere di FdI, il presidenzialismo e i poteri speciali per Roma; e così Calderoli doveva derubricare la sua “legge, spiegata punto per punto” al leghisti veneti all’inizio di novembre, a semplice raccolta di “appunti di lavoro”, da ridiscutere con i Fratelli romani nei prossimi mesi (Repubblica, 18/11/2022).

Ancora una volta, dunque, le bandiere dovevano sventolare tutte insieme.

Del resto era già avvenuto nel 2005 ( Calderoli doveva ben ricordarlo), quando i partiti di destra si erano accordati per varare di concerto, in pochi mesi, le loro leggi identitarie, quella sugli stupefacenti, quella elettorale e la “devolution” ( la “madre” dell’autonomia differenziata), per soddisfare i rispettivi elettorati; e così si deve procedere oggi, con le due leggi in programma volte a trasformare la Repubblica, da parlamentare a presidenziale e lo Stato, da “uno e indivisibile” a variamente “differenziato”.

Nessun arresto nel progetto di stravolgere la Costituzione, dunque, ma solo una sosta provvisoria, in vista di un migliore coordinamento ed in attesa del momento adatto; per di più, questa volta, a guidare il processo è un partito di estrema destra che continua a sovrastare nei consensi i suoi alleati e che è guidato da una presidente del consiglio, che, dopo aver auspicato la vittoria di Vox in Spagna, ha riscosso calorosi consensi, per la maschia gestione esibita nei confronti dei migranti, da parte dei soli presidenti illiberali di Polonia ed Ungheria, Orban e Duda.

Per il momento, tuttavia, urgono altre, e questa volta vere, emergenze, economiche e sociali – riserve energetiche carenti, inflazione, rescissione alle porte, povertà in crescita, le crisi industriali all’Ilva di Taranto e all’Isab di Priolo, ecc. – e di conseguenza questi rivolgimenti istituzionali usciranno per qualche tempo dai riflettori.

Ma i partiti che si trovano all’opposizione – una volta che il PD riemerga dall’apnea in cui si è volontariamente immerso e che il Movimento 5 Stelle porti a compimento la sua “rifondazione dall’alto” – dovranno decidere come contrastare questa deriva, individuando, per prima cosa, le forze sociali cui fare riferimento e le questioni da considerare prioritarie; se saranno in grado di farlo, si vedrà; in ogni caso, oltre alle scadenze immediate, faranno bene a seguire da vicino anche l’evolversi di questa radicale “riforma” costituzionale, per non doversi accorgere domani, a cose fatte, che non solo la Carta del ’48 non è stata attuata, ma che, nei suoi tratti fondanti, è stata addirittura cancellata.