Alcuni giorni prima delle elezioni mi chiedevo: e se vince la destra? Domanda retorica perché, chiunque avesse vinto, avrebbe sempre vinto la destra. Dico questo perché in Italia, ormai da molti decenni, la sinistra non esiste più. È, questa mia, la conclusione amara di un percorso che dalla Bolognina arriva ai giorni nostri. Un percorso che inizialmente è tutto quanto all’interno della storia del Pci i cui dirigenti, pur cambiando più volte il nome al partito (prima Pds, poi Ds e poi ancora Pd), non sono riusciti a elaborare una strategia socialista. Intendo dire che con il crollo del Muro di Berlino l’intellighenzia pci spaventata, forse, dal dissolversi dei partiti tradizionali e stressata dagli avvenimenti internazionali che annunciavano la fine dell’Unione Sovietica – quell’Unione Sovietica che tanta parte aveva avuto nell’immaginario popolare – si lasciò irretire dagli eventi e acriticamente accettò l’idea che la stagione del socialismo volgesse alla fine.
Un chiaro difetto di cultura politica perché con l’Ottantanove tramontava non il socialismo ma un certo socialismo: il socialismo statalista. Il che fa pensare che l’Unione Sovietica, almeno nel subconscio pciista, era ancora ritenuta il paese guida, tanto che, implodendo, poneva fine all’idea sia di comunismo sia di socialismo. Da qui anche il nome che fu scelto per il partito che usciva dalle ceneri del Pci: Partito dei democratici di sinistra, un nome che non aveva – e non ha nella sua ultima accezione di “Partito democratico” – alcun rimando né al comunismo né al socialismo, ma che assume la “democrazia” come asse portante. La democrazia borghese tout court, senza neppure dire, secondo antiche consuetudini, che una “democrazia progressiva” è la conditio sine qua non per il socialismo. Un Partito democratico pensato secondo la tradizione americana, cioè un partito che, nel migliore dei casi, dovrebbe postulare un capitalismo soft, temperato da ammortizzatori sociali che avrebbero dovuto mascherare lo sfruttamento, e che si attestava piattamente sull’esistente, con il favore di più o meno briose ed effimere esercitazioni massmediali.
Non credo però che questa idea “americaneggiante” di partito, tanto cara a Veltroni, derivi tutta quanta dall’intellighenzia pci, anche se al primo congresso dei ds al Lingotto (13-16 gennaio 2000) – e il luogo ha una sua valenza – si proponeva – lo ricordava Luigi Anderlini che seguiva il congresso per la nostra rivista – un partito “plurale”, un partito cioè con radici diverse: «da quella socialista liberale di Rosselli, a quella dei cattolici radicali di don Milani, dal terzomondismo di Lumumba e di Che Guevara, alla sinistra di Norberto Bobbio, dal cardinale Pellegrino al laicismo moderato degli eredi di La Malfa e magari di Gobetti». E Alessandro Natta, che già aveva intuito gli sviluppi che avrebbe avuto il Pds, nel gennaio 1997 così scriveva a Walter Binni: «Tutta la sinistra ha necessità di una analisi e di una critica più approfondita della società e della realtà del mondo e di una messa a punto di un programma di riforma, di trasformazione, che sia avanzato e credibile. I programmi liberalsocialisti di prima della guerra erano più rivoluzionari delle proposte di oggi, sia quelle del Pds che quelle di Rc». Ma non si può dimenticare che i ds veltroniani strinsero un’amicizia di ferro con la Margherita (gli eredi della Democrazia cristiana). Si realizzava finalmente l’antico sogno berlingueriano del “compromesso storico”? Non direi, sia perché il momento storico e politico di allora non era raccordabile con quello di Berlinguer, sia perché, nel caso specifico, bisognerebbe parlare di compromesso storico “rovesciato”. La strategia di Berlinguer, infatti, – difficile quanto si voglia, se non impossibile – era quella di raccordare le forze cattoliche “progressiste” con il socialismo, quella dei dirigenti diessini di inserire il partito nella dinamica del capitalismo, anche se di un capitalismo che avrebbe dovuto avere un “volto umano”.
Su questa linea è nato il Partito democratico che, a lungo andare è stato egemonizzato da chi (Letta, Renzi, Franceschini, Casini e molti altri) ritiene che occorra affidarsi alle leggi del capitalismo, ritenuto ormai la via dell’Occidente alla democrazia. Una democrazia “atlantista” ed “europeista”, senza rendersi conto che l’un concetto confligge con l’altro: se si è “europeisti” non si può essere “atlantisti”, come già Calamandrei aveva messo in luce nel lontano 1949, votando alla Camera contro il Patto atlantico. Il socialismo, con la sua esigenza inderogabile di socializzare le condizioni fondamentali del vivere civile e di abbandonare l’attuale modo di produzione, è stato buttato alle ortiche. Anni fa Gaetano Arfè si chiedeva con ironia: di questo Partito democratico sarà Clinton il presidente onorario? Oggi noi possiamo porci la stessa domanda, sostituendo Clinton con Biden.
Un Partito democratico che ha invitato i suoi elettori ad assumere a fondamento dell’azione politica la fantomatica “agenda Draghi”; che non si è sentito in difficoltà di fronte alla politica espansionistica della Nato; che ritiene l’Ucraina una democrazia compiuta e non il paese più corrotto di tutta quanta l’Europa dell’Est; che immagina il suo futuro in linea con la potenza statunitense contro la Cina e la Russia; un tale partito che cosa ha da spartire con la sinistra?
Le elezioni politiche del 25 settembre hanno risolto il problema: gli elettori (il 63,9% degli aventi diritto) tra una destra mascherata da centrosinistra e una destra dura e pura hanno scelto quest’ultima. Sempre meglio l’originale che la copia! Forse è arrivato il tempo che all’interno del Pd – nel momento in cui si andrà a eleggere il nuovo segretario – ci si chieda “che cos’è sinistra”.
Nel febbraio 1993 noi del «Ponte» lanciammo un appello per una costituente per la sinistra. Dicevamo: «Le basi “teoriche” e ideali di una tale rifondazione della sinistra laica e socialista (liberalsocialista) non possono essere specificate oggi […]. Ma si può anticipare fin d’ora che tali basi dovranno liquidare, senza mortificanti pentitismi, ciò che di irrimediabilmente datato vi è nel socialismo europeo, restaurando e ridefinendo, al tempo stesso, ciò che vi è di ancora valido nella critica socialista al capitalismo». Si potrebbe ripartire da un siffatto intendimento e abbandonare le idee dei “partiti plurali” e dei “campi larghi” che non sembrano aver sortito grandi risultati.
La vittoria alle elezioni politiche della destra di Meloni, Salvini e Berlusconi contro la destra di Letta, Franceschini, Calenda, Renzi e compagnia cantante, se sarà la condizione perché una sinistra vera, cioè socialista, risorga (o sorga) sarà la riprova – secondo l’antico adagio – che non tutti i mali vengono per nuocere.