I sostenitori della destra maggioritaria nel paese avevano visto, nel 2016, una parte del loro elettorato, quello “moderato”, gonfiare la bolla Renzi (voti presto tornati a casa dopo l’effimero exploit del 40%); quindi, dopo pochi anni, avevano registrato come la parte ”radicale” di quello stesso elettorato avesse contribuito all’esplosione del M5S (anche qui, però, la metà dei consensi ottenuti dal Movimento erano rifluiti nella Lega di Salvini dopo appena quattro mesi); una volta sgonfiatasi anche questa bolla, dopo la farsa del Papeete e la successiva sconfitta di Salvini in Emilia Romagna, era cominciata la ricerca di una nuova figura politica da opporre al governo giallo-rosa, ricerca resa affannosa per l’ormai evidente debolezza del “federatore” tradizionale, Silvio Berlusconi, che aveva persino documentato ai giudici di non essere più in grado di assistere al proprio, ennesimo, processo.
Volti nuovi non ce n’erano a disposizione: non era certo tale Giorgia Meloni, ormai giunta alla sua quarta legislatura e posta alla guida di un partito che, in Italia, alle elezioni politiche del 2018, aveva ottenuto il 4,3% dei voti, per poi raggiungere alle “europee” del 2019 il 6,5% dei consensi. Tuttavia, se la sua marcia in Italia era andata a rilento, non altrettanto era avvenuto in Europa, ove il suo partitino era entrato a far parte del Gruppo dei Conservatori e Riformisti europei, guidato, dopo la Brexit, dal Partito polacco «Diritto e Giustizia», noto in Italia per le sue posizioni illiberali e per le quattro procedure d’infrazione promosse dalla Ue negli anni 2018 e 2019 per plurime violazioni dello Stato di diritto. Forte di queste credenziali, sempre nel 2019, la Meloni aveva preso parte, unico politico italiano invitato, alla Convention dei conservatori repubblicani americani, intervenendo dopo Donald Trump, manifestando così lo stretto rapporto che la legava a quella amministrazione: pochi mesi prima Steve Bannon era stato accolto dai “patrioti” di Atreyu con un’autentica ovazione e, successivamente, la Meloni era stata una dei pochi, in Europa, a difendere Donald Trump anche dopo l’ assalto a Capitol Hill.
Con queste aderenze internazionali e malgrado nella Ue Fratelli d’Italia fosse una componete largamente minoritaria della coalizione dei Conservatori (inizialmente disponeva di 6 europarlamentari rispetto ai 24 di «Diritto e Giustizia»), i polacchi, politicamente più legati agli Usa che all’Europa, nel settembre 2020, nominavano la Meloni presidente del Gruppo, contribuendo in tal modo alla crescita della sua figura politica in Italia.
Così, dopo che il «Financial Times», nel maggio 2021, l’aveva indicata come l’astro nascente dell’estrema destra, anche il «Corriere della sera» aveva deciso di puntare i riflettori su questa “politica emergente”, cercando al contempo di toglierle di dosso quella patina di post-fascista che in Italia faceva ancora qualche effetto; Galli della Loggia, l’1.6.2021, aveva suggerito alla Meloni di dare un segnale di presa di distanze da quel passato ingombrante, ma Giorgia, il giorno dopo, si era limitata a richiamare l’ambigua risoluzione votata dal Parlamento europeo nel 2019 contro «tutti i totalitarismi del Novecento»: nessuna parola sul fascismo italiano (al di là della rituale condanna delle leggi razziali) e di quello repubblichino, traghettato nell’ospitale Italia democratica da «quel grande uomo che non dimenticheremo mai» (così Meloni di Almirante, il 21.1.2020), grazie anche alla fiamma che, uscita dalla bara di Mussolini, era stata da lui evocata il 26.12.1946 e che, da allora, non era mai stata tolta dal simbolo del partito. E del resto Giorgia, nel suo libro autocelebrativo, aveva rivendicato con orgoglio di sentire «la responsabilità di una storia lunga 70 anni, ereditata da Almirante, Rauti e Fini».
Vista l’inutilità di proseguire per questa strada, dato che anche l’invito successivo di Galli della Loggia di allontanare almeno dalle manifestazioni di partito i fascisti di Casa Pound era stato rispedito al mittente (Francesco Storace era insorto, accusando il politologo di incitare i “fratelli” a menar le mani contro i “camerati”), il «Corriere» continuava il corteggiamento, ponendo sotto silenzio anche lo “scivolone” della Meloni quando, dopo l’assalto squadrista alla Cgil da parte dei fascisti del terzo millennio, aveva candidamente affermato di non aver capito quale fosse stata la matrice politica di quella devastazione.
Il passato andava dunque dimenticato; e, in vista delle future elezioni, il «Corriere» cambiava registro: dedicava ampi spazi agli interventi della leader dell’opposizione al governo Draghi, sotto forma di lettere o di interviste, precisava più volte che l’antitesi fascismo-antifascismo era ormai superata e infine, dopo che la Meloni aveva richiamato più volte il suo ruolo di presidente dei Conservatori europei, il quotidiano promuoveva un’apposita riflessione sul tema.
L’analisi non ha riguardato, però, il profilo politico dei suoi compagni di viaggio, quei conservatori che di fatto in Europa la fiancheggiano (oltre ai polacchi di «Diritto e Giustizia», ci sono gli esponenti di Vox, eredi del falangismo e svariati rappresentanti dei partiti di estrema destra di altri paesi), né sui conservatori extraeuropei che costituiscono il suo riferimento privilegiato (i repubblicani di Trump e i militanti del Likud israeliano); la riflessione è stata condotta a un livello più alto, più generale, avendo il compito di spiegare ai lettori cosa significhi, oggi, «essere politicamente conservatore».
Così, Galli della Loggia («Corriere della sera», 1.8.2022), dopo aver affermato che, per essere tale, quel politico deve rigettare le (pessime) abitudini della tradizione, ma coltivarne i valori, ha poi sottolineato come, tra questi, vi siano anche quelli riassunti nella formula «Dio, patria e famiglia»; non ha citato espressamente la Meloni (che davanti alla platea di Vox, alcuni giorni prima, li aveva richiamati con toni esagitati), ma ha sostenuto che, pur essendovi «il rischio di cadere nella retorica», si tratta di valori «senz’altro degni di essere preservati», perché hanno dietro di sé «una nobile storia».
Al di là dell’assai opinabile valutazione – il messaggio che quella formula rilancia, infatti, ha una storia tutt’altro che nobile, visto che ha supportato l’ideologia di tutti i fascismi novecenteschi, in Europa come nell’America latina – l’intervento del «Corriere» è politicamente significativo, poiché con una semplice variazione semantica, archivia i legami ingombranti di Fratelli d’Italia col suo passato, elimina le ultime ambiguità dello “sdoganamento” del fascismo operato a suo tempo da Berlusconi (e anche di recente rivendicato), fornisce al nuovo “astro nascente” della destra italiana la legittimazione definitiva, collocandola all’interno della dialettica conservatori-progressisti, così cara ai politologi anglosassoni..
Anche «La Stampa», l’8.9.2022, ha partecipato al dibattito («che cosa vuol dire nel ventunesimo secolo essere conservatori?») e Giovanni Orsina ha precisato che al centro del conservatorismo di Meloni, «prima ancora che Dio e la famiglia, c’è la patria»; certo, questa sarà anche «una comunità immaginaria, ma rimane pur sempre una presenza storica plurisecolare, profondamente radicata nella psiche collettiva e assai difficile da sostituire»; per questa ragione «il conservatorismo diviene indispensabile: restituisce, sebbene in una forma assai precaria e provvisoria, qualche fragile punto di riferimento a individui disorientati e spaventati» per via dell’universo “liquido” che li circonda. È vero, «si dovrà capire come una prospettiva esplicitamente nazionale possa essere integrata nella costruzione europea», ma si tratta di un problema che presto sarà risolto, perché, grazie anche a questa diffusa pressione mediatica, la strada per la vittoria del partito della Meloni alle prossime elezioni è ormai diventata tutta in discesa.
Lo scoppio della guerra russo-americana, condotta sulla pelle degli ucraini, ha poi fatto il resto. Il conflitto, infatti, ha introdotto nella campagna elettorale un nuovo e assorbente parametro, che i media, all’unisono, hanno subito adottato per misurare l’affidabilità dei vari partiti in competizione: prima ancora di esporre i propri programmi (cioè le singole propagande) e di definire la propria identità (in alcuni casi difficilmente percepibile), tutti i gruppi sono stati invitati a proclamare la loro indiscussa fedeltà all’Occidente e la loro riprovazione per la guerra scatenata dalla Russia.
Se questo ha creato problemi per la coalizione “larga” progettata inizialmente, con scarsa convinzione, dal centrista Letta (che, condividendo il diktat, ha colto l’occasione per abbandonare precipitosamente i 5 Stelle di Conte non sufficientemente schierati, per rifluire sulla destra di Renzi e Calenda, salvo venire poi beffato da questi ultimi), non ne ha creato affatto ai vari Berlusconi e Salvini che, tradizionali alleati ed estimatori di Putin, ne hanno preso a parole le distanze, col compiaciuto consenso dei media, generalmente smemorati nei loro confronti e per giunta abituati a “comprendere” ogni loro giravolta propiziata dal vento.
Chi però ha tratto il maggiore beneficio da questo clima di guerra è stata proprio la Meloni, che ha potuto esibire sicure e non improvvisate credenziali di fedeltà agli Usa, visti i suindicati rapporti stretti con l’America di Trump, rinnovati anche quest’anno con la sua seconda partecipazione alla Convention dei repubblicani. Non sembra importante, per l’ideologia corrente, indicare a quale America il politico di turno faccia riferimento, se a quella di Obama, di Trump o di Biden; decisiva è infatti la dichiarazione di fedeltà alla nazione che, per definizione, difende sempre i valori propri del mondo occidentale (qualunque cosa, nell’odierna realtà, questo possa significare). Ciò che conta, in piena campagna elettorale, è che Adolfo Urso vada a Kiev e poi negli Usa e che la Meloni annunci il suo futuro incontro con la nuova premier britannica, Liz Truss, fedele interprete della strategia della Nato volta ad armare continuamente l’Ucraina per prolungare la guerra e mettere in ginocchio la Russia.
Orbene, questo conflitto, che ha determinato la totale subordinazione dell’alleanza economica della Ue alle scelte volute dall’alleanza armata della Nato, ha poi prodotto due ulteriori conseguenze politiche, entrambe favorevoli all’ascesa della Meloni: da un lato, la sua pronta adesione alle sanzioni contro la Russia ha fatto emergere i tentennamenti interessati di Salvini (inseguito dalle ombre prodotte dagli incontri di alcuni suoi collaboratori con emissari di Putin e dal patto Lega-Russia Unita tuttora in vigore), determinando così, tra i vasi comunicante della destra, un ulteriore travaso di voti in favore di Fratelli d’Italia; dall’altro, la subordinazione dell’Europa alla Nato ha evitato alla Meloni di dover giustificare i suoi attacchi, anche recenti, alla Ue («Europa, è finita la pacchia» è il gergo. Identificativo di questa destra, usato anche in campagna elettorale), nonché la sua alleanza con i partiti “euroscettici” che governano i paesi dell’Est, visto che l’Europa come soggetto politico autonomo è praticamente scomparsa dalla scena e che, tra quegli Stati, la cattolica Polonia risulta essere la punta di diamante dell’Alleanza atlantica. E la riconoscenza della Meloni verso i polacchi di Identità e Giustizia, che l’hanno promossa leader europeo, è giunta al punto di ingiungere a Letta, che aveva avvertito come l’alleanza con quel paese poteva portare l’Italia «nella serie B dell’Europa», di presentare le proprie scuse alla Polonia, essendo questa «la nazione più esposta con la Russia».
La spinta decisiva al successo della Meloni è stata però data proprio dal Pd, visto che Letta nulla ha fatto in concreto per contrastarla, avendo, malgrado le proclamate agorà, eliminato dal suo programma operativo qualsiasi serio intervento sul sociale; l’ex giovane democristiano (l’ennesimo nella storia di questo partito) ha poi rotto l’alleanza coi 5 Stelle, compiacendosi della scissione pilotata di Di Maio, proprio nel momento in cui quel movimento sembrava acquisire qualche connotazione di sinistra; ed è rimasto alla fine imprigionato da una legge elettorale che il suo partito aveva voluto, che lui poco ha fatto per cambiare e che, prevedibilmente, consegnerà alla destra la vittoria, innanzitutto, nei collegi uninominali.
Così la Meloni, la cui unica esperienza ministeriale non ha lasciato tracce significative e che, successivamente, è vissuta politicamente nel comodo ruolo di oppositore ai governi succedutisi nel tempo, ora viene riconosciuta come «una leader indubbiamente capace e carismatica» (così, senza ulteriori spiegazioni, Panebianco, il 7.8.2022); per vedere crescere i consensi in questa campagna elettorale le è bastato attenersi alla linea suggeritale da Crosetto e da Tommaso Longobardi, uno psicologo cresciuto con Casaleggio e amico di Morisi, che ne gestisce il profilo comunicativo: interventi pacati (si è addirittura scusata per i toni usati all’assemblea di Vox), riferimenti frequenti all’alleanza con gli Usa, condivisione sulle scelte economiche di Confindustria, irrisione per la «paghetta di Stato» (il reddito di cittadinanza, una «idiozia») e il salario minimo («uno specchietto per le allodole») e la dichiarata intenzione di fare riforme il più possibile condivise (magari con l’ennesima Bicamerale): un pensiero diffuso in tre lingue, per rassicurare i mercati e i dubbiosi.
A una settimana dal voto i sondaggi sono incerti se attribuire al suo partito la vittoria o il trionfo: in entrambi i casi ciò non significherà l’avvento del fascismo (solo Mieli ha attribuito agli avversari una simile accusa, per alimentare una falsa polemica), ma sì un governo di destra trainato da un partito che si richiama ad Almirante e a Rauti; che nel programma prevede la cancellazione dichiarata di assi portanti della Costituzione, quali la Repubblica parlamentare (trasformata in presidenziale, senza l’indicazione dei contrappesi necessari per limitare i poteri di chi è chiamato al comando) e la parità tra le regioni (l’autonomia differenziata, accentuandone le diversità e approfondendo i divari di quelle del centro-Nord da quelle del Sud, è programmata per aumentarne le storiche disuguaglianze); questo sulla carta perché, nelle intenzioni espresse in varie sedi, si propone altresì, confidando nel contributo di Renzi, Calenda e dei loro nominati, di “riformare” definitivamente i giudici ordinari (dando attuazione ai quesiti referendari già bocciati dagli elettori) e di incidere sulle nomine di quelli costituzionali (a imitazione di quanto fatto dal leader di riferimento, Donald Trump), continuando così, dall’interno, a destrutturare la Costituzione democratica del ’48.
Non è dunque in vista l’arrivo di un governo fascista, ma già c’è il segno inquietante di un passaggio di fase. E preoccupa il messaggio entusiasta che la Meloni, dimentica per un momento degli inviti alla cautela, ha indirizzato a Jimmie Akesson, leader dei “democratici svedesi”, cresciuto nei consensi sino al 20% alle elezioni dell’11 settembre: «una vittoria storica – ha esclamato la Meloni – un auspicio e un modello per il resto d’Europa».
Peccato che il modello così auspicato sia l’ennesima versione di un partito di estrema destra che, sorto nella galassia nazi-fascista, si è poi “evoluto”, adottando politiche euroscettiche e dichiarando “guerra” agli immigrati e all’Islam.
Il «Corriere», nel commentare l’affermazione di Akesson e le congratulazioni pervenutegli dall’Italia, ha usato una certa cautela, omettendo il riferimento all’invocato “modello” e, soprattutto, dimenticandosi di informare il lettore che quel partito fa parte del Gruppo dei “conservatori” di cui la Meloni è presidente.
Cautela adottata per non turbare la campagna elettorale, probabilmente.