Non esiste un’ampia letteratura scientifica sul partito di Fratelli d’Italia. Fino agli inciampi politici della Lega, del resto, FdI sembrava essere un partito privo di alcuna centralità politica. Il governo Draghi, riunendo tutti gli altri partiti (esclusa SI, certo, tuttavia marginale sul piano parlamentare e tradizionalmente succube del Pd), ha fatto il gioco di chi stava all’opposizione. Manca, soprattutto, un’indagine sistematica sulla cultura e sul profilo sociale della classe politica di questo partito. Mi concentro, dunque, solo su alcune fonti di informazione: anzitutto sul programma, che è pubblicato sul sito del partito.

La prima cosa che si può evidenziare è una certa continuità storica con una parte della tradizione della destra italiana, che affonda le proprie radici nel Ventennio. Con questo non voglio rispolverare la questione della natura ancora fascista del partito, accodandomi al coro di chi, in vista delle elezioni, sventola il pericolo nero dopo aver fatto di tutto, sul piano politico e sociale, per alimentarlo. Mi limito, invece, a constatare linee di continuità, segnalando anche quelle di discontinuità. Il mio intento non è polemico, ma analitico. In ogni caso, nel simbolo del partito ancora campeggia la fiamma tricolore, segno di una ricercata e ostentata continuità.

La destra fascista appare come il riferimento culturale e soprattutto programmatico del partito. Sì, perché il fascismo ha avuto una destra e una sinistra, che ha avuto un afflato sociale, come sappiamo. La destra fascista aveva come punto di riferimento una cultura economica saldamente ancorata alla tradizione liberale ed esaltava la cosiddetta libertà del lavoro. Negli anni venti questa libertà aveva un connotato esplicitamente e fondamentalmente antisocialista e antidemocratico, avversando qualsivoglia politica economica redistributiva. Rivendicava, contro l’invadenza dello Stato, la libertà di impresa e rintuzzava, criticandola aspramente, quella parte del fascismo che aveva proponimenti sociali e organicisti. Auspicava e praticava il pareggio di bilancio e politiche di austerità, riproposte, sul piano teorico, persino di fronte alla Grande Crisi del ’29, risolta, del resto, con una drastica deflazione salariale, nonché imputata, come avviene anche oggi, agli eccessi della finanza e non ai meccanismi dell’economia reale.

Questa libertà di impresa la ritroviamo oggi nell’idea proposta della flat tax (da introdurre sugli incrementi di reddito, per verificare la tenuta del bilancio e da applicare solo alle imprese «che producono in Italia»), del tendenziale pareggio di bilancio, nella tendenziale diminuzione del ruolo dello Stato in economia. Tra i vari autori citati, il programma menziona Ludwig von Mises, caposcuola della scuola austriaca, fermamente avversa di ogni forma di socialismo: da quello vero e proprio al cosiddetto socialismo di Stato, cioè quella corrente di pensiero che alimentava politiche sociali per smorzare l’avanzata del socialismo e per allargare, in modo paternalistico, le basi sociali dello Stato.

Tutto ciò non implica affatto una rinuncia alla difesa dei settori strategici dell’economia: non si tratta di un dottrinario liberismo, dunque, quanto di un’idea di protezionismo volto a difendere e a valorizzare l’industria italiana. La collaborazione tra Stato e mercato non è affatto esclusa, come da tradizione liberista, attenta a valutare l’alternativa liberismo/protezionismo caso per caso e nelle circostanze storiche date. Cassa depositi e prestiti deve svolgere un ruolo importante, per esempio. Le imprese multinazionali devono pagare le tasse dovute e si depreca il fenomeno della delocalizzazione, in un quadro dove si deve valorizzare la piccola impresa, anche commerciale, operando un «bilanciamento allo strapotere della grande distribuzione».

Colpisce il fatto che il partito non si soffermi sulla forma specifica che deve assumere la relazione tra Stato e mercato: nessun cenno, per esempio, al modello Iri o alla necessità di mettere a punto un nuovo schema istituzionale capace di creare e indirizzare la politica industriale. Sembra, insomma, che le sole nomine ministeriali potrebbero cambiare la sorte dell’economia italiana, evidentemente al momento giudicata carente di una politica industriale vera e propria. Uno sforzo teorico e programmatico in questo ambito è insomma assente. Non va tuttavia dimenticato che il modello italiano del rapporto tra Stato e mercato sviluppatosi durante il Ventennio non fu affatto la realizzazione di un programma ideologico e teorico, quanto il frutto delle necessità imposte dalla crisi del ’29, che spinsero Mussolini a valorizzare il modello liberale italiano, che ebbe come indiscusso protagonista Beneduce, vicino, ai primi del Novecento, al riformismo socialista e al radicalismo di Nitti. Ma il paradigma Beneduce oggi è scomparso, così come l’Iri e il richiamo alla funzione di Cassa depositi e prestiti è del tutto privo di una cornice strategica istituzionale capace di offrire un organico e dinamico intreccio tra Stato e mercato. Di programmazione economica non si parla, a differenza di quanto avvenuto nel corso del Ventennio: evidentemente, si tratta di ragionamenti che sposterebbero troppo a sinistra.

In questo contesto programmatico spicca la critica, in verità assai vaga, alla moneta unica europea: se il Quantitative Easing fosse stato utilizzato nel 2011 «si sarebbe evitato il lungo inverno dei governi non scelti dal popolo». Viene criticato il burocratismo di Bruxelles (paragonato al bolscevismo) e lo strapotere economico della Germania, alimentato dall’attuale assetto europeo, che se non approderà a politiche di bilanciamento tra gli Stati non potrà che spingere a mettere in crisi la moneta unica. La Banca d’Italia, così come le sue riserve auree, vogliono essere nazionalizzate. Il sistema bancario deve essere oggetto di una commissione parlamentare d’inchiesta, evidentemente per l’insoddisfazione che l’attuale modello presenta: si vuole cioè tornare, come nel Ventennio, a una netta separazione tra credito commerciale e credito industriale, cioè superare quel modello che ha dato vita alla spericolata finanziarizzazione dell’economia a cominciare dagli anni novanta. Rimane tuttavia imprecisato il progetto che il partito ha in mente.

L’economia non è analizzabile e governabile dal lato della domanda. Il riferimento a Keynes non c’è, perché rimandare le politiche espansive sul lato della domanda alla sfera europea, per altro da riformare in senso federalista, appare davvero utopistico: a conferma di un’impostazione sostanzialmente classica del rapporto tra Stato e mercato. Il problema sociale, in ogni caso, va affrontato – nessuno deve vivere di stenti – ma si rifiuta il modello dei 5 Stelle imperniato sula reddito di cittadinanza.

Della tradizione sociale della destra rimane così assai poco, se non il vago richiamo al partecipazionismo dei lavoratori agli utili d’impresa, un tema, come noto, trasversale sul piano dottrinale, sottolineato dalla tradizione cattolica. Valorizzata anche con un cenno al ruolo del Terzo settore e al principio di sussidiarietà. Nessun approfondimento, invece, sul ruolo dei sindacati (sì al principio delle tutele crescenti «senza alcuna demagogica apertura alla reintroduzione dell’articolo 18») e dunque alla tradizione del corporativismo, abbandonato anche sul piano istituzionale. In materia, invece, si spinge per il modello presidenziale (nel pantheon compare De Gaulle) o l’elezione diretta del capo del governo. Manca il tema delle diseguaglianze: tra Nord e Sud, tra uomini e donne, tra ceti sociali. Nessun riferimento alla crescente sperequazione sviluppatasi negli ultimi trent’anni.

Non deve sorprendere il fatto che l’odierna rivendicazione della libertà del lavoro non abbia come punti di riferimento polemici il movimento politico dei lavoratori, né la democrazia, anzi rivendicata come fondamento del sovranismo. Il panorama italiano odierno, infatti, si caratterizza, a livello europeo, per la totale assenza della sinistra storica e per un crescente svuotamento delle istituzioni democratiche. Sul piano sociale la sinistra è scomparsa, data l’ossificazione dei sindacati e il cambio di natura del movimento cooperativo e l’appiattimento sull’associazionismo di matrice cattolica. Sul piano politico è assente un partito strutturato in grado di riannodare i fili della tradizione italiana novecentesca. Anche i 5S hanno rinunciato a riempire questo spazio politico e il distacco di Conte dal governo Draghi appare come fuori tempo massimo e privo di una solida filosofia sociale di riferimento. Il Pd è un partito liberale, tutto intento a costruire un fantomatico centro all’insegna della c0siddetta agenda Draghi, cioè tra i protagonisti delle privatizzazioni italiane e delle disinvolte e socialmente spietate ricette neoliberiste imposte all’Italia, con Monti, e alla Grecia. Infine, coloro i quali si presentano alla sinistra del Pd o non hanno alcun peso (SI e altri) o, come il partito di Bersani, sono anch’essi una costola, con vaghissime pulsioni sociali, del liberalismo, ormai superata dai tempi, che esigono uomini nuovi, senza alcun legame con il passato novecentesco.

Non può dunque sorprendere che l’adesione di FdI ai principi della libertà del lavoro non si nutra di antisocialismo. Al contempo, si deve constatare come l’immenso spazio politico aperto dalla scomparsa di qualsivoglia sinistra non voglia essere occupato. Non c’è alcun tentativo di innovare, sul piano economico e politico, la tradizione della destra sociale.

Gran parte del programma di FdI è dedicata all’idea di nazione italiana, insistendo sul tema del patriottismo, che avrebbe conosciuto una caduta irreversibile con «la crisi del ’43», che segna l’inizio di una stagione dove «nessun soggetto politico italiano poté più permettersi di perseguire l’interesse nazionale». Anche solo un accenno ai disastri militari dell’Italia fascista avrebbe giovato, mi permetto di osservare, poiché essi segnano il crollo di un regime che vantava tra le proprie matrici ideologiche il bellicismo (si veda la voce fascismo del Dizionario Treccani firmata da Mussolini). La politica è il campo del realismo e appare singolare strologare di riappropriazione di sovranità senza analizzarne le reali ragioni di decadimento. Tra l’altro, stona l’idea di promuovere una missione internazionale di terra «per prendere il controllo dei porti da cui partono i barconi della morte»: stona, perché l’Italia avrebbe dovuto farlo, ai tempi del governo di centrodestra, in occasione della sciagurata guerra contro Gheddafi. Il rischio, insomma, è di riproporre la retorica della sovranità nazionale, piuttosto che la sua effettiva realizzazione.

I richiami ad autori come Gentile e Renan rimandano alla tradizione del Ventennio e si concretizzano in una serie di rifiuti. FdI è contro lo jus soli e lo jus culturae. Si oppone alla cessione di sovranità alla Ue. Vuole opporsi a quella che viene paventata come una incipiente islamizzazione e una «vera e propria sostituzione etnica» compiuta dall’immigrazione. Si oppone al «multiculturalismo e al politicamente corretto». Si oppone all’odio razziale nutrito dagli immigrati (tra l’altro, «l’immigrazione non è un diritto») nei confronti delle popolazioni che li accolgono, così che si fomentano antistoriche «teorie suprematiste della razza bianca»: va ricordato come durante il Ventennio vi fu chi nel fascismo criticò il razzismo biologico tedesco, anche se poi si accodò alle scelte del regime. FdI si oppone alla laicità dello Stato valorizzando la cultura cattolica e la famiglia tradizionale. È contrario alla liberalizzazione delle droghe (quelle leggere).

Lo Stato, insomma, ha ancora una funzione di educazione morale nei confronti dell’individuo e non diviene uno strumento per l’affermazione della sua piena e totale libertà morale. Gadamer insegna che non esiste il puro individualismo, essendo tutti noi frutto di un percorso storico ineliminabile e che deve costituire il cemento della nazione.

Particolare attenzione viene data ai corpi della sicurezza nazionale. Non si parla, tuttavia, di ritorno alla leva obbligatoria universale. Un paragrafo è dedicato al principio «Prima gli italiani» eppure pochissima attenzione è data alla scuola di ogni genere e grado (va accorciato il percorso scolastico per aprire prima i giovani al mercato del lavoro), anche se spicca la proposta di creare un sistema statale di asili nido, par di capire gratuiti: il problema è quello, classico per la cultura del Ventennio, del calo demografico. Il fisco deve valorizzare la famiglia: quindi sì al quoziente famigliare in ambito fiscale. Non vi è però nessuna insistenza sulla conservazione e il rilancio della civiltà e della cultura italiane. Per valorizzare il patrimonio artistico, deducibilità dal reddito delle spese culturali individuali: evidentemente l’offerta culturale attuale soddisfa. L’inglese deve diventare lingua fondamentale, ma della tutela della lingua italiana non si parla: e la lingua è la cultura e il cemento di un popolo.

Nel pantheon di FdI manca, curiosamente, Pareto, ma ciò conferma una certa continuità storica con il vario organicismo del Ventennio: perché lo Stato viene considerato come strumento fondamentale per la costruzione della nazione, cioè come interprete, nelle sue élites, degli interessi generali, cioè di tutti i ceti sociali, anche di coloro che, a differenza delle élites, non hanno coscienza dei propri reali interessi e bisogni. Pareto, che pure ha ispirato molti intellettuali del ventennio – Mussolini si proclamava suo discepolo e basti sfogliare Dux della Sarfatti –, aveva invece una concezione molto più prosaica dello Stato e della funzione delle ideologie (i miti) che elaboravano coloro che lo controllavano. Si trattava di élites che se ne servivano, tanto dei miti che dello Stato, per soddisfare i propri bisogni, scaricandone il costo sulla collettività, nel contesto di uno scenario di lotta permanente tra élites, all’interno degli Stati, e tra Stati, per l’egemonia sui mercati mondiali. Dio, patria e famiglia è lo slogan riproposto da FdI, lasciando intendere che compito dello Stato è costruire l’adesione degli individui agli ideali delle élites tradizionali. Colpisce la polemica contro l’Illuminismo, concepito, sembra di capire, come fondamento di un individualismo cieco e dirompente per la società perché corrosivo dei valori “tradizionali”. La struttura gerarchica disegnata dal mercato, di cui tuttavia non si colgono le contraddizioni e le conflittualità intrinseche (in linea con la tradizione liberale che si è disfatta degli economisti classici), deve insomma trovare una sintesi, cioè la sua cristallizzazione e giustificazione, attraverso l’adesione morale ai valori di Stato: «amare la propria patria e sentirsene parte attiva è l’unica ricetta in grado di produrre coesione sociale e generazionale». Non si tratta di “autoritarismo”, quanto di riscoperta della “autorità”, cioè quella «autorevolezza che nasce dalla rivendicazione e dal riconoscimento […] di una superiore facoltà di conoscenza e migliore capacità di giudizio nell’interesse comune». L’omologazione degli individui operata dal mercato (che produce «cittadini-consumatori senza storia, senza radici, senza identità, senza patria, senza comunità, senza religione e senza sesso») trova un argine nel “populismo identitario”, che ormai dilaga in tutta Europa.

Nessuna eccessiva polemica nei confronti dell’egualitarismo (anche se un cenno c’è: «l’uguaglianza economica» – per inciso davvero difficile da definire – «non è una finalità etica che attiene allo Stato»), tuttavia, e viene rimarcata la necessità di aggredire il tema delle periferie urbane: manca, però, alcun accenno al tema della pianificazione urbanistica, che pure durante il Ventennio ebbe un ruolo decisivo e innovativo. Dubito che tanta vaghezza potrà soddisfare il tradizionale elettorato laziale, sebbene venga ribadita la centralità di una politica specifica per Roma capitale.

Sul piano internazionale le proposte sono molto timide e vaghe, proponendo il tema della piena sovranità nazionale, ma senza avventurarsi in discussioni circa le alleanze internazionali e, più in generale, delle relazioni internazionali. Si guarda con attenzione al Gruppo di Visegrad e si vorrebbe modificare la Costituzione per inserirvi, come in Germania, una «riserva di sovranità che impedisca l’adesione a trattati e accordi internazionali» e regolamenti che ledono «il nostro interesse nazionale e mettono in discussione la sovranità popolare». Scritto prima della guerra russo-ucraina e della prospettiva di governo, che, è bene esserne consapevoli, impone inevitabilmente l’assecondamento della politica estera americana quale che sia (e infatti Giorgia Meloni si sta accreditando presso i circoli del potere americano, avendo come punto di riferimento i Repubblicani), il programma scriveva che «non condividiamo la logica di ostilità nei confronti della Federazione russa». Per il Medio Oriente si dichiara la linea dei due popoli due Sati per Israele e Palestina.

La sensazione che si ha nel leggere il programma è quella di uno sforzo teorico di un certo respiro, perché volto a proporre una carrellata di autori e di idee che hanno un preciso significato per la classe politica del partito e per i suoi storici militanti. Svolge cioè il ruolo di rinsaldare le fila e di ribadire una precisa appartenenza, che si distingue perché esclude chi, per formazione, ne è estraneo. Il richiamo a Veneziani è significativo, perché è un autore instancabile nel tenere viva, su un piano divulgativo (il che non è affatto una diminutio) una certa tradizione culturale. Alcuni di questi autori sono forse troppo esili per un pantheon, ma rimangono importanti per gli ammiccamenti che sottendono. Mi riferisco, per esempio al richiamo a Galli Della Loggia, cioè a uno degli intellettuali organici più significativi del «Corriere della sera»: testata sempre in prima fila nel ribadire la validità del (tendenziale) liberismo atlantista e molto cauto e timido – anche se con eccezioni – nel criticare le performances politiche dell’imprenditoria italiana.

Ho richiamato Pareto non a caso: è a lui che si deve la riproposizione della riflessione di Adam Smith circa l’inadeguatezza della borghesia imprenditoriale al governo della cosa pubblica. Voleva sì un governo della borghesia, ma ancora non era arrivato a concepire possibile l’assenza dell’intermediazione di un ceto politico distinto da quello che si dedica esclusivamente agli affari. FdI sembra insomma ancorato al modello berlusconiano, che appunto ha fatto venir meno questa intermediazione: fra l’altro, sottoponendo lo Stato al ricatto che altri Stati possono esercitare insidiando le basi proprietarie del suo leader. FdI non propone alcuna critica di questo modello, anche se nei fatti ne costituisce un’alternativa perché è un partito classico, non un partito-azienda.

Molto utopistico pensare che la forza del mercato possa sopportare un qualsivoglia tipo di imbrigliamento morale. Il rimpianto della tradizione non ha in effetti dei referenti sociali a cui ancorarsi, come nell’antico regime (chiesa, nobiltà, esercito): i ceti sociali che in trasparenza appaiono un riferimento, cioè la piccola e media borghesia, valorizzano la tradizione in quanto la sovrappongono alla propria storia patrimoniale e professionale e criticano il mercato solo quando la sua logica ne insidia le posizioni. I miti e le ritualità che si rimpiangono nel programma, al momento vivono, di fatto, di antistoriche nostalgie intrinsecamente incapaci di resistere all’impeto del mercato. La mercificazione del mondo si fa beffe di qualsivoglia tradizione, che stritola senza posa.

Sarà solo la storia a dirci in quale modo verrà risolto il rapporto tra Stato, mercato e partito, in caso FdI arrivasse a esprimere il capo del governo. Una cosa è certa, tuttavia: i più temibili avversari che troverà sulla strada saranno proprio i suoi alleati, che non molleranno tanto facilmente la presa. In barba a tutti coloro che li hanno dati, con riferimento soprattutto al fondatore di Forza Italia, per morti politicamente.

Sarebbe azzardato sostenere che l’odierna dialettica politica italiana sia dominata dalla lotta tra differenti tipologie di borghesia, come insiste a sostenere il liberismo di sinistra (il Pd): da un lato la borghesia corporativa e protetta dallo Sato, fondata dunque sulla rendita economico-politica, e, dall’altro lato, la borghesia concorrenziale e innovativa, che il Pd e i 5S (l’economia verde) vorrebbero impersonare. È in fondo condivisibile lo stupore e l’incredulità che Giorgia Meloni ha manifestato nei confronti delle dichiarazioni di Laura Boldrini, quando ha argomentato l’inadeguatezza al governo di FdI in quanto espressione della rendita economica. Il riferimento era alla battaglia di FdI a favore degli storici concessionari delle spiagge, che tentano di resistere alla proposta liberalizzatrice di Draghi. È condivisibile, se solo si pensa alla vicenda di Autostrade, che ha visto il governo giallo-rosa rimanere succube della logica di un grande gruppo privato, che deve le sue fortune alle privatizzazioni scriteriate degli anni novanta. E che ha suscitato il malumore di tutta quella grande borghesia (come testimoniano gli editoriali di «Domani», di «Libero», di «La Verità») che si è vista trattare in modo differente.

L’alternanza al potere tra centrodestra e centrosinistra non è tra due differenti tipi di borghesie, ma in effetti vede combattersi cordate contrapposte di entrambe le borghesie, che a turno sgomitano per accreditarsi come migliori presso i poteri internazionali, cioè quegli Stati che attualmente si contendono l’egemonia in Occidente. Questa è la radice del trasformismo odierno: si sale sul carro del probabile vincitore, per assicurarsi un trattamento di favore. Il risultato, fino a oggi, non è certo quello di realizzare né l’interesse generale per la borghesia italiana nel suo complesso, come dimostra l’estrema difficoltà del paese nelle relazioni internazionali, né per tutti i ceti sociali del paese, che di fatto non hanno più una rappresentanza parlamentare, come indica la crescente astensione dal voto. Inoltre, la subordinazione di gran parte dell’apparato pubblico (scuola, ricerca, sanità, pubblica amministrazione) alla logica del mercato, genera in effetti gravi inefficienze, mettendo in crisi le stese forze di mercato, oltre che minare qualsivoglia “tradizione”. Colpisce la mancanza nel programma di FdI di riferimenti a questi settori, chiave per lo sviluppo del paese: che invece durante il Ventennio ebbero particolare attenzione da parte del regime. Evidentemente manca la capacità di comprenderne la funzione sociale, storica e odierna. Anche l’insistenza sul lato repressivo e securitario dimostra una forte ritrosia ad affrontare in modo scientifico e dunque realmente libero alcune piaghe sociali spaventose tipiche non solo dell’Italia, come la mafia, la droga, l’evasione fiscale. Se ne temono, a torto, i risultati, ritenuti pregiudizialmente dissolutori per la società.

Se la rivendicazione di una certa continuità storica è evidentemente funzionale a costruire l’identità di gruppo, il discorso programmatico complessivo dimostra che non si è affrontato seriamente il rapporto con il passato fascista. Manca, cioè, la capacità di analizzare sul piano scientifico questo momento storico valorizzando quegli aspetti di modernizzazione che conteneva, per rigettarne, al contempo, con forza e definitivamente, gli aspetti perversi e distruttivi proprio della nazione italiana: che, ribadisco, proprio alla guerra fascista deve la perdita di sovranità e solo dopo la crisi del ’43 conobbe l’inizio di un reale processo di democratizzazione. La valorizzazione della Resistenza si dimostra ancora un tabù e prevale lo scontro ideologico.

Il programma sociale di FdI è insomma ancora molto elitario ed elitistico e lascia completamente scoperta la questione sociale, nemmeno più affrontata sul piano paternalistico: alla quale evidentemente guarda come possibile serbatoio di voti, ma non come momento fondante di una nuova politica e di una nuova società. È sulla rabbia che conta, e certo non sbaglia, perché i tradimenti subiti dall’elettorato italiano progressista sono davvero infiniti e la legislatura che va chiudendosi ne costituisce l’apogeo; e le diseguaglianze sociali si stanno sempre più approfondendo. Ma senza un consenso sociale vero e articolato, senza un dialogo effettivo con altre culture politiche, senza introiettare pienamente ed effettivamente i valori della Costituzione, senza il superamento del modello berlusconiano (e la vista del potere spinge FdI a rinsaldare l’alleanza con Fi e Lega, invece che provare a conquistarsi l’egemonia in solitaria), sarà molto difficile sopravvivere, anche da posizioni di governo, alle forze neoliberali e alla politica estera di altri Stati europei, che possono contare su strumenti potentissimi, come abbiamo già avuto modo di sperimentare negli anni dell’austerità. Infilarsi a capofitto nell’identitarismo gerarchizzante, xenofobo e securitario significa alimentare il dilagante nazionalismo europeo, da cui non è mai sortito nulla di buono e comporta dare, di fatto, man forte proprio a quelle logiche neoliberiste che stanno completamente disarticolando la convivenza civile.

Forse è però questo il compito storico di FdI: far rinascere in Italia una forza politica capace di riagganciarsi ai valori della Costituzione per spingere verso un’Europa e un’Italia sociali e, contemporaneamente, profondamente radicate nella democrazia. L’auspicio è che il prezzo non sia paragonabile a quello pagato nel corso del Novecento con devastanti guerre civili e con due guerre mondiali. Purtroppo, gli scenari europei attuali non fanno affatto ben sperare.