morire democristianidi Marcello Rossi

[Questo articolo è stato pubblicato sul numero 6 de Il Ponte – giugno 2014]

Durante la Prima repubblica, di fronte ai continui successi della Democrazia cristiana, avevamo coniato uno slogan: «Non vogliamo morire democristiani!». Di fatto, però, questa nostra speranza rimase sempre inascoltata e, se non fosse intervenuta l’azione del pool di Mani pulite, forse saremmo ancora qui a cantare la stessa canzone. Ma l’effetto di Mani pulite, purtroppo, fu quello di far subentrare alla Balena bianca Berlusconi, e allora, pur avendo preso atto che non saremmo morti democristiani, dovemmo rispolverare un vecchio adagio che era di moda nel Regno d’Italia alla fine dell’Ottocento: «si stava meglio quando si stava peggio», che è come dire, per usare un altro adagio, «dalla padella nella brace». E in questa brace per venti lunghi anni si sono bruciate le poche cose buone che la Prima repubblica aveva realizzato e le molte speranze che la Resistenza prima e la Costituzione poi avevano suscitato.

Come sia finito Berlusconi, o come stia per finire, è sotto gli occhi di tutti e non mi sembra di buon gusto affondare il bisturi nella piaga. Gli italiani, che purtroppo hanno sempre amato affidarsi a un “ghe pense mi”, dopo vent’anni gli hanno chiesto il conto, come lo chiesero già, in condizioni molto piú tragiche, all’uomo della provvidenza.

Certo, a proposito di Mussolini, altri tempi e altre tensioni, ma è ancora di grande effetto – almeno per me – rileggere le parole di Calamandrei che commentavano la fine del dittatore annunciata da un giornale-radio: «Alla fine della trasmissione c’è qualche attimo di silenzio, di desolato e vuoto silenzio: non un commento, non una esclamazione di giubilo, non un’imprecazione. Da vent’anni questa fine fatale si prevedeva, si attendeva, si invocava: ora che la conclusione arriva, inesorabile come la morale di un orribile apologo, ci ritroviamo, invece che consolati, umiliati dal disgusto e dalla vergogna. Ecco, era tutto qui: un ventennio di spaventose apocalissi concluso in questo mucchio di stracci insanguinati. E noi che non abbiamo saputo impedirlo: e noi che abbiamo aspettato vent’anni a tirar questi conti cosí semplici».

Mussolini finí nella tragedia, Berlusconi, per sua e nostra fortuna, sembra risolversi nella farsa: il grande comunicatore, dopo le glorie passate, è costretto ad accudire un piccolo manipolo di vecchi. Anch’egli sarà stato assalito dal sovvenir dei dí che furono, e avrà ripensato «le mobili / tende, e i percossi valli, / e il lampo de’ manipoli, / e l’onda dei cavalli, / e il concitato imperio / e il celere ubbidir». Ma forse piú semplicemente i suoi rimpianti saranno andati al Bunga-bunga e alle schiere di giovani e belle fanciulle che affollavano le sue residenze. Sic transit gloria mundi.

Chiodo scaccia chiodo, o meglio: comunicatore scaccia comunicatore. Questa sembra la “morale” delle europee del 25 maggio. Matteo Renzi, il nuovo che avanza, ha fatto il pieno e secondo alcuni con quel 40,8% che ha messo in cascina ha resuscitato la Democrazia cristiana del ’48, o quella del ’58, che con Fanfani prese il 42,3%. Altri hanno dato dell’avvenimento una lettura in apparenza completamente diversa: finalmente il Pd, partito del centrosinistra riformista, ha trovato il suo leader e, sotto la sua guida, di riforma in riforma conquisterà un futuro radioso.

Non concordo né con gli uni né con gli altri. Di Democrazia cristiana non si può parlare perché – a parte i tempi diversi che pur hanno una loro valenza – Matteo Renzi con molta abilità ha ridotto il Partito democratico a partito personale. Se si vuole cercare un precedente, non alla vecchia Democrazia cristiana si deve guardare, ma alla berlusconiana Forza Italia prima maniera. Un partito che accampa come valori la non-ideologia, la “giovinezza” della sua classe dirigente, la velocità delle esecuzioni, la semplificazione – e talvolta la banalizzazione – del discorso politico, il tutto, naturalmente, condito in salsa liberista. Un partito che, passato di sconfitta in sconfitta, aspettava fin dai tempi della Bolognina di Occhetto il deus ex machina che lo riportasse in auge. Meraviglia – e qui passo agli “altri” – che coloro che all’interno del Partito democratico si dicono ancora di sinistra – alludo agli Orfini, ai Fassina, ai Barca e ai pochi altri – accettino in silenzio una simile trasformazione del partito, una trasformazione che assomiglia molto a una mutazione genetica. E se di mutazione genetica si tratta, allora non è imputabile a Renzi. È cominciata molto prima, e cioè quando il Pds rinunciò a essere un partito socialista e con una linea fondamentalmente togliattiana e berlingueriana ricercò l’abbraccio con i cattolici.

L’abilità di Renzi risiede sia nell’aver compreso questo humus, sia nel rompere senza esitazioni con tutte quelle antiche liturgie che facevano apparire il Pd – ma era una pia illusione – un partito di sinistra. Ha vinto contro l’immagine che il Pd voleva dare di se stesso, proponendo un partito di centro – e talvolta di centrodestra – che la borghesia italiana – stracciona e ignorante – premia, come già aveva fatto con Berlusconi.

Durerà quanto Mussolini e Berlusconi? Al proposito nutro molti dubbi, ma non voglio mettere limiti alla Provvidenza e al suo novello uomo.