Alla fine degli anni cinquanta comparve in Italia un film di Elia Kazan (A Face in the Crowd) nel quale un suonatore di chitarra, Solitario Rhodes, cresciuto nell’America profonda, opportunamente pilotato da radio e televisione, aveva raggiunto in breve grande popolarità, mescolando canzoni a slogan, con cui il buon senso comune veniva contrapposto al vuoto linguaggio dei governanti. Seguito da milioni di ascoltatori, il successo gli aveva suggerito un’avventura politica, fatta non più da noiosi dibattiti pubblici, ma da conversazioni con la folla, battute sarcastiche, trovate pubblicitarie, barzellette e belle donne. Il messaggio veniva poi sintetizzato dalla scritta che apriva la convention di questo nuovo “partito”, i «Figli di Rhodes»: «Niente è più degno di fede della mente comune di un uomo comune». E il successo, anche sul piano politico, sembrava inarrestabile.

In Italia, ove l’avventura de «L’uomo qualunque» si era rivelata effimera, la rappresentazione di una nuova forma politica “populista”, guidata dalla televisione, un medium da noi ancora agli albori, era stata accolta con distacco e scetticismo: quel messaggio poteva riguardare l’America tradizionale del People’s party di fine Ottocento, dei discorsi del caminetto di Roosevelt  o quella attuale della «folla solitaria» di Riesman; ma non certo l’Italia dove si stava costruendo la Repubblica dei partiti (e dei sindacati), le forme organizzate con cui si esprimeva la volontà popolare.

Attraverso di essi lo Stato affondava le radici nella società civile: partiti e sindacati si presentavano, alla base, come organizzazioni stabili di gruppi sociali sufficientemente coesi, li rappresentavano e portavano le loro istanze ai livelli decisori; mentre, al vertice, i partiti permeavano di sé gli organi dello Stato chiamati a selezionare le proposte e a compiere le necessarie mediazioni. Da un lato avvinto alla società, dall’altro inserito nello Stato, il partito viveva di questo dualismo, proponendosi di mediarlo.

La sinistra pensava che in tal modo fosse possibile costruire quella democrazia sostanziale “promessa” dal capoverso dell’art. 3 della Costituzione, quella che doveva rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, di fatto, limitavano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini.

Senonché, proprio in quegli stessi anni, circolavano in Italia concezioni diverse della democrazia; e, se quella “protetta” ideata da De Gasperi e Scelba ai tempi della guerra di Corea lentamente deperì con il declinare di quel contesto, quella “liberale” di matrice anglosassone si affiancò presto a quella costituzionalmente prevista, per poi eroderla progressivamente.

Nella democrazia, scriveva Joseph A. Schumpeter, «il ruolo del popolo è [quello] di produrre un governo, una leadership»: e il metodo democratico è «quel sistema istituzionale per arrivare a decisioni politiche nel quale alcuni individui acquistano il potere di decidere mediante una lotta competitiva attraverso il voto popolare»; in questo contesto «partito e uomini politici di partito sono semplicemente la risposta all’incapacità della massa elettorale di agire di propria iniziativa e rappresentano un tentativo di regolare la competizione politica esattamente simile alle pratiche di associazioni tra commercianti e industriali intese a regolare la concorrenza economica» (Capitalismo, Socialismo, Democrazia, 1942).

Bene: proprio nello stesso anno in cui compariva il film di Kazan, Giovanni Sartori presentava al lettore italiano, tra le altre, anche la teoria di Schumpeter, da lui definita «procedurale», nel suo classico trattato sulle forme e le definizioni della democrazia, presto divenuto la bibbia della maggioranza dei politologi italiani, Maranini in testa.

Così declinato, questo modello, pur facendo uso della medesima terminologia, si allontanava silenziosamente, ma sostanzialmente, da quello indicato dalla Costituzione.

La democrazia competitiva delineata da Schumpeter prendeva le forme di un liberismo istituzionale, poggiava sulla concorrenza tra partiti diversi, era funzionale alla formazione di una leadership, veniva regolata dal principio maggioritario (prevaleva chi otteneva più voti) e garantiva la tutela delle minoranze (e ciò la distingueva dalle autocrazie totalitarie); ma era una democrazia che si esauriva nell’osservanza di queste regole e che nulla diceva sulle finalità dei partiti in lizza e sulla qualità dei programmi della leadership che veniva eletta.

I primi erano ridotti a semplici macchine per raccogliere i voti; i programmi, vaghi e generici, finivano sullo sfondo, davanti apparivano le figure dei candidati, i leaders da promuovere; «la psicotecnica della direzione di partito e la pubblicità di partito, gli slogans e le marce», diceva ancora Schumpeter, erano gli «elementi essenziali della vita politica»; il candidato veniva presentato agli elettori con le stesse modalità con cui un detersivo veniva offerto al pubblico dei consumatori. Il partito europeo, quello su cui la Costituzione italiana si fondava, non era perciò necessario, bastavano un comitato elettorale, campagne di persuasione e un candidato che “bucasse” gli schermi televisivi: questi gli ingredienti per partecipare con buone possibilità di successo alla «lotta di concorrenza per il potere politico».

Solitario Rhodes, collocato in questo sistema, non era più un personaggio di mera fantasia, ma rappresentava invece, in un modo politico plasmato secondo quella logica economica, una tendenza ben concreta, un’indicazione utile anche per il futuro.

Si sa come è andata in Italia. La democrazia sostanziale prefigurata dall’art. 3 capoverso della Costituzione è rimasta inattuata, perché sono via via scomparsi gli attori politici che avrebbero dovuto supportarla; per i partiti della sinistra, la classe tradizionale di riferimento si è progressivamente frantumata attraverso le mutazioni imposte dalla trasformazione dei rapporti di produzione (all’operaio di mestiere è subentrato l’operaio-massa, quello della fabbrica diffusa, quello precarizzato, ecc.); il Psi di Craxi ha addirittura contrapposto col referendum sulla scala mobile i cittadini ai lavoratori dipendenti; e tutta la sinistra politica, a eccezione di frange rimaste marginali, ha finito poi, nel tempo e con diverse velocità, per rivolgere altrove lo sguardo, mutando di identità e lasciando fasce sempre maggiori di soggetti non rappresentati.

In questa fase declinante, la democrazia procedurale ha preso il sopravvento su quella costituzionale e si è strutturata secondo le logiche “liberali” e competitive sopra descritte: non a caso è stato proprio con Craxi che sono apparse le prime forme della nuova politica, quella che puntava in modo sempre più esclusivo sulla governabilità, poneva in ombra il Parlamento e promuoveva la figura del leader, acclamato dall’assemblea di fedeli.

Ma questa figura di Capo, già contaminata dal populismo, era ancora fortemente impregnata di politica: Craxi aveva dietro di sé un partito novecentesco ancora strutturato, proponeva un progetto di modernizzazione per il paese, riusciva persino ad alzare la testa nell’ambito della Nato; al contempo, però, agiva col Caf per concentrare il potere ai vertici dello Stato, soffocando la dialettica parlamentare, legiferando sempre di più con decreti legge e voti di fiducia; e con  Giuliano Amato apriva la via al presidenzialismo, nella prospettiva di una soluzione neo-plebiscitaria.

A scardinare esplicitamente la Costituzione formale, giudicandola obsoleta, ci pensava poi Cossiga, che ipotizzava una riforma istituzionale promossa dal popolo, visto che era questo, in democrazia, «l’unico e vero sovrano reale»; e, dopo aver esaltato il ruolo del presidente della Repubblica come “garante” di tale sovranità, si dichiarava favorevole a un referendum costituzionale su presidenzialismo  o cancellierato; nel frattempo, però non esitava a promuovere un conflitto istituzionale contro quella magistratura che aveva «incautamente» scavato nelle vicende della loggia P2 e Gladio, rivelando al “popolo sovrano” alcune di quelle zone “sommerse” dello Stato da lui, e dal ceto politico dominante, prudentemente occultate.

A scagliare, infine, la nuova costituzione materiale contro la Carta del ’48, provvedeva, di lì a poco, uno degli affiliati di quella loggia, Silvio Berlusconi, che, per salvare le sue imprese, con i fidi Previti e Dell’Utri, fondava un suo partito televisivo in soli tre mesi, pronto a raccogliere sotto la bandiera dell’anticomunismo gli orfani della Dc e del Psi, partiti appena travolti non dai Pm politicizzati, ma dal sistema di corruzione diffusa che avevano per anni alimentato.

Il vuoto della democrazia procedurale veniva così riempito dalle tessere del mosaico populista: il nuovo leader non era un personaggio della tv, come nel film, ma l’imprenditore che delle televisioni era il proprietario e che direttamente contribuiva a formare la pubblica opinione; il suo non era un partito strutturato, ma un comitato elettorale, formato dai dirigenti della sua impresa, che avevano coniato per lui slogans testati dai sondaggi (anticomunista, liberale, liberista, erano quelli più usati); non avendo alcun programma che non fosse quello di non far governare «i comunisti e i loro eredi», Berlusconi era sceso in campo non alla guida di una coalizione più o meno coesa, ma di un semplice cartello elettorale, composto da forze politiche divise su tutto (i patrioti post-fascisti ideologicamente ben poco avevano a che vedere coi secessionisti padani), ma uniti nella prospettiva di accedere al governo per ivi piantare le loro bandierine identitarie.

La trama populista, in passato solamente abbozzata dai referendum radicali e però già presente nella Lega Nord, si è poi dipanata nel tempo, nei fatti e con proclami enunciati dall’alto: la politica non era altro che un teatrino (per i gonzi che ci credevano), il Parlamento era un luogo di chiacchiere superflue (perché non dar voce ai soli capigruppo?), l’opposizione andava sistematicamente ignorata (si trattava di comunisti e di utili idioti), le istituzioni di controllo venivano osteggiate e insultate (i magistrati antropologicamente diversi, la Corte costituzionale e il Csm occupati dalla sinistra, ecc.); di contro, la vittoria della destra era stata esaltata come quella dell’uomo comune, di colui che parla come mangia, che non è più irretito dalle ideologie, che è l’ imprenditore di se stesso (e che in casa propria può fare quello che vuole).

Questo l’elogio pubblico dell’uomo comune; ma, Berlusconi, privatamente, ai propagandisti raccomandava di tenere presente che gli elettori teleutenti, in realtà, avevano il cervello di «un bambino di undici anni e neppure molto intelligente». Quando un analogo convincimento, causa un fuori onda, era stato conosciuto dal pubblico, la sorte di Solitario Rhodes era stata subito segnata, perché i fans erano insorti, creandogli il vuoto attorno; quando si seppe, invece, quello che Berlusconi pensava dei teleutenti che l’avevano votato, non vi fu alcuna reazione, poiché i fans avevano sorriso divertiti e gli oppositori avevano deciso che criticarlo faceva perdere voti.

Al quadro ufficiale mancava però un tassello, l’individuazione del Nemico oppressore, ma presto questo verrà identificato nella Casta e nelle sue varie declinazioni.

Attenzione, però: questo sviluppo della narrazione populista non nasce con Grillo e i 5 Stelle, come verrà poi raccontato; il fortunato best seller di Rizzo e Stella (La Casta) è del marzo 2007, ma il “vaffa” di Grillo a Bologna è del settembre successivo e di quel testo si nutre; presto il libro dei giornalisti del «Corriere» (una cronaca sferzante della politica dei partiti) sarà seguito da L’altra Casta (i sindacati) e da L’ultra Casta (i magistrati), opere del giornalista de «L’Espresso», Stefano Livadiotti, tutti ampiamente sponsorizzati dalla stampa “moderata”: ed è in questa trilogia di grande successo che vengono presi di mira partiti, sindacati e magistratura, corpi intermedi e apparati di controllo, bersagli privilegiati di ogni politica populista, volta a eliminare ogni mediazione tra il Popolo e il Capo: soggetti diversi avevano dunque arato lo stesso campo.

Questa politica, che si avvarrà di un’opposizione balbettante perché sempre alla ricerca di una identità perduta, lascerà via via macerie istituzionali (nei settori del lavoro, della scuola, della giustizia, ecc.), porterà il paese al limite della bancarotta e, nel 2011, provocherà la lettera della Bce di Draghi (e Trichet), con la conseguente caduta del governo Berlusconi. Poi, dopo il primo esecutivo di salute pubblica di Monti, i 5 Stelle impugneranno a loro volta la bandiera populista, portando alle estreme conseguenze i postulati precedenti, con un’esaltazione persino grottesca dell’uomo comune (uno vale uno) e con la velleità di scardinare il Parlamento (in vista dell’auspicata democrazia diretta). Gli sbandamenti della società liquida li premieranno nel 2018, la loro incerta identità li porterà a coalizzarsi dapprima con la Lega, quindi con il Pd; ci penserà Renzi, come sappiamo, a riportare nuovamente la destra, a lungo costretta all’irrilevanza, alla guida del paese.

Mattarella racconterà la storia diversamente, trascurando questo particolare e sostenendo di avere, dopo le dimissioni di Conte, formato «un governo di alto profilo che non debba configurarsi con alcuna formula politica», chiamando Draghi e i suoi tecnici a guidare un secondo esecutivo di salute pubblica, in grado di far fronte alla pandemia e, soprattutto, capace di distribuire con «oculatezza» quel fiume di denaro ottenuto dall’Europa a opera del precedente governo.

Dunque, a seguito del fallimento delle politiche populiste, erano sorti, con Monti e Draghi, due “governi del presidente”, guidati da personaggi estranei ai partiti; in questo secondo caso, si era costituito addirittura un esecutivo a due livelli: in quello superiore, il presidente del Consiglio e i suoi tecnici di fiducia provvedevano alla distribuzione dei finanziamenti (un Sussidistan questa volta riservato in gran parte alle imprese); in quello inferiore, operavano i ministri “politici”, distribuiti nei settori ritenuti meno rilevanti (?) e scelti con un aggiornato manuale Cencelli; attorno a questi ultimi si agitavano infine i loro compagni di partito, col pensiero fisso alle competizioni elettorali e alle loro chiacchiere televisive.

Quanto alla generalità dei cittadini, questi, col populismo dilagante e le candidature imposte alle elezioni, erano negli anni diventati non più partecipi, ma semplici spettatori della politica; per cui, all’arrivo di Draghi, sollecitati all’unisono dai media, avevano in genere applaudito, perché si erano sentiti in qualche modo garantiti dall’economista di statura internazionale; Draghi aveva poi svolto la sua parte come previsto, essendo un collaudato interprete di un capitalismo compassionevole; e, con la sua nomina e con le grandi somme da distribuire, sembrava che i maggiori problemi fossero risolti.

I primi nodi, invece, sono venuti al pettine quando si è trattato di eleggere il nuovo presidente della Repubblica. La bancarotta dei partiti questa volta è stata totale e si è svolta sotto gli occhi esterrefatti dell’Italia intera e di quella parte del mondo che ci guardava.

Già il preludio era stato penoso, con l’autocandidatura di Berlusconi, il finto appoggio offertogli dai vecchi soci, la compunzione servile con cui i media lo avevano seguito: la proposta, che ad alcuni era parsa surreale e ad altri indecente, è stata in fondo la logica conclusione di un’anomalia che ha segnato negativamente il paese negli ultimi decenni. Finita nel nulla quest’ultima pantomima, era iniziata la vera trattativa, nel corso della quale i candidati proposti erano, però, bocciati uno dopo l’altro. Nel frattempo, da più parti, veniva suggerita la soluzione di spostare Draghi dalla presidenza del Consiglio alla presidenza della Repubblica, con il “mandato” di pilotare poi, da quello scranno, il nuovo capo dell’Esecutivo (per tranquillizzare, al solito, l’Europa); incuranti del testa-coda istituzionale che questo comportava (Draghi si sarebbe scelto il successore alla presidenza del Consiglio), i propugnatori di una tale proposta introducevano surrettiziamente in una democrazia parlamentare un semi-presidenzialismo di fatto, un istituto  estraneo alla Carta del ’48.

Troppi esponenti politici avevano perso da tempo l’abitudine di agire “secondo Costituzione”; essendo, poi, venuto meno un “sistema dei partiti” in grado di funzionare coerentemente, la procedura elettorale si era avvitata su se stessa, bloccandosi. Per uscirne, rappresentando una pressione dal basso, ma in realtà rispondendo ad altre richieste, i “grandi elettori” a quel punto decidevano di congelare l’esistente e invocare lo stato di necessità, dovuto alla persistenza del Covid e all’urgenza di non mettere in forse i finanziamenti del Pnrr: e questa assoluta esigenza, che già aveva reso “impossibili” le elezioni politiche, ora rendeva praticabile il prolungamento della permanenza di Mattarella alla presidenza della Repubblica per altri sette anni.

Neppur questo è stato previsto dalla Costituzione, l’eccezione, già sperimentata per Napolitano e ora con Mattarella, ha finito per assomigliare a una regola. Del resto questo esito era in parte prevedibile: anni di populismo variamente declinato, con una forzatura dopo l’altra, hanno reso malleabile una Costituzione un tempo rigida e le sue fondamenta, così malamente difese, si sono fatte fragili; e ormai bussa alla porta la Meloni, che fedele alla sua tradizione, da Almirante in poi, reclama a gran voce la repubblica presidenziale con elezione diretta del capo dello Stato.