di Giancarlo Scarpari
La riforma della giustizia? «Ce lo chiede l’Europa». È questo il mantra abitualmente evocato per vincere resistenze e superare ostacoli in occasioni di leggi divisive in Parlamento; ma questa volta il richiamo è stato accompagnato da un avvertimento dal sapore oggettivamente minaccioso: «la riforma della giustizia – ha dichiarato la ministra Cartabia – è il pilastro su cui poggia l’intero Pnrr. Se fallisce questa riforma, molto semplicemente, noi non avremo i fondi europei».
Dunque, non c’era tempo da perdere. Ma, innanzitutto, che cosa ci chiedeva l’Europa?
La Commissione, nel suo Country Report del 2019, aveva criticato l’ordinamento italiano per la lentezza dei procedimenti civili e per la scarsa efficacia dei processi penali nella loro azione di contrasto alla corruzione (e per questo invitava a intervenire sulle norme procedurali per ridurre la durata di tali processi); non aveva fatto menzione, tra l’altro, della necessità di riformare l’ordinamento giudiziario.
Il Pnrr del governo italiano, recepiva e interpretava queste raccomandazioni, concordando sul fatto che la lentezza della giustizia minava la competitività delle imprese e la propensione a investire nel nostro paese; proponeva così di ovviarvi tramite una serie di azioni «decise per aumentare la trasparenza e la prevedibilità della durata dei procedimenti civili e penali».
La ministra metteva all’opera tre diverse commissioni, quella diretta dal presidente emerito della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi (per proporre emendamenti al disegno di legge sul processo penale che si trovava alla Camera), quella diretta dal prof. Francesco Paolo Luiso (per gli emendamenti al disegno di legge sulla riforma del processo civile che si trovava al Senato) e quella presieduta dal prof. Massimo Luciani (concernente le modifiche da apporre al disegno di legge sull’ordinamento giudiziario, da tempo fermo alla Camera).
Nell’immediato, viste le mirate richieste dell’Europa, sembrava fosse più urgente varare la riforma della giustizia civile, per la quale la questione tempo costituiva appunto il nodo centrale da risolvere.
La Relazione al Pnrr, infatti, nel prevedere una riduzione della durata dei procedimenti civili del 50% – successivamente ridotta al 40% – considerava che, così facendo, «la dimensione media delle imprese manifatturiere sarebbe cresciuta del 10%»; e «uno studio recente» aveva addirittura «valutato che una riduzione da 9 a 5 anni dei tempi di definizione delle procedure fallimentari» avrebbe potuto «generare un incremento di produttività dell’economia italiana dell’1,6%». Non è chiaro su quali dati fossero fondate queste previsioni, è certo comunque che la riforma doveva essere funzionale, più che al soddisfacimento dei diritti individuali, alle esigenze dell’economia, delle imprese e degli investitori, in particolare di quelli esteri.
Del resto la riforma non ha riguardato la giustizia civile, bensì il procedimento di cognizione ordinario, ignorando che le procedure relative alle domande di protezione internazionale, le amministrazioni di sostegno e tutela, le controversie famigliari costituiscono ormai la metà circa delle complessive pendenze di quel settore; mentre, sempre nell’ottica sopra delineata, una cura particolare è stata riservata all’esecuzione forzata – attraverso la velocizzazione della fase liquidatoria nelle esecuzioni immobiliari, l’introduzione della vendita diretta del bene pignorato da parte del debitore in quelle mobiliari, ecc. – ritenendo il Pnnr che la realizzazione coattiva dei crediti abbia una valenza centrale nel garantire la competitività del sistema paese.
I riformatori, dunque, nella dichiarata impossibilità di procedere a una riforma organica, hanno operato una serie di interventi selettivi; ma l’efficacia di tali innovazioni – il potenziamento dei percorsi stragiudiziali tramite l’arbitrato; la negoziazione assistita; la mediazione; il varo dell’ufficio del processo per velocizzare l’attività del giudice; l’uso vincolante del «calendario del processo» per organizzare in modo programmato e prevedibile i tempi della causa, ecc. – è ancora tutta da verificare, mentre, sempre nell’ottica della riduzione dei tempi processuali, non sembra favorirla l’abolizione della Sezione filtro in Cassazione; tanto più che nessuna norma disincentiva i ricorsi delle parti e anzi, a una Corte già oggi oberata, viene assegnato il compito di decidere, in via anticipata, su istanza del giudice di merito, questioni di diritto di particolare difficoltà interpretativa.
Si tratta, come si vede, di questioni molto tecniche; la comunicazione del governo-legislatore ai cittadini sui lavori della commissione è stata pari a zero e i media hanno ritenuto la materia troppo astrusa per doversene occupare. La proclamata urgenza di varare la riforma, onde ottenere i 209 miliardi di euro ottenuti lo scorso anno dal governo Conte, è improvvisamente scemata, testo ed emendamenti sono rimasti fermi in Parlamento per tutta l’estate, su di essi è calato il silenzio, mentre è stata la riforma del processo penale a occupare le pagine dei giornali e i dibattiti televisivi.
Anche per questa, l’esigenza primaria, perseguita pure a scapito della qualità della giurisdizione, è stata quella di contenere la durata dei processi, nella misura dichiarata del 25%.
L’originaria proposta Bonafede si era mossa in questa direzione, riducendo i reati procedibili d’ufficio, potenziando i riti alternativi, rendendo più vincolante il filtro dell’udienza preliminare, prevedendo l’assunzione di 850 giudici ausiliari per lo smaltimento dell’arretrato delle Corti d’Appello. Aveva quindi confermato la sospensione della prescrizione del reato, dopo la sentenza di primo grado, per le pronunce di condanna; aveva però stabilito ristretti limiti temporali per le tre fasi del processo (due anni sia per il primo che per il secondo grado e un anno per il terzo se il giudizio era di competenza del tribunale collegiale; termini più stretti per i reati di competenza del tribunale monocratico); la durata di questi poteva essere aumentata con provvedimento del Csm a seconda delle pendenze o delle sopravvenienze dei singoli uffici; se comunque tali termini fossero stati superati senza la pronuncia della sentenza, la parte interessata poteva richiedere l’immediata celebrazione del processo; e, se in sei mesi ciò non avveniva, era prevista la responsabilità disciplinare per i magistrati che non avessero concluso quel processo per «colpa inescusabile».
La ministra Cartabia, invece, cogliendo solo in parte le proposte della Commissione Lattanzi, con una prima serie di emendamenti presentati il 14 luglio, ignorava il problema dell’arretrato delle Corti d’Appello (che spariva anche dal titolo della delega), disciplinava l’ ufficio del processo a sostegno dei singoli magistrati, in parte riscriveva il testo di alcune norme del progetto originario, per altri versi ne rafforzava i contenuti, introducendovi poi autentiche novità (la regolamentazione del processo «in assenza», la revisione organica delle misure sostitutive, la previsione di una giustizia riparativa volta a promuovere la riconciliazione tra colpevole e vittima, ecc.); poi, dopo aver confermato in tutti i casi il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, introduceva il nuovo istituto dell’improcedibilità processuale, qualora i termini di fase – due anni per il processo d’appello e un anno per quello di Cassazione – fossero superati senza l’emissione della sentenza; la norma riguardava i reati consumati dopo il 1.1.2020; non si applicava ai reati punibili con l’ergastolo, mentre per un ristretto numero di delitti, se il processo era complesso, il giudice poteva disporre, con ordinanza motivata, una sola proroga, di un anno in appello, di sei mesi in Cassazione.
I media dedicano poco spazio agli emendamenti introdotti dal governo, molti dei quali diretti a valorizzare le misure alternative, in controtendenza con l’attuale sistema che identifica la pena con il carcere; il loro interesse, quello dei partiti, e, non ultimo, quello degli indagati/imputati che in essi operano, si accende invece a proposito del nuovo istituto della improcedibilità, finora sconosciuto all’ordinamento: trattasi infatti di una prescrizione processuale (che determina l’estinzione del processo) che si aggiunge a quella sostanziale prevista dal codice penale (che determina l’estinzione del reato). Il prodotto finale, al di là delle formule giuridiche, non cambia ed il «Sole-24 ore», senza tanti giri di parole, definisce l’istituto un «taglia-processi».
Ma c’è di più: la coesistenza tra le due prescrizioni fa sì che in moltissimi casi la prima prevalga sulla seconda, con l’abnorme risultato che il processo termina con un nulla di fatto, quando il reato ancora non è estinto.
Esemplificando: per i reati di «maggior allarme sociale» la legislazione formatasi in questi anni prevede lunghi termini di prescrizione (dieci anni per il furto pluriaggravato, venti per lo spaccio di cocaina, ventiquattro per la violenza sessuale, ecc.); si tratta di delitti cui spesso si accompagna la custodia cautelare per gli inquisiti e questo già determina per il processo una corsia preferenziale: ebbene, anche prevedendo che la sentenza di primo grado intervenga dopo quattro o cinque anni (ma per i furti in flagranza, il termine di solito è largamente inferiore), qualora l’appello non possa essere celebrato nei due anni successivi – magari a causa del pesante arretrato esistente in quegli uffici, purtroppo ampiamente documentato – il processo, come detto, si estingue, e l’imputato, anche se confesso e condannato in primo grado, non solo deve essere prosciolto, ma ottiene questo risultato molti anni prima che per quel reato siano maturati i tempi della prescrizione “sostanziale”.
Naturalmente in questo “imbuto” delle Corti d’appello finiscono anche i processi che “allarmano” solo una parte dell’opinione pubblica, quelli per i reati fallimentari e societari, quelli contro la P.A., gli omicidi sul lavoro, le malattie professionali o quelli consumati in ambiente sanitario; ebbene tutti questi, oltre alle stragi provocate dai vari disastri, ambientali e non, finiscono sotto la medesima tagliola: l’area dell’impunità si allarga sensibilmente.
La magistratura associata e il Csm forniscono tempestivamente dati preoccupanti sulla capacità delle Corti di smaltire in quei termini stretti tali sopravvenienze, dovendo al tempo stesso celebrare i processi già in carico. Ma la ministra, nel difendere sulla stampa la bontà dei suoi emendamenti, risponde che vi saranno aiuti, in personale e mezzi, per le Corti in difficoltà, mentre la destra chiede l’immediata approvazione del testo così emendato («basta melina o salta tutto», minacciano all’unisono Salvini e Renzi), ritenendo ogni richiesta di modifica come un regalo fatto al M5S e un attacco rivolto contro la stabilità del governo Draghi.
La realtà è però sotto gli occhi di tutti: dalle statistiche pre-pandemia risulta infatti che la durata media dei processi nelle Corti d’Appello è stata di 1.038 giorni, con punte di 2.031 a Napoli, 1.645 a Reggio Calabria, 1.142 a Roma (ma anche altre Corti superano abbondantemente il previsto termine biennale, da quella di Lecce, con 1.111 giorni, a quella di Venezia con 996); durata su cui incide principalmente il carico abnorme delle pendenze (57.326 a Napoli, 49.115 a Roma e 13.596 a Venezia), sistematicamente in aumento, malgrado l’alto tasso di definizione dei processi conseguito dai singoli magistrati ivi operanti.
I numeri pubblicati sollevano una certa irritazione nei partiti che non intendono modificare il testo della legge; la ministra, sia pure tardivamente, si ricorda dell’esistenza del Csm, richiedendo in data 22.7 il parere sull’intero provvedimento e, contrariamente ai fermi propositi della destra, accoglie alcuni suggerimenti provenienti da più parti: il 28.7 il Consiglio dei ministri approva un testo nuovamente emendato e la legge, il 3.8, viene approvata in prima lettura al Senato, con alcune, significative, varianti.
Innanzitutto, per tutti i reati «particolarmente complessi» commessi dopo l’1.1.2020, i termini previsti per non incorrere nella improcedibilità possono essere prorogati per una volta su ordinanza del giudice (per un anno in appello e per sei mesi in Cassazione); per altri reati ben specificati (i delitti di corruzione, di violenza sessuale aggravata, di associazione per spaccio di droga, quelli caratterizzati dall’“aggravante mafiosa”, quelli di terrorismo, ecc.) i giudici possono disporre più proroghe, di analoga durata, ma per i reati caratterizzati dall’aggravante mafiosa le stesse non possono superare i tre anni in appello e un anno e sei mesi in Cassazione.
Inoltre viene introdotta una disciplina transitoria che, riconoscendo indirettamente il problema degli arretrati oggi esistenti nelle varie Corti, amplia, sino al 2024, da due a tre anni il termine per concludere nel merito il processo d’appello e da un anno a un anno e sei mesi quello per emettere la sentenza definitiva in Cassazione (con le possibili proroghe, rispettivamente, di un anno e di sei mesi se disposte motivatamente dal giudice procedente).
Una soluzione di evidente compromesso, che, con un autentico slalom normativo, tiene fermo il blocco della prescrizione voluto da Bonafede, introduce l’improcedibilità processuale decisa dalla Cartabia, prevede una fase di transizione proposta dal «lodo Serracchiani», accoglie il prolungamento dei termini a opera del giudice in relazione ad alcuni reati individuati da questo o quel partito: una mediazione al ribasso, dunque, utile per avere l’unanimità di facciata al Consiglio dei ministri e l’approvazione conseguente nell’ennesima votazione sulla fiducia in Parlamento, ma che mantiene fermi gli stretti termini della tagliola, salvo poi scaricare sui giudici la facoltà di superarli volta a volta con apposite ordinanze.
Si tratta di una riforma che non scioglie i nodi veri della giustizia penale: non intacca la geografia giudiziaria e così, mantenendo 4 Corti d’appello in Sicilia, 3 in Puglia, ecc., continua a fare cattivo impiego dei magistrati a disposizione; si sforza di incentivare i riti alternativi, ma conserva inalterate le procedure antideflattive esistenti, vanificando così in gran parte i possibili effetti positivi delle novità introdotte: il concordato in appello conferisce persino un “premio” a chi, all’inizio, non ha scelto i riti alternativi e il ricorso in Cassazione per chi ha patteggiato consente all’imputato di impugnare addirittura la decisione da lui volontariamente accettata!
Inoltre il problema, impellente e cruciale, delle pendenze in tante Corti d’appello è stato semplicemente aggirato con la prospettiva degli “aiuti” forniti dal futuro ufficio del giudice; su questa situazione preesistente viene ora a incidere l’istituto della improcedibilità, che, rendendo appetibile l’impugnazione in qualsiasi caso, accrescerà inevitabilmente il flusso di processi in secondo e terzo grado: i giudici dell’appello, per primi, dovranno così scegliere (con quali criteri?) dalla massa dell’arretrato i processi da salvare dalla prescrizione sostanziale e, contemporaneamente, dare priorità ai nuovi processi “a termine” per impedire che questi vengano “tagliati” dalla nuova prescrizione processuale. Si prepara, in silenzio, una forma inedita di amnistia mascherata.
Torniamo allora alla domanda iniziale: era proprio questo che ci chiedeva l’Europa? Non pare proprio.
Ridurre la durata dei processi, non significa, infatti, farli estinguere senza un’apposita decisione di merito; il sempre citato articolo 6 Cedu stabilisce che la ragionevole durata deve portare a un accertamento della responsabilità o meno dell’imputato in tempi congrui, non a un “nulla di fatto”, che nella sostanza manda impunito il colpevole e non assolve l’innocente. Eppure proprio questo ha stabilito la riforma.
Era poi così urgente un simile intervento? Neppure questo è sostenibile.
Il nuovo istituto, infatti, entrerà in vigore non appena sarà approvata alla Camera la legge delega in questione; la rimanente riforma del processo, invece, dovrà attendere il varo dei successivi decreti, dai tempi sempre incerti: già questa sfasatura temporale rende irragionevole una simile fretta.
Ma vi è di più. La Commissione Lattanzi aveva sottolineato che non vi erano «ragioni urgenti per anticipare la riforma della prescrizione, poiché gli effetti della legge del 2019 si sarebbero cominciati a produrre, per le contravvenzioni a partire dal 2025 e per i delitti dal 2027». Se si è operato diversamente ciò è avvenuto perché, dopo tanto parlare di tecnici, sono stati i politici di destra, nostalgici forse del “processo breve” ideato nel 2009 per salvare l’allora incensurato Berlusconi, a fare pressioni per introdurre con urgenza il “taglia processi”, con l’obiettivo dichiarato di cancellare la riforma della prescrizione voluta nel 2019 da Bonafede («una bomba atomica», aveva a suo tempo dichiarato, con qualche esagerazione, la leghista Bongiorno) e con quello, indicibile, coltivato dai loro molti inquisiti, di avere comunque un ulteriore ombrello sotto cui, all’occorrenza, ripararsi.
Ma vi era un altro conto da regolare, questa volta più direttamente coi magistrati.
Già si è detto che l’Europa non aveva richiesto anche la riforma dell’ordinamento giudiziario; ma la ministra Cartabia aveva dapprima costituito la Commissione Luciani perché fornisse proprio un parere sulle modifiche da introdurre in tale ordinamento; poi, dopo avere espunto dalla delega sul processo penale la questione dell’arretrato delle Corti, vi aveva inserito, a mo’ di anticipazione, la «modifica delle disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di progetti organizzativi delle procure della Repubblica».
Si trattava della dibattuta questione delle priorità da assegnare ai processi in un sistema che prevede sì l’azione penale obbligatoria, ma anche l’impossibilità pratica di darle effettività, per la tendenza panpenalistica del legislatore tradizionale e per la cronica mancanza di adeguate risorse per farvi fronte. In realtà, in assenza di scelte radicali di depenalizzazione, il legislatore del 2008 aveva varato l’art. 132 bis disp. att. c.p., che aveva individuato, in ordine decrescente, i reati che nella fissazione delle udienze dovevano avere «priorità assoluta»; il Csm con risoluzioni, prima, e con una circolare poi, aveva definito il quadro operativo, prevedendo il coordinamento tra i vari procuratori della Repubblica e presidenti di tribunale perché le loro scelte fossero in linea con quella normativa; e le disposizioni prese sulle “priorità” dovevano essere trasmesse all’organo di autogoverno, per il successivo controllo. La questione era stata perciò risolta creando un circuito tra le varie autorità giudiziarie e il Csm, un percorso bilanciato, controllato, tutto interno alla magistratura.
Ebbene, propria questa autonomia è risultata invisa al governo Draghi, visto che nella delega approvata il 3.8, con un maxi emendamento e il solito voto di fiducia, l’esecutivo-legislatore ha voluto affermare che pubblici ministeri-presidenti di tribunale devono sì individuare criteri di priorità, ma solo «nell’ambito di criteri generali indicati dal parlamento con legge». Si tratta di un evidente cambio di paradigma, di cui non si avvertiva la necessità (una legge c’era già ed era la norma del codice sopra riportata), che non riduce in alcun modo la durata dei processi (per cui un tale richiamo, inserito in quel contesto, è doppiamente fuori luogo) e che, non a caso, ignora il ruolo del Csm (neppure citato nella norma approvata); ma che raccoglie, ecco il punto, gli umori di gran lunga prevalenti nei partiti di governo e di “opposizione”, decisi a piantare le loro bandierine per attestare una qualche supremazia della “politica sulla magistratura”.
Ma questa è solo un’avvisaglia.
La riforma dell’ordinamento giudiziario, terzo tassello dell’azione intrapresa dalla Cartabia, è stata infatti accompagnata nel paese non da un dibattito, ma da un vero e proprio scontro, da quando l’inquinamento prodotto in quell’apparato, in particolare, dai comportamenti di alcuni giudici di destra (da Cosimo Ferri a Luca Palamara ), è stato utilizzato soprattutto da quel settore politico per trasformare la riforma ordinamentale nell’ennesimo tentativo di esercitare un controllo dall’esterno sulla magistratura.
Così accanto al silenzioso lavoro della Commissione Luciani, incaricata di fornire un parere sul disegno di legge pendente alla Camera, si sono registrate le chiassose iniziative promosse da vari esponenti della destra al governo volte a contestarne l’operato.
La ministra Gelmini ha sottoscritto l’iniziativa per una commissione parlamentare per indagare sui legami esistenti tra politici e magistrati (proprio mentre la destra candidava a governare la Campania un magistrato del luogo!); il sottosegretario della Cartabia, Francesco Paolo Sisto, è sceso in piazza per appoggiare la proposta di legge di iniziativa popolare patrocinata dalle Camere penali sulla separazione delle carriere; Salvini e Renzi si sono recati ai gazebo dei radicali per sottoscrivere sotto le telecamere i referendum sulla giustizia periodicamente riproposti: il tutto sull’onda di una rappresentazione della corporazione offerta dal duo Sallusti-Palamara, divulgata in tutte le sedi mediatiche, nella quale il magistrato radiato viene presentato come il rottamatore di un sistema degenerato presidiato dalle «correnti di sinistra» nel Csm (sic!).
In questo rinnovato humus culturale hanno ripreso la parola vecchie conoscenze.
Marcello Pera, con una lunga intervista a «Libero», aveva, il 10 maggio, annunciato l’aria che tirava in quel settore politico, sostenendo che era ora di cambiare la Costituzione perché i pubblici ministeri, che «esercitano l’azione penale in nome dello Stato sono espressione del potere esecutivo», quindi le carriere andavano separate e quei magistrati dovevano essere portati «sotto l’ambito della politica». Niente di nuovo, si dirà, ma l’ennesima riprova di dove vadano a parare i paladini della separazione delle carriere, oggi tutti impegnati nel sostenere i referendum dei radicali.
Il prof. Pecorella, dal canto suo, dalle pagine di una rivista confindustriale, ha liquidato, senza neppure esaminarle, le proposte della Commissione Luciani (quelle ritenute possibili a Costituzione invariata) come assolutamente inutili, sollecitandone l’accantonamento non perché divisive, ma perché bisogna «attendere tempi in cui si abbia il coraggio di fare delle scelte radicali», quali test psicoattitudinale per l’accesso in magistratura, carriere separate, due Csm, membri laici eletti dagli avvocati e dai professori universitari, ecc.
Queste posizioni estremistiche non troveranno certo accoglienza nella sintesi cui sarà chiamata la Cartabia già nel prossimo autunno; sono tuttavia significative perché indicano il vero sentire di tanti “garantisti” e, soprattutto, perché, senza gli abituali giri di parole, indicano la strada che intenderà percorrere questa destra (allargata verso il centro?), quando matureranno i tempi, tanto attesi da Pecorella, nel caso Meloni, Salvini e i partitini di complemento dovessero vincere le prossime elezioni.