di Domenico Suppa

Un dibattito tra Acemoglu e Brancaccio

 

L’economia è stata definita una scienza “ecclesiastica”: dogmatica, conformista, ostile al pensiero critico, il più delle volte ancorata alla difesa del mainstream neoclassico, la dottrina dominante. Questo giudizio vale soprattutto per il presente. Molto più che in altri campi del sapere, da tempo gli eretici dell’economia vengono relegati nei sottoscala del dibattito accademico e le loro idee sono considerate puro veleno per l’azione di politica economica. Alcuni esponenti dell’ortodossia, come Jean Tirole, hanno perfino cercato di istituire un novello tribunale dell’inquisizione, per buttare fuori dalle aule universitarie i non allineati al pensiero dominante. Insomma, in campo economico, per gli eretici, tira una brutta aria.

Qualche eccezione tuttavia sopravvive. Dopo la crisi finanziaria del 2008 e la crisi pandemica del 2020, va diffondendosi il sospetto che qualcosa non funzioni nella narrazione economica dominante. Così, ogni tanto, accade che qualche ribelle riesca a metter becco nel dibattito prevalente e magari arrivi a fare breccia nei muri che proteggono la cittadella del mainstream. In Italia, un esempio di eretico sopravvivente, addirittura rispettato dall’ortodossia, è Emiliano Brancaccio. Classe 1971, docente di politica economica presso l’Università del Sannio, Brancaccio è stato definito un innovatore del pensiero economico critico. I suoi contributi ruotano soprattutto intorno al recupero e all’aggiornamento di una celebre intuizione di Marx: la cosiddetta legge di tendenza verso la centralizzazione del capitale in sempre meno mani. Adottando tecniche di indagine moderne come la network analysis, Brancaccio e i suoi coautori hanno mostrato che questa tendenza trova conferma nei dati: l’80% del capitale azionario mondiale è controllato da meno del 2% degli azionisti mondiali, e questo manipolo di grandi capitalisti si restringe ulteriormente al sopraggiungere delle crisi economiche. Per Brancaccio, la tendenza alla centralizzazione ha risvolti generali, economici e politici. A suo avviso, infatti, essa rappresenta un pericolo per l’assetto liberaldemocratico prevalente. La tesi è che la centralizzazione capitalistica spinge verso un accentramento del potere, non solo economico ma a lungo andare anche politico, e per questo è destinata a compromettere la divisione dei poteri e il sistema dei diritti sui cui reggono le democrazie liberali contemporanee[1]. Una premonizione minacciosa, come l’ha definita Gad Lerner, di quelle che non fanno dormire sonni tranquilli ai depositari dell’ordine costituito. Eppure, intorno ad essa Brancaccio è riuscito a suscitare l’interesse dei media e a intavolare discussioni con ministri, premier e banchieri centrali, tra i quali Giovanni Tria, Elsa Fornero, Lorenzo Bini Smaghi, Romano Prodi, Mario Monti. Ed è arrivato anche a misurarsi con esponenti di vertice della comunità scientifica mondiale, come l’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard[2]. Lungo questo sentiero si colloca anche il dibattito tra Emiliano Brancaccio e Daron Acemoglu del 1 giugno 2021, organizzato dalla Fondazione Feltrinelli in collaborazione con la RAI, curato da Andrea Califano e moderato dal giornalista Americo Mancini di radio uno[3].

Daron Acemoglu, armeno nato in Turchia e poi naturalizzato americano, docente al MIT di Boston, insignito della prestigiosa John Bates Clark medal, attualmente fra i tre economisti più citati al mondo, è uno dei massimi rappresentanti dell’approccio mainstream di teoria e politica economica. Dal punto di vista metodologico, Acemoglu viene talvolta annoverato nel ramo di ricerca che va sotto il nome di “new institutional economics”. Questo filone di indagine si basa sempre sul solito principio base del mainstream neoclassico, che considera l’economia come lo studio del comportamento di soggetti razionali che puntano a massimizzare la loro utilità sotto il vincolo di risorse scarse. La novità sta nel fatto che questo principio viene esteso all’analisi di istituzioni diverse dal mercato, tra cui l’innovazione scientifica e tecnologica, la cultura, la politica. Tra le più celebrate applicazioni di questo approccio va ricordato uno dei principali bestseller di Acemoglu: The economic origins of dictatorship and democracy del 2005, scritto con James Robinson[4]. In questo libro, Acemoglu delinea le condizioni sotto le quali la democrazia sopravvive oppure soccombe. L’idea di fondo è che la democrazia si consolida quando le élites non hanno un forte incentivo a rovesciarla. Questa condizione si realizza in base a sei fattori: la forza della società civile, la struttura delle istituzioni politiche, la natura delle crisi politiche ed economiche, il livello di disuguaglianza economica, la struttura dell’economia e la forma e l’estensione della globalizzazione. Stando alla visione di Acemoglu, a seconda delle diverse possibili combinazioni di questi sei elementi, ciascuna nazione dovrebbe mostrare uno suo specifico sentiero di sviluppo o di crisi della democrazia. Ossia, in base alle molteplici combinazioni di tali variabili, ogni paese fa storia a sé stante. Questa idea si collega a un’altra tesi di Acemoglu e Robinson, contenuta nel saggio The rise and decline of general laws of capitalism: date le specificità istituzionali, politiche e culturali di ogni paese, non ha senso tirare fuori una legge di tendenza del capitalismo[5]. Da Ricardo a Marx, fino agli studi di Piketty dei giorni nostri, tutti coloro che hanno provato a ricercare leggi di tendenza generali hanno fallito. Pertanto, non è possibile trovare leggi generali quando per esempio si analizza il rapporto tra capitalismo e disuguaglianza, come ha tentato di fare Piketty, e tantomeno è possibile trovarle se l’oggetto di analisi è il rapporto ancora più complesso tra capitalismo e democrazia. Per Acemoglu, ricercare tendenze generali è un’impresa impossibile.

Al di là delle diverse posizioni politiche e di politica economica, c’è dunque una differenza preliminare, di metodo, negli approcci di Acemoglu e Brancaccio, con il primo contrario e il secondo favorevole alla ricerca di leggi generali del capitale. Proprio questa fondamentale differenza nell’approccio scientifico, come vedremo, è stata al centro del dibattito tra i due economisti. L’estrema rilevanza dei temi affrontati, rende opportuno un accurato resoconto della discussione.

Il momento focale del dibattito è quello in cui Brancaccio riprende la tesi di Piketty contestata da Acemoglu e Robinson. Brancaccio afferma: “La tesi di Piketty è che nel capitalismo deregolato del nostro tempo il tasso di rendimento del capitale è mediamente maggiore rispetto al tasso di crescita del reddito. La conseguenza è un inasprimento delle disuguaglianze sociali, che egli rileva nell’aumento della quota di reddito nazionale che va all’1% dei più ricchi. Questo aggravamento delle disuguaglianze sociali, secondo Piketty, è così grande da rappresentare una minaccia concreta per l’ordine democratico. Ora, nel saggio The rise and decline of general laws of capitalism Acemoglu e Robinson obiettano che Piketty si limita a proporre solo una narrativa ricca di dati, ma non mette le sue tesi sul banco di prova della verifica empirica”. Acemoglu e Robinson colmano allora questa lacuna con un loro test empirico, con cui mostrano che “la relazione tra una proxy del tasso di rendimento del capitale al netto della crescita da un lato, e la disuguaglianza sociale dall’altro, è una relazione non significativa oppure addirittura negativa, cioè di segno opposto rispetto a quella teorizzata da Piketty.”

Pur condividendo varie critiche mosse a Piketty, Brancaccio contesta proprio i risultati del test empirico di Acemoglu e Robinson. Anzi, ne ribalta l’esito. In collaborazione con la ricercatrice del MEF Fabiana De Cristofaro, Brancaccio mostra che usando “dati aggiornati al 2019 e depurando le stime da possibili effetti di trend, la tesi di Piketty secondo cui un aumento del rendimento del capitale rispetto alla crescita è correlato positivamente alla disuguaglianza, in questo caso non viene smentita ma a quanto pare risulta confermata”. Il rovesciamento è compiuto, ed è di un certo effetto. Tuttavia Brancaccio puntualizza: “Questo è solo un controesempio, il dibattito resta aperto e non si chiude con questo tipo di esercizi, entrambi relativamente semplici”. Il bersaglio grosso è infatti un altro. “La questione che qui mi interessa porre”, prosegue Brancaccio, “non è tanto difendere o attaccare Piketty, ma è di carattere più generale: è epistemologica. Il punto che voglio sottolineare è che, per quanto difficile sia, i tentativi di ricercare delle leggi di tendenza del capitalismo non vanno liquidati. Anzi, forse vanno incoraggiati.”

L’attacco di Brancaccio ad Acemoglu è dunque sul metodo. E viene sferrato sulla questione centrale posta dalla Fondazione Feltrinelli: il capitalismo deregolato del nostro tempo può creare problemi alla tenuta dell’ordine democratico? Secondo Brancaccio, per rispondere alla questione può tornare d’aiuto proprio una legge di tendenza: in particolare, la tendenza marxiana verso la centralizzazione dei capitali in sempre meno mani. Brancaccio ricorda che vari esponenti del mainstream, da De Grauwe allo stesso Acemoglu, hanno provato ad argomentare che Marx in fondo aveva torto, che una vera e propria tendenza non esiste. Anche dentro il mainstream, tuttavia, c’è chi la vede molto diversamente. Di recente, ricorda Brancaccio, persino il FMI ha insistito su una tendenza alla crescita dei markup e alla conseguente monopolizzazione dei mercati, che rappresenta una delle possibili implicazioni della centralizzazione capitalistica. Ma c’è di più. Gli studi di Brancaccio e dei suoi coautori, come dicevamo, hanno consentito di elaborare una prima misura accurata della centralizzazione marxiana, intesa come centralizzazione del controllo del capitale. Il risultato, ottenuto con gli strumenti della “network analysis”, corrisponde al cosiddetto “network control”, che indica la percentuale di azionisti detentori dei pacchetti di controllo dell’ottanta percento del capitale quotato in borsa. Ebbene, da tali analisi emergono risultati importanti. In primo luogo, “i pacchetti di controllo dell’ottanta percento del capitale azionario mondiale sono posseduti da meno del due percento degli azionisti mondiali. Percentuali analoghe così basse si riscontrano anche a livello di singole aree e di singoli paesi”. In secondo luogo, “questo piccolo club privilegiato di grandi capitalisti tende a restringersi ulteriormente a cavallo delle crisi economiche”. In particolare, a cavallo della crisi del 2007-2008 si riduce di un altro venti percento. E ancora, “il manipolo di grandi capitalisti si restringe ulteriormente, quanto maggiore è la differenza tra tasso d’interesse e tasso di crescita”. Infine, “la tendenza verso la centralizzazione dei capitali risulta correlata con alcuni indicatori di deterioramento del tessuto democratico”.

Per Brancaccio queste evidenze pongono una domanda cruciale: “Questa potente tendenza alla centralizzazione del capitale in sempre meno mani, questa immane concentrazione del potere economico, può portare a una analoga concentrazione del potere politico? Una concentrazione al limite tale da mettere a rischio l’assetto delle democrazie liberali contemporanee?” Domanda colossale, che resta aperta. L’economista italiano la reputa però urgente, e per rispondere invoca “uno sforzo scientifico collettivo”.

A questo punto, dopo aver mandato in onda un breve video contenente tra l’altro alcune dichiarazioni di Joseph Stiglitz, il moderatore Americo Mancini chiede ad Acemoglu se la premonizione brancacciana, di una minaccia incombente per la democrazia, sia eccessivamente pessimistica oppure fondata. Acemoglu non indugia e condivide l’allarme: “Sicuramente la democrazia è sotto assedio. Questo è un pericolo”. Quindi, l’economista di origine armena riconosce l’importanza delle obiezioni metodologiche dell’interlocutore: “Io penso che Emiliano abbia fatto qualcosa di molto buono. All’inizio del suo intervento, Emiliano ha enfatizzato l’importanza dell’aspetto epistemologico. Si può usare questo termine, che mi piace, o possiamo usare la parola ‘controfattuale’. Io però dico che non possiamo risolvere le questioni di cui stiamo parlando solo guardando quel che è successo. Dobbiamo pensare al motivo per cui è successo e quali fossero le alternative”. E prosegue: “Emiliano giustamente dice: le grandi aziende sono dominanti. Quindi, se vogliamo parlare di centralizzazione, una sorta di monopolio con il potere sociale e tecnologico nelle mani di un solo gruppo, sì, certo, i dati correnti indicano che questa è la preoccupazione. Quel che dice è corretto. Cose analoghe vengono dette da Joe Stiglitz, sul fallimento dei mercati e delle loro regolamentazioni. Ma queste loro argomentazioni generalizzano troppo. Emiliano e Joe dicono che abbiamo fallito nell’unica cosa fattibile. Io dico che non è vero. Quello che vediamo è un fallimento nella visione della regolamentazione della tecnologia. Ma ci sono cose migliori che possiamo fare”.

Dunque, Acemoglu sostiene che il destino non è ineluttabile. Che era possibile ed è possibile una politica di regolamentazione più efficace. E qui l’economista del MIT viene al punto metodologico: “Vale proprio quello che ha identificato Emiliano nel paper che ho scritto con Robinson sulle leggi del capitalismo. Noi sosteniamo che non ci sono leggi generali del capitalismo, dipende da chi ha il potere. E questo dipende dalle istituzioni. Non c’è necessità per cui le aziende siano gli unici attori potenti. Ci possono essere altri centri di potere, come li ha chiamati John Kenneth Galbraith, o li possiamo chiamare ‘welfare state socialdemocratico’, come hanno fatto i paesi del Nord Europa e come indicava il Beveridge report. Certo, Stiglitz ha ragione a dire che i mercati spesso hanno fallito. Ma questo non significa che la soluzione sia l’abolizione del mercato. E non credo che Stiglitz intenda questo. E comunque, questo fallimento non è una ‘legge’. Non c’è nulla di inevitabile nel fatto che le aziende diventino potenti. Occorrono contro-bilanciamenti, l’ambiente istituzionale può essere molto più sano. Anche la disoccupazione tecnologica può essere risolta. Non c’è nulla di inevitabile, secondo me”.

Quindi, quasi a scongiurare eventuali fughe in avanti, Acemoglu aggiunge: “Non penso che nessuno possa credere che oggi si possa avere un’economia centralmente pianificata. Ma non sono nemmeno d’accordo con chi ritenga che l’azione del governo sia sempre negativa”. E giunge così alla proposta politica: oggi è possibile riprendere la tradizione del riformismo socialdemocratico, per innovarlo e aggiornarlo ai tempi. “Occorre l’intervento governativo, ma occorre monitorare i governi. Per questo la democrazia è fondamentale. Aristocrazie e oligarchie non si autoregolano. In democrazia, gli elettori protestano, votano e controllano il governo. Non bisogna sottostimare il potere della società civile. Certo, questa è una fase di crisi della democrazia, è la situazione di maggiore debolezza degli ultimi 60 anni. Ma pensiamo alle grandi aziende che inquinano o vendono morte. La pressione sociale le spinge a cambiare modello di business. Dunque, la democrazia non è morta. Ci vuole però uno sforzo rinnovato per creare un ideale democratico. Perché è l’unico modo per far funzionare il governo. E non ci sono leggi generali del capitalismo. Ci sono malfunzionamenti dei mercati, e con la regolazione giusta possiamo farli funzionare meglio”.

E’ in fin dei conti un moto di ottimismo, quello di Acemoglu. Mancini lo coglie e pone la domanda politica: “Possiamo allora avere speranza? La centralizzazione è inevitabile o il controllo da parte della società civile di cui parla il professor Acemoglu è possibile e può essere la nostra garanzia?”. La risposta di Brancaccio è icastica: “Tutti abbiamo diritto alla speranza. Ma abbiamo in primo luogo diritto alla conoscenza”. Acemoglu annuisce.

Quindi, Brancaccio torna sul punto del metodo: “Ho condiviso molte considerazioni di Daron. C’è però un disaccordo tra noi che è di ordine epistemologico e che può avere implicazioni in merito alle nostre diverse visioni di politica economica”. Quindi Brancaccio tiene a precisare che rispetto alla solita contrapposizione tra economisti mainstream ed economisti alternativi, su questo tema la linea di divisione è più complessa. “Il fatto che gli economisti si dividano sull’esistenza o meno di leggi generali del capitalismo, è un fenomeno trasversale tra le diverse scuole di pensiero. Possiamo trovare studiosi di orientamento critico che hanno creduto poco all’esistenza di queste leggi di tendenza e studiosi mainstream che invece si sono cimentati nella loro ricerca. Io e Acemoglu apparteniamo a scuole di pensiero diverse, ma le diverse valutazioni delle leggi di tendenza tendono a sparigliare il campo, e non necessariamente riflettono le consuete divisioni tra le nostre scuole”.

A questo punto Brancaccio insiste sulle caratteristiche specifiche di Acemoglu, che lo rendono diffidente verso la ricerca di leggi generali del sistema. “Acemoglu è uno degli studiosi più noti al mondo proprio per il suo impegno nel ricercare quelle specificità istituzionali, politiche, culturali, che contraddistinguono i singoli paesi, che sono anche resistenti nel tempo e che determinano le diverse traiettorie di sviluppo dei diversi paesi. Dunque, da questo punto di vista, Acemoglu si muove esattamente contro il concetto di leggi generali di tendenza”. E qui Brancaccio fa un altro passo avanti, fornendo dati ulteriori a sostegno della sua tesi. “Io però insisto nella mia critica. La ricerca di leggi di tendenza del capitalismo risulta supportata dalle evidenze. Prendiamo i dati sulla deregulation del lavoro avvenuta in Europa e nei paesi OCSE negli ultimi trent’anni. Paesi estremamente diversi, con caratteristiche istituzionali, politiche, culturali, molto differenti tra loro, hanno fatto registrare una convergenza nel tempo dei processi di precarizzazione del lavoro testimoniata dal crollo degli indici di protezione delle lavoratrici e dei lavoratori. E il crollo avviene non solo in termini di media ma anche di varianza tra paesi: esiste cioè una convergenza internazionale verso la precarizzazione del lavoro. Ecco, anche questa è una tendenza. Sul piano teorico la spiegazione può essere ricercata in meccanismi che talvolta gli economisti definiscono di arbitraggio, o simili. In ogni caso, non so se Acemoglu sia d’accordo, ma i dati della deregulation del lavoro ancora una volta sembrano suggerire che esiste una tendenza che accomuna molti paesi e che ha contraddistinto la storia recente del capitalismo. Una tendenza ancora una volta generale, direi. Tra l’altro, è una tendenza così resistente che si è riprodotta nel tempo quasi indipendentemente dall’avvicendarsi delle diverse forze politiche nei diversi paesi. E’ esattamente questo tipo di riscontri che induce me e molti colleghi a interrogarci sull’esistenza di tendenze generali, di leggi del meccanismo capitalistico”.

A questo punto, però, Brancaccio tiene a chiarire che le ‘leggi’ non sono immuni ai grandi cambiamenti di scenario ‘istituzionale’ e in questo modo, sotto certi aspetti, sembra tendere una mano epistemologica verso il suo interlocutore: “Ora pongo una questione che in un certo senso viene incontro alla rilevanza che Acemoglu attribuisce alle ‘istituzioni’. La mia idea è che questi elementi comuni ai vari paesi, che ci consentono più di prima di parlare di leggi generali, si sono imposti soprattutto da quando è venuta a mancare una grande alternativa di sistema. Possiamo pensare tutto il male possibile dell’Unione sovietica, e possiamo pensare che sia stato un esperimento fallito. Tuttavia, da quando l’URSS è implosa e il capitalismo si è trovato senza rivali, senza la concorrenza di un’alternativa di sistema, ebbene proprio da quel momento sembra esser scattato un fenomeno di uniformizzazione tendenziale del capitalismo, che è andato molto al di là delle specificità dei singoli paesi. Sotto questo aspetto, Acemoglu è sempre molto attento alle esperienze socialdemocratiche che hanno contraddistinto il Novecento, soprattutto nei paesi nordici. Però credo che lui possa esser d’accordo con me sul fatto che da qualche decennio anche quei gloriosi templi delle socialdemocrazie sono entrati in grandissima crisi. E’ difficile oggi individuare delle vere e proprie socialdemocrazie, almeno nel senso in cui le intendevamo nel Novecento”. Da qui alla stoccata finale: “Ebbene, io credo che questa crisi della socialdemocrazia sia proprio il correlato della crisi del comunismo”.

Un collegamento, questo di Brancaccio, che in passato ha già trovato in Monti un alleato inatteso e che meriterebbe di essere approfondito, anche per mettere in luce che il crollo del cosiddetto socialismo realizzato potrebbe avere segnato non una primavera della socialdemocrazia occidentale, come molti annunciavano e speravano, ma l’inizio della sua fine.

Ma ancora una volta è dal discorso sul metodo che si sviluppa il dibattito tra i due studiosi. Nella visione di Brancaccio, a quanto pare, tra legge di tendenza e grande cambiamento ‘istituzionale’ ci deve essere un’interrelazione quando il cambiamento riguarda l’assenza o meno di un’alternativa generale di sistema. Acemoglu raccoglie e ammette, l’assenza di un’alternativa ha effettivamente attivato una tendenza generale: “Sono d’accordo con diversi punti sollevati da Emiliano. Sì, sono d’accordo con Emiliano sul fatto che le socialdemocrazie sono in crisi e sono d’accordo sul fatto che in parte questa crisi è dovuta al collasso dell’Unione sovietica. Già prima del crollo sovietico c’era stata una sfida alle socialdemocrazie, sul terreno ideologico con Friedman e Hayek e in campo politico con Thathcher e Reagan. Però, penso che la caduta del muro di Berlino abbia accelerato la crisi”. Acemoglu ricorda che le socialdemocrazie di maggior successo erano sostenute da partiti di sinistra non marxisti, dichiaratamente alternativi ai partiti comunisti e del Comintern. “Tuttavia, con il collasso sovietico tutto questo è scomparso, gli ideologi del libero mercato hanno preso il sopravvento”.

Subito dopo, però, l’economista armeno-americano ribadisce la sua idea, dell’esistenza di possibilità, di sentieri alternativi, di strade che potevano essere intraprese ma non sono state percorse: “Ma dico a Emiliano che secondo me la socialdemocrazia è entrata in crisi anche perché non ha generato un tipo adeguato di nuova agenda. Blair, Clinton, Obama e altri hanno aderito all’idea della globalizzazione libera, della deregolazione, dell’adesione ai monopoli, del libero mercato, con una blanda redistribuzione a valle. Insomma, la socialdemocrazia ha finito per convergere verso l’ideologia del libero mercato. Io non incolpo quei leader, perché in quel momento non si sapeva come affrontare i problemi. Ma oggi abbiamo una comprensione migliore della situazione. Oggi abbiamo bisogno e possiamo redigere un’agenda nuova, con alcuni elementi della vecchia socialdemocrazia a livello di protezione del lavoro, ma anche elementi inediti basati sull’orientamento della tecnologia, per evitare l’automazione che esclude il lavoro buono, controlla i dati e finisce per disinformare. Ovviamente, un’agenda del genere non è facile da attuare. Quindi la domanda è: i mercati possono essere regolati senza sforzo? Io e Emiliano saremo probabilmente d’accordo sul fatto che non è così: è molto difficile regolare i mercati. Ciò su cui non siamo d’accordo è che, sebbene difficile, io penso che sia possibile”.

Come è sua abitudine, Acemoglu inserisce un elemento storiografico a sostegno della sua tesi: “Immaginiamo di trovarci nell’anno 1821 a Manchester o a Londra. Se vivessimo in quell’epoca, la società ci apparirebbe distopica. La rivoluzione industriale è visibile ma le macchine stanno semplicemente sostituendo i lavoratori, le condizioni di vita della classe lavoratrice sono drammatiche, i salari non aumentano. Le leggi sulla povertà sono state eliminate, non c’è istruzione. C’è ancora il vecchio rapporto tra padroni e servi. La situazione è terribile e sembra senza speranza. Ma saltiamo a 50 anni dopo nel Regno Unito. Non è una società egalitaria ma i salari sono migliori, le condizioni di vita della classe lavoratrice sono progredite, l’ambiente è più salubre, c’è l’istruzione pubblica. Come è potuto accadere? Proprio con le riforme, a partire da una maggiore democratizzazione che ha cambiato l’equilibrio del potere. Non è dipeso dalle classi superiori illuminate. Ma dalle proteste e dai tentativi della classe dominante di fermarle con i massacri. Quando i media hanno iniziato a mostrare i massacri, il consenso della popolazione verso i dimostranti è aumentato. I massacri si sono quindi fermati e questo ha portato allo sviluppo dei sindacati e a un cambiamento della organizzazione del lavoro. C’è poi stato pure un cambiamento tecnologico e un cambiamento dell’istruzione e della formazione, con nuovi lavori e nuovi settori. Dunque, con la pressione sociale e dei media, con la democrazia, i mercati possono essere incanalati e regolati, lo sviluppo migliora e i guadagni possono essere condivisi. Potrei moltiplicare questi esempi, non solo per il Regno Unito ma anche per molti altri paesi, gli Stati Uniti, l’Europa continentale. In tutti i casi vediamo risposte della società civile alle disuguaglianze. Ovviamente bisogna sperare che la democrazia funzioni. E sono d’accordo sul fatto che la democrazia è in crisi. E se la democrazia crolla ovviamente dobbiamo dimenticare tutto questo. E allora sarei d’accordo con Emiliano: stiamo arrivando all’inferno.”

Anche di questi ultimi rilievi di Acemoglu, Brancaccio propone una chiave di interpretazione ben precisa, radicata nel suo metodo storico-materialista: “Condivido molto la riflessione di Daron sul rischio che soggettivamente il ricercatore, lo scienziato, l’intellettuale, diventino vittime del loro tempo, cioè vengano resi miopi dal momento storico in cui vivono. In questo senso è interessante il cenno all’Inghilterra del 1821, che ai contemporanei sembrava indicare una prospettiva distopica e invece, dopo alcuni anni, le condizioni di lavoro e di vita sono migliorate. Ma Daron segnala pure che il passaggio dalla distopia al progresso si è verificato a seguito di tante, durissime lotte sociali. Sotto questo aspetto, mi sembra che nel ragionamento di Acemoglu riecheggi un concetto ben noto, chiaramente espresso nel Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels: la storia dell’umanità è storia di lotte di classe”.

La dipendenza dei pensieri e delle azioni individuali dal processo storico e dai rapporti tra le classi sociali che si determinano in ogni sua fase, viene ribadita da Brancaccio anche riguardo alle decisioni politiche. “Credo pure che il rischio di essere vittime del proprio tempo riguardi non solo gli scienziati ma anche i politici. Acemoglu prima ha detto di non voler incolpare i leader che hanno tradito le istanze della socialdemocrazia. Ecco, io forse li incolpo un po’ di più. Per esempio, ho una pessima opinione di quei leader che hanno avallato alcune iniziative militari giustificate dall’alibi folle di ‘esportare la democrazia’ nel mondo. Però, credo pure che in effetti il problema di fondo non sia quello di ‘incolpare’. Non è una questione di colpa, perché l’azione dei leader politici non è mai una questione soggettiva. La verità è che ogni esponente politico è frutto dei processi oggettivi che maturano nel suo tempo. Possiamo dire che la Storia sceglie di volta in volta le comparse che devono rappresentarla in ciascun momento. Sto utilizzando anche qui una tipica chiave interpretativa marxiana”.

Il riferimento di Brancaccio è chiaramente al marxismo althusseriano, della Storia come processo senza soggetto. E’ un metodo che notoriamente va contro ogni idea di destino inesorabile, sia in senso positivo che negativo. E quindi non esclude il concetto di ‘controfattuale’ di Acemoglu, cioè l’idea che esista una possibilità politica diversa rispetto alle tendenze in atto. Ma questa possibilità non può nemmeno essere semplicemente il frutto di una presa di coscienza soggettiva dell’esistenza delle “giuste” soluzioni possibili rispetto alle soluzioni “sbagliate” effettive, come talvolta Acemoglu sembra tratteggiare. Piuttosto, Brancaccio applica il metodo del marxismo althusseriano per cercare di capire quali gigantesche leve politiche siano necessarie per creare effettivamente la possibilità di un bivio, di un crocevia nelle tendenze della Storia. Qui viene in aiuto il nodo prospettico fondamentale, che l’economista italiano ha bene espresso nel suo Catastrofe o rivoluzione[6]. La tendenza verso la centralizzazione del capitale ha due caratteristiche: da un lato accresce i rischi di catastrofe democratica e dei diritti, ma dall’altro determina anche polarizzazione tra le classi sociali e uniformizzazione della classe lavoratrice. Secondo Brancaccio, queste due implicazioni contrastanti creano contraddizioni di tale portata da mettere sempre più in crisi i meccanismi di regolazione del capitalismo di mercato, e per questa via potrebbero favorire la riapertura della contesa principale, quella della pianificazione collettiva. Per Brancaccio, infatti, è questa l’unica leva in grado di torcere nuovamente il movimento storico verso il progresso sociale e civile.

Ma esistono davvero le condizioni per riaprire un dibattito sul piano collettivo? La risposta di Brancaccio è affermativa, e rappresenta anche un’implicita replica alla diffidenza di Acemoglu verso la pianificazione: “A proposito degli elementi che maturano nel corso della Storia, sappiamo che in epoche di crisi tumultuose come questa, talvolta accade che i tempi diventino maturi per superare alcuni tabù ideologici. Un tipico tabù è la pianificazione collettiva. Questa ipotesi di organizzazione dell’economia è stata associata a esperienze ormai definitivamente superate. A me piace notare, tuttavia, alcuni fatti correnti che vanno contro questa narrazione. Ad esempio, prendiamo l’attuale comportamento delle banche centrali. E’ evidente che stanno facendo i ‘market makers’, nel senso in cui lo intendeva Paul Davidson. Ossia, le banche centrali stanno governando il mercato, lo stanno disciplinando. In modi per certi versi discrezionali, stanno decidendo cosa acquistare e cosa non acquistare, quali titoli comprare e quali vendere, e al limite chi far sopravvivere e chi far fallire. Ecco, in questo comportamento dei banchieri centrali io vedo i prodromi di una pianificazione. Non so se questo sia indicativo di una grande svolta rivoluzionaria imminente. Ma credo che rifletta la grande turbolenza e anche la grande confusione ideologica di questo tempo. Perché, se qualche elemento di pianificazione, sia pure sotto traccia, comincia ad affiorare persino al centro del sistema, ovvero nell’azione delle banche centrali”, e questo avviene proprio allo scopo di salvare il sistema, allora il contrasto tra i fatti e la narrazione può risultare così insopportabile da mettere in crisi i vecchi tabù e aprire la via a nuove possibilità.

Brancaccio conclude: “Come direbbero i cinesi, questi potrebbero rivelarsi tempi interessanti”. Un finale aperto, al tempo stesso promettente e inquietante. I cosiddetti ‘tempi interessanti’, nella tradizione cinese, possono infatti presagire il bene o il male, a seconda delle circostanze. Ancora una volta un crocevia, una potenziale biforcazione nelle leggi di tendenza del capitalismo. Ancora una volta, catastrofe o rivoluzione.

[1] Tra i contributi in tema, si veda: Brancaccio, E., Giammetti, R., Lopreite, M., Puliga, M. (2018). Centralization of capital and financial crisis: a global network analysis of corporate control. Structural Change and Economic Dynamics, Volume 45, June, Pages 94-104; e Brancaccio, E., Fontana, G. (2016). ‘Solvency rule’ and capital centralisation in a monetary union, Cambridge Journal of Economics, 40 (4). In italiano, si vedano anche: Brancaccio, E., Giammetti, R. (2019). Un Marx per soli ricchi. In Mocarelli L., Nerozzi S. (a cura di), Karl Marx fra storia, interpretazione e attualità (1818-2018), Nerbini, Firenze; Brancaccio, E., Cavallaro, L. (2011). Leggere il capitale finanziario. Introduzione a Hilferding, R., Il capitale finanziario. Milano, MIMESIS Edizioni.

[2] I testi dei dibattiti con Lorenzo Bini Smaghi, Romano Prodi, Mario Monti e Olivier Blanchard sono riportati in: Brancaccio, E. (2020). Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, Meltemi. Il dibattito con Giovanni Tria, Elsa Fornero, Gad Lerner, Pasquale Tridico, Gerardo Canfora, Massimo Squillante, organizzato dall’Università del Sannio, è riportato al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=Ghi-o0CIJXQ.

[3] Il dibattito tra Daron Acemoglu ed Emiliano Brancaccio è riportato al seguente link della Fondazione Feltrinelli: https://www.youtube.com/watch?v=S6h96XaXdkA&t=1s.

[4] Acemoglu, D., Robinson, J. (2005). Economic Origins of Dictatorship and Democracy, Cambridge University Press.

[5] Acemoglu, D., Robinson, J. (2015). The rise and decline of general laws of capitalism. Journal of Economic Perspectives, 29, (1), pp. 3-28.

[6] E. Brancaccio Catastrofe o rivoluzione. «Il Ponte», n. 6, novembre-dicembre 2020. Ora anche in: Non sarà un pranzo di gala cit.