di Giancarlo Scarpari

Alcuni deputati all’Assemblea costituente avevano coltivato ed elaborato un progetto ambizioso, quello di dar vita non a un semplice Stato di diritto (tripartizione di poteri, pesi e contrappesi istituzionali, rappresentanza tramite elezioni, diritti di libertà, ecc.), bensì a uno Stato sociale di diritto, una repubblica, cioè, che non si limitava ad assicurare a tutti l’eguaglianza formale davanti alla legge, ma che assumeva su di sé il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitavano, di fatto, la libertà e l’eguaglianza dei cittadini.

Questa proposta, elaborata da Lelio Basso e formalizzata nel capoverso dell’art. 3, costituiva dunque un impegno rivolto al presente e soprattutto al futuro; introduceva, nell’architettura liberale delle istituzioni del nuovo Stato, un vincolo per governo e parlamento diretto a rimuovere, progressivamente, storiche ineguaglianze e rendere così finalmente concreti quei principi di una democrazia formale destinati altrimenti a rimanere sulla carta. Ma questo impegno, come fu approvato, fu subito disatteso.

Nettamente contrari a questa norma si dichiararono i giuristi del “partito romano”, allora egemone in Vaticano, che, chiedendosi allarmati con padre Messineo «quali fossero gli ostacoli di ordine economico e sociale che la Repubblica ha il compito di rimuovere», paventavano che alcune forze politiche potessero individuare tra questi ostacoli la proprietà e la religione, sì da spalancare, con questa norma così interpretata, le porte a un vero e proprio «totalitarismo di Stato».

Usarono accenti diversi, ma non per questo meno decisi, i vertici giudiziari dello Stato italiano ereditato dal fascismo, che con la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, a distanza di un mese dall’entrata in vigore della Carta, delegittimarono in radice questa e gran parte delle norme della Costituzione, definendole meramente programmatiche e quindi, di per sé, prive di qualsiasi efficacia. Proseguendo in questa direzione altre sentenze, negli anni immediatamente successivi, stabilirono non solo che non vi era l’obbligo per la Repubblica di promuovere forme di eguaglianza sostanziale, ma neppure quello di rimuovere la legislazione repressiva della dittatura fascista.

Così, utilizzando i grandi spazi consentiti dalla guerra fredda per congelare la Costituzione, i governi centristi di De Gasperi e Scelba se non realizzarono la Repubblica cristiana auspicata dal “partito romano”, dettero vita, più prosaicamente, a una Repubblica a forti tinte confessionali, destinata a caratterizzare tutti gli anni cinquanta e a lasciare molti detriti anche nel decennio successivo.

Dopo il 1960, con il primo centrosinistra e con la stagione delle progettate riforme, si tornò a evocare l’art. 3 capoverso; e anzi, quest’articolo, per i giuristi democratici, divenne la chiave di volta per interpretare la Costituzione, per far dichiarare illegittime le leggi fasciste sopravvissute e per promuovere e radicare nell’ordinamento nuovi diritti più o meno efficacemente tutelati: quelli dei lavoratori (Statuto, riforma delle pensioni, scala mobile rinnovata, legge sulla parità), dei cittadini (divorzio, legge sull’aborto, riforma del diritto di famiglia) e degli “invisibili” ( riforma delle carceri e degli ospedali psichiatrici). Nuove forme di democrazia sostanziale per qualche anno tornarono a essere un obiettivo verso cui le forze di sinistra dichiararono di indirizzare impegni e progetti.

Quando però cominciò a soffiare il vento del neoliberismo e il centrosinistra si presentò negli anni ottanta come il governo del CAF, quella fase fu rapidamente archiviata, l’art. 3 capoverso rimase la stella polare solo per una ristretta schiera di giuristi, la democrazia divenne un concetto da interpretare restrittivamente e Bobbio declinò le regole di una democrazia “realistica” e cioè quella procedurale. Basata questa non sui diritti sociali, ma su quelli politici e questi di fatto rappresentati dal diritto di voto, attribuito a un «cittadino liberamente informato», in grado perciò di scegliere «in una libera gara, tra gruppi politici organizzati in concorrenza tra loro», attraverso elezioni in cui doveva prevalere il candidato con «il maggior numero dei voti».

Bobbio forniva una nozione descrittiva e non certo prescrittiva della democrazia. Quella definizione indicava le regole del gioco, il metodo per addivenire alla «scelta dei capi», stabiliva chi e come doveva decidere, ma non garantiva affatto il buon esito della scelta; lo stesso Bobbio avrebbe poi aggiunto che senza un ideale egualitario in grado di ispirare i governanti, la democrazia sarebbe risultata «un nome vano». Ma questa integrazione fu ignorata, il ceto politico e i media apprezzarono invece la valenza riduttiva di quella definizione, la fecero propria e la democrazia procedurale divenne per i più la sostanza esaustiva della democrazia tout court.

Questa formula prevedeva comunque partiti e programmi; ma quando i primi cominciarono a ridursi alle figure del leader e i secondi evaporarono sempre di più con la sostituzione della propaganda ai progetti, anche la valenza virtuosa del processo elettorale cominciò ad appannarsi.

La manifestazione più clamorosa di questo cambio di paradigma si verificò, non a caso, quando il partito padronale e mediatico di Berlusconi, inventato tre mesi prima delle elezioni, formò un’alleanza di sedicenti liberali con postfascisti e secessionisti padani, una coalizione all’evidenza improbabile, ma che la maggioranza di destra del paese portò al successo col “programma” di «sbarrare la strada al pericolo comunista». Il padrone delle televisioni private occupò, col suo primo atto di governo, anche la dirigenza di quella pubblica, dando così un formidabile contributo alla trasformazione del cittadino nel teleutente e del politico nel personaggio fisso dei talk show: a ciò si accompagnarono la svalutazione progressiva del partito tradizionale (diventato, al confronto, una macchina ormai obsoleta per la raccolta dei voti), la conseguente personalizzazione delle elezioni e l’uso quotidiano e ossessivo dei sondaggi per decidere cosa dire e fare.

Il passo conseguente fu la politica delle bandierine, che questi partiti di nuovo conio presero a coltivare per poter essere identificati e seguiti dagli elettori di riferimento; l’esito più emblematico di questa nuova politica fu l’approvazione delle leggi simbolo dei quattro partiti della coalizione guidata da Berlusconi nella XIV Legislatura: la riforma “impiegatizia” dei giudici voluta dal premier, la legge sulla droga di Fini e Giovanardi, la “secessione leggera” della devolution pretesa dalla Lega Nord: tre leggi disorganiche, semplici oggetti di scambio tra i partiti, necessarie peraltro per confermare il patto di potere e sostenute dal mutamento delle regole del gioco: da una riforma elettorale, il Porcellum, volta a rendere difficile l’affermarsi pieno di una diversa maggioranza ( una variante distorsiva della funzione del voto) e, soprattutto, da una riforma che cancellava 50 articoli della Carta e che stabiliva un rapporto di dominio esclusivo tra il primo ministro e la maggioranza della Camera da lui designata: una soluzione, questa, che rendeva praticamente irrilevante le prerogative concesse all’opposizione.

La democrazia procedurale, in un contesto così determinato, rivelava in tal modo tutta la sua intrinseca fragilità: una maggioranza parlamentare regolarmente eletta aveva varato una legge che svuotava la Costituzione, tutto si era svolto secondo le regole, ma il risultato finale era stato semplicemente eversivo dell’ordine costituito (e solo in extremis e solo dopo la sconfitta di Berlusconi alle elezioni, il referendum popolare avrebbe cancellato quell’esito infausto). Lo scampato pericolo per le istituzioni non indusse allora riflessioni di sorta, anche perché, nel frattempo, la minoranza era diventata maggioranza.

Nel frattempo quel modello – che per funzionare in modo virtuoso prevedeva, oltre ai partiti e ai programmi, anche un elettore “informato” – era però andato in crisi da tempo anche sotto quest’ultimo profilo.

Il processo costitutivo dell’opinione pubblica, infatti, con l’avvento della videocrazia, prima, e con la comunicazione veicolata sui social, poi, era stato sottoposto a sollecitazioni tali da divenire esso stesso un problema: se, come già avvertiva Sartori alla fine del secolo scorso, la televisione produce immagini e cancella i concetti e i video-giochi allevano «l’uomo che non legge», il flusso di notizie contrastanti e inverificabili che ora incontra il comune navigatore in rete rende sempre più incerti i confini tra il reale e il virtuale, tra il vero e il falso. L’eccesso di informazioni non è formativo, la parola è comprensibile solo per chi la può capire, l’opinione pubblica diviene liquida e ondeggiante. Uno scenario del genere favorisce perciò le avventure in politica.

Dell’imprenditore piduista che in tre mesi diviene presidente del Consiglio già si è detto. Del politico che a Bruxelles veniva definito un “fannullone” e che in Italia ha fatto invece lievitare i consensi attorno a sé a oltre il 30% solo perché ha «difeso il paese dall’invasione degli immigrati», si è parlato diffusamente altre volte. Ma prima di lui un altro “avventuriero” era sceso in campo, affermandosi in un partito in via di dissoluzione, con l’annuncio di volerlo rilanciare nel mercato politico, rottamando quei dirigenti che «non vincevano mai». Sostituendo la contrapposizione di Bobbio (destra-sinistra) col più innocuo binomio (vecchio-nuovo), più spendibile sui social, Matteo Renzi entrava agilmente nel mondo della comunicazione con slide, battute e slogan e, soprattutto, in quello degli imprenditori, dei professionisti e delle partite Iva, conquistati dalla battaglia da lui dichiarata contro il “vecchio” e cioè la dirigenza Ds e la Cgil, simboli di una sinistra da sempre poco apprezzata in quegli ambienti.

Coloro che possedevano giornali, televisioni (e altro) e i loro opinionisti hanno perciò appoggiato convinti l’ascesa del “rottamatore”: Panebianco sul «Corriere» ha salutato il nuovo segretario del Pd affermando che, finalmente, oggi il Pci è davvero finito; “«la Repubblica»” di De Benedetti ha improvvisamente “abbandonato” Bersani per il nuovo astro sorgente; tutte le tv hanno accolto ed esaltato il nuovo “grande comunicatore”. Renzi, in vista delle elezioni europee, dopo aver scalzato Letta, ha varato con Poletti una legge volta a rendere ancora più precario il contratto a termine (e Sacconi ne ha rivendicato la primogenitura), ha nominato Guidi, già dirigente di Confindustria, al ministero dello Sviluppo e ha esaltato a più riprese l’opera di Marchionne.

Vecchi elettori del Pd, ormai esausti, credono ora di trovare una nuova identità nella politica spumeggiante di questo giovane che promette loro la vittoria; molti altri elettori di centrodestra, condividendone, invece, le politiche concrete, lo votano in massa alle elezioni europee e così tutti insieme, supportati a gran voce dai media, che ben ne colgono la valenza, lo portano a un successo clamoroso, con oltre il 40% dei voti.

Queste elezioni rivelano un’ulteriore aporia della democrazia procedurale: la competizione riguarda l’Europa, ma, al di là della dichiarata contrapposizione tra chi è pro e chi è contro l’Ue, i partiti che chiedono il voto agli elettori non hanno programmi concreti da far valere a Bruxelles; il loro scopo precipuo è quello di misurare il grado di consenso che ciascuno di essi può vantare, per poterlo subito spendere nel mercato politico nazionale: tra l’obiettivo dichiarato e il fine perseguito si crea, visibile, una sfasatura, che muta il senso della stessa scadenza elettorale.

In questo momento, il potere di Renzi raggiunge il massimo, tanto che straparla di un Partito della nazione e, per durare, include nel governo la destra di Alfano e vara una nuova legge elettorale. Ma quando progetta di riformare anche la Costituzione, coloro che hanno già ottenuto la pratica abolizione dell’art. 18 dello Statuto e la libertà di licenziamento per i nuovi assunti si ritengono soddisfatti dei risultati conseguiti e con la stampa e le televisioni di supporto tornano ai vecchi referenti, iniziando a sgonfiare la bolla che avevano creato attorno allo statista di Rignano (e il teleutente ora è spinto a scorgere nel grande comunicatore il bulletto inventato da Crozza); Renzi fa il resto, personalizzando al massimo il referendum e ricompattando così contro di lui una destra già disgregata e in difficoltà.

Non più sostenuto dall’onda mediatica, perde nettamente il referendum del 4 dicembre 2016; lungi dal ritirarsi, come annunciato, si dedica al partito, puntando sulla fedeltà più che sulle competenze, ma gli entusiasmi si sono spenti, i delusi di sinistra lo abbandonano e i nuovi arrivati da destra sono tornati a casa: la caduta del Pd continua e il 4 marzo 2018 i candidati di Renzi dimezzano i precedenti consensi del partito, portandolo al di sotto della soglia del 20%; in compenso, il restante elettorato in parte si ridistribuisce a destra, rafforzando la Lega a scapito di Forza Italia, ma in massa si schiera con il M5S, soprattutto nel Centro-Sud e nei collegi uninominali, attratto da nuove soluzioni che annunciano un’improbabile democrazia diretta e un reddito di cittadinanza interpretabile a seconda delle convenienze.

Il voto del 2018 registra la crisi del sistema: documenta le profonde oscillazioni che scuotono l’elettorato, che continuano, e anzi si intensificano, dopo le elezioni (col travaso di consensi, in un solo anno, dal M5S alla Lega); e ribadisce, ancora una volta, l’inutilità dei “programmi” sbandierati, come platealmente dimostra l’accordo di governo concluso tra M5S e Lega, le cui propagande erano profondamente diverse e, sotto alcuni profili, addirittura opposte.

Anche in tale occasione, per durare nel tempo, i contraenti sono ricorsi allo scambio politico, basato su eterogenee bandierine (il reddito di cittadinanza, per l’uno, il contrasto agli extracomunitari, per l’altro); ma l’arroganza e l’insipienza di Salvini e l’imprevista, ferma, opposizione di Conte al suo proclama sui “pieni poteri”, portano alla rottura della coalizione; il primo a cogliere l’occasione è il senatore di Scandicci, che offre al M5S, al Pd e a LeU la prospettiva di formare un governo comune per portare a termine la legislatura e partecipare, da protagonisti, all’elezione del prossimo capo dello Stato.

La crisi del sistema si approfondisce ulteriormente con una variante inedita: oltre a dar vita alla seconda edizione di un governo sostenuto da formazioni politiche contrapposte, dedite all’insulto reciproco sino al giorno prima, questa torsione registra la conclusione di un patto, che tutto sorregge, volto a escludere l’eventualità di elezioni politiche almeno sino al 2022, quando appunto si dovrà scegliere il successore di Mattarella. Per cementare l’accordo politico si è così, in via preventiva, disinnescato il principale strumento della democrazia procedurale, che ora, per i contraenti, diviene addirittura una minaccia; e questa si ingigantisce per quei nominati, una volta che viene varata la legge sul taglio dei parlamentari, cosa che rende assai problematica la loro futura ricandidatura alle Camere.

Blindata in tal modo la prima parte della legislatura, Renzi, il giorno dopo la costituzione del governo, ottenuti due ministeri, esce dal Pd, portando con sé 24 deputati e 13 senatori, ma lasciando varie mine vaganti all’interno della compagine parlamentare (del resto in gran parte da lui nominata); e, sin da subito, inizia una guerriglia contro il M5S, alla ricerca di tutti i temi che potevano essere divisivi (la riforma della prescrizione, innanzitutto).

Poi arriva, non prevista, la variabile Covid e una tragica realtà – decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di ammalati – fa irruzione nel mondo piatto e opaco di questa politica, costringendo ciascuno ad assumersi le proprie responsabilità. Altrove abbiamo indicato le modalità con cui l’ opposizione di destra ha dato, in questa occasione, la peggiore prova di sé, attaccando l’Ue e auspicando quotidianamente la caduta del presidente del Consiglio nel momento stesso in cui stava trattando gli aiuti a Bruxelles (un penoso rilancio del “tanto peggio, tanto meglio”); e sottolineato, di contro, i risultati positivi (inaspettati, date le premesse) ottenuti dal governo Conte, supportato dall’asse Gualtieri-Gentiloni, che in Europa è riuscito a cementare alleanze, ha contribuito a imprimere un cambio di rotta nella distribuzione delle risorse e ha ottenuto, per l’Italia, tra prestiti e stanziamenti a fondo perduto, 32 miliardi per le imprese, 20 miliardi per chi perdeva il lavoro e ben 209 miliardi del Recovery Fund.

La pandemia ha inciso profondamente sulle altre abituali forme della democrazia procedurale (l’attività del parlamento e l’iter formativo delle leggi in particolare), consentendo al presidente del Consiglio di conseguire un’anomala centralità istituzionale e mediatica con una produzione normativa attraverso Dpcm delegati. I sondaggi ne hanno registrato una rapida crescita dei consensi, alimentando, al contempo, un’ostilità crescente nei suoi confronti da parte dei politici messi in ombra; la diminuzione estiva dei contagi ha suscitato un’improvvida, generale, euforia, che ha condotto il governo a sottovalutare i rischi della “seconda ondata”, pur ampiamente annunciata (molti rilievi su questi “ritardi” sono risultati fondati, anche se non tutti i critici – alcuni dei quali inneggiavano in agosto ad “aprire tutto” – avevano le carte in regola per farle).

Ma è stato quando in autunno si è cominciato ad affrontare il Piano da presentare in Europa per allocare le risorse assegnate in estate, che l’opposizione al governo Conte sui media è diventata diffusa, facilitata dall’incertezza oggettiva creata da una situazione sanitaria grave e cangiante, che rendeva difficili le previsioni e agevoli le critiche ex post (incertezza alimentata anche dall’intreccio venutosi a creare tra le competenze del governo, delle regioni e dei Tar); l’opposizione si è poi trasformata in un coro assordante quando la critica rivolta da Bonomi a Conte di non avere “una visione” è stata ripresa da più parti, diventando un luogo comune (la visione ritenuta necessaria era quella di versare “incentivi” a fondo perduto alle imprese, mentre i modesti sostegni distribuiti ai milioni di persone in stato di povertà avevano trasformato il paese, secondo il lessico sprezzante del rappresentante della Confindustria, in una sorta di «Sussidistan»).

I 38 miliardi di euro, invece, che questo governo “ostile” aveva già erogato, in pochi mesi, alle imprese come «saldo netto da finanziare», evidentemente a Bonomi sono sembrati poca cosa rispetto al “tesoro” di 209 miliardi che le varie lobbies ora avevano fretta di spartirsi secondo i criteri tradizionali. Ed è a questo punto che Renzi, come sempre interprete di questi animal spirits, entra rumorosamente in campo, pronto a dare battaglia su tutto pur di cambiare il governo, sostenuto nuovamente dalla grancassa dei media e garantito dal patto del “non voto” concluso a suo tempo, favorevole perciò alle più spericolate manovre.

Così, accreditato di poco più del 2% di consensi, nel mese di dicembre dilaga su giornali e televisioni e, con 26 interviste e 4 ore di apparizioni in video, supera di gran lunga la presenza mediatica di ogni altro politico, persino di Salvini, ancora in ottobre il più gettonato (!); e può così portare a termine la campagna d’inverno contro gli alleati di governo, rimasti, per conto loro, troppo a lungo incerti e passivi; campagna culminata, a gennaio, con la rappresentazione televisiva delle dimissioni delle ministre e l’attacco personale indirizzato a Conte, accusato dallo statista di Rignano di essere un “vulnus” per la democrazia (sic!).

Subito dopo Renzi innesta una retromarcia («parliamoci»), alternandola con battute provocatorie («volete Mastella?»); la destra, che è tornata a vezzeggiarlo e che lo usa come un ariete contro il governo, lo sostiene in forme varie («Renzi ha fatto anche cose buone»), sorvola sull’oscenità dell’operazione (una crisi politica “al buio”, prodotta per interesse personale nel bel mezzo di una crisi sanitaria e sociale devastante) e “si indigna” per la compravendita dei senatori, prassi peraltro instaurata e ben accetta da quel settore politico quando a guidare il mercato, anche con moneta sonante, era il loro premier, Silvio Berlusconi.

Ma tant’è. Conte si presenta in parlamento, ignora la figura di Renzi, ma non la gravità del suo operato: chiude al senatore di Scandicci, rivendica acriticamente l’azione del governo, incassa il consenso più o meno convinto delle altre componenti della coalizione, invoca il soccorso esterno («aiutateci»), rivolgendosi ai parlamentari «liberali, popolari, socialisti, europeisti» (poco più di un eufemismo) e offre loro la prospettiva di una legge elettorale proporzionale.

Renzi, per evitare defezioni e misurare le altrui debolezze, blinda il gruppo, decidendo per l’astensione. La spallata non riesce, il governo ottiene la maggioranza assoluta alla Camera, quella relativa al Senato. I soccorsi sono giunti alla spicciolata, come singoli e non nella forma auspicata di un nuovo gruppo parlamentare. Renzi, abbandonato da ultimo anche da Nencini, termina la sua parabola minacciando di votare con Salvini e Meloni nelle commissioni parlamentari («io all’opposizione mi diverto», ha commentato col suo solito stile).

Questo passa il convento: le regole della democrazia procedurale sono state rispettate; l’esecutivo non deve dimettersi; rimane il dubbio di fondo: potrà anche governare? e se sì, con quali risultati?