Lanfranco Binni, Riccardo Bocco, Wasim Dahmash e Barbara Gagliardi
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Il rosso del sangue versato nelle lotte di liberazione, il nero dei lutti, del dolore, della tristezza sotto l’occupazione israeliana, il bianco di una pace antica e ingiustamente negata, il verde della fertile terra di Palestina. I colori della bandiera palestinese narrano una storia e vivono nel vento di un discorso reale. Quei colori segnarono le prime bandiere della rivolta araba contro il dominio turco-ottomano tra 1916 e 1918, e furono poi ripresi dalle bandiere del panarabismo socialista Baath in Iraq e in Siria. Oggi, nei paesaggi devastati del Medio Oriente, culla di civiltà umana dove sembra concludersi in tragedia una storia millenaria che è stata madre della stessa Europa, quei colori resistono e insistono nella prigione a cielo aperto di Gaza e nei territori occupati dall’espansionismo dello stato ebraico di Israele.
La tragedia del popolo palestinese, dalla Nakba (la catastrofe) del 1948 a oggi, è lo scenario contraddittorio e lacerante di un’apparente sconfitta storica ma anche di un cambiamento in atto del paradigma della grande stagione dei movimenti di liberazione negli anni sessanta-settanta del Novecento. Come risulta dai numerosi contributi a questo numero speciale del «Ponte», i «palestinesi» costituiscono oggi uno straordinario laboratorio a cielo aperto in cui confluiscono e si rilanciano processi politici di tipo nuovo, “dal basso”, in verticale nella vita quotidiana dei palestinesi occupati, imprigionati e rifugiati, e in orizzontale nella diaspora internazionale. Nuovi temi sono oggetto di elaborazione teorica e di azione politica e culturale: la questione identitaria vissuta come radice storica profonda, base necessaria di processi conoscitivi ed educativi, la questione culturale come strumento indispensabile di autonomia e relazione con altre culture, la questione dei femminismi nelle società patriarcali, la questione democratica come terreno di confronto con i poteri politici e militari, la questione della violenza e delle pratiche nonviolente, la questione del confronto tra laicità e fondamentalismo religioso, la questione demografica come prospettiva di reale e concreto cambiamento nelle relazioni con la stessa popolazione ebraica.
Forte delle sue diverse esperienze storiche e attuali, il laboratorio palestinese costituisce oggi un laboratorio centrale nell’attuale fase di necessario e radicale cambiamento dei nostri modi di vedere la storia, i rapporti di potere, la pace e la guerra, gli imperialismi, i collaborazionismi, la subalternità ai poteri di pochi contro i molti. Da dove nasce questo laboratorio di nuova consapevolezza? Certamente dalla durezza di una vita quotidiana impossibile, in condizioni di apartheid e pulizia etnica nei territori occupati e a Gaza, nei campi profughi nei vari paesi del Medio Oriente, nello stigma del “palestinese” sconfitto nei media occidentali; e queste condizioni sono reali.
Ma la tradizionale resistenza dei palestinesi, vittime di una storia profondamente ingiusta e tutta occidentale, ha oggi un suo doppio: la potenziale autoliberazione dai vincoli di un confronto ineguale e speculare con un potente carnefice prigioniero del suo ruolo di carceriere, attuando pratiche di autorganizzazione e autonomia che costruiscano una nuova forza sociale e una nuova narrazione del proprio percorso di liberazione, su un terreno proprio e con forti relazioni con quei movimenti che in tutto il mondo stanno reagendo alle catastrofi di una storia che gronda sangue e che sta distruggendo il pianeta. Su questo terreno i palestinesi possono oggi svolgere un ruolo di avanguardia, forti della loro cognizione del tragico e della loro vitale necessità di una vera liberazione, non solo dall’occupazione israeliana.
L’occupazione israeliana, con le sue strategie genocidiarie (moltiplicazione delle colonie di insediamento, arbitrarie detenzioni amministrative, apartheid all’interno di Israele e nei territori occupati, terrorismo poliziesco quotidiano a “educazione” dei giovanissimi e dei bambini, il muro di separazione, le continue aggressioni dei coloni israeliani, e l’elenco sarebbe lungo), è anche un problema internazionale. I palestinesi tengono aperta “la contraddizione” con le loro lotte di resistenza, ma non sono soli. Le loro ragioni sono condivise e sostenute da vaste aree di opinione pubblica internazionale; le campagne BDS (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) per colpire le politiche dei governi israeliani e aprire conflitti economici nella stessa società israeliana, sono un segno concreto di solidarietà attiva con la causa palestinese. Vanno nella stessa direzione le tante forme di sostegno dell’attivismo internazionalista dirette ai palestinesi e tese ad orientare, con l’informazione e la pressione politica, i comportamenti dei governi nazionali.
Questo numero speciale della rivista vuole contribuire alla conoscenza della “questione palestinese” nei suoi termini attuali per promuovere nuovi studi, nuovi collegamenti e nuove iniziative di solidarietà e di lotta. Lo dedichiamo a Khalida Jarrar, deputata palestinese, storica attivista dei diritti delle donne e tra i dirigenti del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, detenuta “amministrativa” (cioè senza diritti e senza processo) in un carcere israeliano dal 31 ottobre, dopo essere stata imprigionata per venti mesi fino allo scorso febbraio, e a Gian Paolo Calchi Novati, profondo conoscitore della storia del Medio Oriente che nel 2002 aveva curato un numero speciale del «Ponte» dal titolo Una terra chiamata Palestina, e nel 2015 aveva inoltre curato, con Caterina Roggero, un altro speciale, La questione israeliana.