di Valeria Turra
Il risultato delle elezioni regionali in Umbria va sicuramente interpretato nella sua valenza specificamente locale come una insofferenza profonda a un malgoverno che verrà giudicato compiutamente nelle aule di più di un tribunale, ma acquisisce, per il quadro in cui de facto esse si situano, un valore politico generale, di formidabile vaglio collettivo di una scelta (quella assunta dal presidente della Repubblica, di non sciogliere le Camere dopo la crisi di governo innescata da Salvini, proprio perché il risultato atteso da una nuova consultazione non era quello desiderato dall’Ue e dal Vaticano, alla cui voce Mattarella è tutt’altro che sordo); di un’alleanza (quella fra due partititi prima avversari acerrimi, il Pd e il M5S), e di un tentativo finora riuscito di radicamento al potere (quello di “Giuseppi” Conte, figura di grottesco “doppio” euripideo rivisitato, con il suo voler essere sosia diverso di se stesso nel passaggio da Conte 1 a Conte 2 -che qualcuno non dica bis, rimarcando una continuità!: al 2 non essendo però legittimato che da quella prima esperienza di governo come “avvocato del popolo” con la Lega di Salvini, forse con troppa fretta accantonata). Dato che negli ultimi giorni di campagna elettorale alleanza e tentato radicamento hanno sfilato in Umbria, presumere di escludere la portata nazionale da queste elezioni sarà un tentativo tanto scontato quanto infelice, legittimato solo dalla prassi ormai consolidataci dalla permanenza in Europa, quella di non dare più peso alcuno allo scollamento fra volontà popolare ed eletti.
Cosa ci dice dunque questo voto? Almeno tre cose.
La prima, che il tentativo del cosiddetto governo giallorosso di trovare facile legittimazione diretta (cioè come governo in quanto tale, nato in contrapposizione a quello gialloverde), in una regione da decenni collocatasi a sinistra, è stato un grave errore di valutazione: è il fallimento del vessillo dell’antifascismo sventolato in assenza di fascismo, della demonizzazione del sovranismo trattato ipso facto come sentina di ogni disumanità e della mostrificazione della figura di Salvini condotta a oltranza. Gli umbri, dopo decenni di voto a sinistra, hanno dimostrato di non credere nell’indispensabilità del governo giallorosso contro il presunto pericolo fascista: la prospettiva di mettere in crisi il governo ancora in culla con il proprio voto seppure locale non li ha dissuasi, infatti, dal votare altrove.
La seconda, che da due partiti in crisi di consenso popolare, perché sempre meglio inseriti nel sistema dell’oligarchia finanziaria (cioè funzionali in toto alla globalizzazione di cui la Ue è uno dei dispositivi centrali, e che ideologicamente è sostenuta dal Vaticano con una ingerenza nella politica italiana che da tempo non ricordavamo), non può nascere ex abrupto un’alleanza nuova quindi alternativa, con presunzione di vittoria: perché la sola domanda che forse non ci si può non porre (alleanza alternativa a cosa?) è stata con tutta evidenza l’unica a non avere agitato abbastanza i sonni rispettivi del segretario e del capo politico (che peraltro avrebbero dovuto darsi risposte molto diverse seppur complementari, dato che, anche qualora avessero bevuto le acque della Dimenticanza, la disistima reciproca con tanta veemenza espressa negli anni non è cosa che gli elettori avrebbero potuto scordare nello spazio di qualche settimana).
Le macerie lasciate in Umbria (in senso letterale e figurato) erano tali e tante che il Pd è apparso semplicemente in cerca del primo salvagente alla portata per non affondare da solo sotto il loro peso (e la strategia in qualche modo ha addirittura funzionato, nonostante la sconfitta evidente e ammessa); il M5S si è con rara avventatezza accollato macerie non proprie pur di evitare di interrogarsi sui propri errori (uno per tutti, l’assenza di una linea politica, dato che a tutt’oggi è impossibile anche per i più volenterosi archeologi riconoscere nel Movimento i motivi che nel 2013 gli hanno consentito di entrare in Parlamento con una forza più che considerevole): e ha pagato fino in fondo l’infausta pensata.
La convinzione che fosse produttivo porsi in prima istanza come alternativi alla Lega, cioè al partito che, a torto o a ragione, riesce in questa fase a intercettare meglio di tutti gli altri la volontà di cambiamento radicale degli italiani (volontà che in tema di recupero di sovranità nazionale c’è e non può essere negata anche a prescindere dal nome e dalla collocazione politica che vogliamo darle), avrebbe funzionato solo se Pd e M5S avessero saputo proporre se stessi come alternativa più credibile della Lega a quel sistema (globalista) da cui in questa fase gli italiani si sentono (e sono) oppressi; ma dato che è proprio a quel sistema che i due partiti debbono invece la perpetuazione del loro potere in (inevitabile) assenza di riscontro elettorale, dobbiamo dire che la loro posizione era destinata strutturalmente a risultare minoritaria. Eppure il colpo inferto a se stesso da Salvini con la decisione di lasciare il governo gialloverde avrebbe lasciato a entrambi, Pd e M5S intendo, ampia possibilità di articolare una proposta alternativa a quella leghista insinuandosi nelle sue contraddizioni di struttura (l’impossibilità di conciliare la lotta all’immigrazione clandestina con gli interessi degli imprenditori che costituiscono, dato l’interclassismo, una delle basi storiche della Lega; la difficoltà di fare digerire l’autonomia differenziata a molte delle regioni italiane; la paura dei risparmiatori nei confronti delle fluttuazioni di borsa provocate da un governo eurocritico): le risposte avrebbero dovuto però non essere “di sistema”, e per l’attuale Movimento, oltre che ovviamente per il Pd, tentare di uscire dal sistema globalista è evidentemente diventato un’impresa impossibile. Ma su questo torneremo.
La terza, che la vittoria della destra è in realtà una vittoria dei cosiddetti sovranisti. Lega e Fratelli d’Italia arrivano da soli quasi al 50%, Forza Italia è un partito declinante che non sa ancora quale strada imboccare nel futuro. Non direi che il calo di Forza Italia produca uno sbilanciamento a destra di un centrodestra zoppicante: la figura di Berlusconi ha sempre avuto, a mio parere, le caratteristiche di una destra marcata. La Lega conferma in Umbria una forza di persuasione interclassista di cui Salvini stesso deve avere dubitato al momento di lasciare il governo gialloverde; Fratelli d’Italia, forse il vincitore vero delle elezioni, è un partito post-fascista che ha maturato negli anni lunghi dell’impresentabilità un volto riconoscibile nella coerenza a un programma che non è fascista ma appunto sovranista, e che per questo convince anche molti ex elettori di sinistra. Ora, la questione che si pone, a chi voglia tentare di comprendere razionalmente la natura delle forze in campo, è comprendere prima di tutto che cosa questi partiti intendano per sovranismo: la risposta data finora è contraddittoria e insufficiente.
Se per sovranismo intendiamo infatti un riferimento costante alla Costituzione del 1948 a partire dall’articolo 1, dovremo pensare a una sovranità che appartiene al popolo all’insegna della socializzazione dei mezzi di produzione e di contro a ogni centralismo (anche europeo) che privi i cittadini del controllo e della responsabilità di tali mezzi. In questo senso, il sovranismo si opporrebbe alla globalizzazione come a una fase specifica del capitalismo e cercherebbe, in un programma di governo nazionale, di pervenire per tappe a un risultato, che coinciderebbe in sostanza con una realizzazione piena del dettato costituzionale. In questo senso, il sovranismo non sarebbe cioè che una declinazione del socialismo, pervenuta a questa autodefinizione in risposta al centralismo Ue, così lontano dal sogno europeo originario.
È di tutta evidenza che il sovranismo costituzionale poco o nulla può avere a che fare con ogni tipo di destra (nemmeno, si badi bene, con quella destra de facto che un tempo era sinistra, e che oggi non considera più come proprio obiettivo combattere il capitalismo avendo anzi abbracciato proficuamente la globalizzazione: mi riferisco ovviamente al Pd e alle sue frantumazioni più o meno rientrate, ma anche al M5S, ormai gravitante in questa orbita).
Il governo gialloverde viveva di una dialettica sovranista parziale e irrisolta, in cui un partito del decentramento senza matrici nella destra più marcata e apertosi negli anni al voto operaio nonostante la base imprenditoriale minuta, com’è la lega, si confrontava con difficilissima sintesi con un partito nato essenzialmente come espressione della cosiddetta classe dei lavoratori precari (classe quanto mai eterogenea, ma pure non solo esistente ma numericamente rilevantissima, e prima senza voce): mi riferisco al M5S per come arrivato alle elezioni del 2013, e poi gradualmente spuntato delle asperità antisistema fino alla vittoria del 2018 e al suo progressivo snaturamento. Il paradosso di quell’esperienza è che mentre le due forze traevano reciprocamente quell’impulso a contrastare la globalizzazione che da sole non avrebbero probabilmente posseduto o saputo articolare, il presidente della Repubblica aveva già preventivamente minato ogni possibile elemento di novità (letta in chiave di recupero progressivo di qualche margine di sovranità popolare) blindando in chiave globalista i ministeri chiave, fino a svuotare di fatto le ragioni d’essere dell’alleanza, che appariva soprattutto nel versante “giallo” essere sempre più infiltrabile dalle sirene della (ben più comoda) normalizzazione nel sistema. Quel tentativo, se lasciato operare invece senza basto e mordacchia, e secondo la volontà degli elettori che sempre l’hanno sostenuto durante l’anno in cui si è dispiegato, ci avrebbe a mio parere risparmiato l’esperienza di un sovranismo di destra di cui al momento poco o nulla possiamo razionalmente prevedere e che le elezioni umbre hanno visto trionfare, nell’attesa del prevedibile riscontro in chiave di politica nazionale. Ci auguriamo sia sempre e fino in fondo rispettoso della Costituzione, più di quanto non lo sia stata la cosiddetta sinistra, che certamente avrebbe trovato in essa ragioni abbastanza forti per non smarrire il filo della propria storia, se solo avesse inteso recepirla nel suo significato più pieno.
Il modo in cui gli eventi si sono succeduti in quest’ultimo anno e mezzo dovrebbe avere insegnato che comprimere la volontà del popolo sovrano che si esprime nel voto, prima interferendo sulla direzione delle sue decisioni (il mai abbastanza studiato caso Savona) e poi tenendolo lontano quanto più possibile dalle urne, non fa che aggravarne i bisogni in una loro sostanziale negazione, quindi esasperarne le risposte reattive; per ora, la reazione all’esito del voto umbro da parte del presidente del Consiglio, che pure aveva cercato di intestarsi come premier di coalizione una eventuale vittoria, dimostra con il suo piglio troppo assertivo («non si tratta che del due per cento della popolazione italiana!») che la lezione non è stata invece compresa: non si profilano nuove elezioni politiche.
È difficile in queste ore prevedere cosa Di Maio elaborerà per evitare una emorragia ulteriore di voti al prossimo impegno elettorale, ritenuto comunque fallito e chiuso l’esperimento di alleanza con il Pd in chiave locale; più facile prevedere già oggi dalla sicumera ostentata dal premier che Conte tenterà di sfruttare a proprio beneficio la debolezza dei partiti che lo sostengono avvalorando sempre più il proprio potere come emanazione dalle sfere più alte (l’Ue e Mattarella) e “moralmente autorevoli” (Bergoglio: è in questi giorni rilanciata la notizia di un presunto conflitto di interessi di Conte a causa di una consulenza legale sull’investimento di fondi vaticani, ma la notizia non è ancora certa né precisata). Assisteremo così al profilarsi di un terzo “Giuseppi” dopo i primi due, ulteriore inveramento, suo malgrado, della necessità, destinata a palesarsi con evidenza sempre più estesa e che il popolo ha già testimoniato con il voto umbro, di ritenere che la riacquisizione di sovranità sia diventata ora in Italia la vera questione prioritaria?