Già abbiamo avuto occasione di scrivere, sulle pagine di questa rivista telematica, in merito al progetto pentastellato di riforma dell’istituto della prescrizione.
La prescrizione, quale rinuncia dello Stato alla potestà di pretendere e di eseguire una punizione penale, ha origini antiche, per poi rispondere a una definitiva conquista della modernità europea. Calamandrei ne colse l’essenza nel dire della dote principale del giudice, l’umiltà, come coscienza dell’insufficienza dello strumento giuridico e come opportunità di fissare legislativamente modalità e termini al corso della giustizia. Per intenderci: l’Etica e la Storia hanno la memoria lunga, non possono dimenticare; viceversa, l’esperienza del diritto risulta tanto più valida ed efficace, quanto più sa di essere, come la vita dell’uomo, a termine. Non a caso alle spalle delle procedure penali depauperate da confini cronologici stanno o il dogmatismo inquisitorio di matrice controriformistica, o un assolutismo statalistico che, nelle forme dell’imperialismo e del nazionalismo, fu nemico del pensiero di Cesare Beccaria e dello Stato democratico di diritto, che ne venne.
Appena un cenno di storia, con buona pace di chi si illude di poter cambiare il mondo senza ricorrere all’ausilio di questa “maestra di vita”. È il diritto romano che dapprima stabilisce, per giurisprudenza, confini temporali per le varie fasi del processo penale; poi, avvedendosi del pericolo di un’eccessiva prolissità delle cause, conferma limiti di legge invalicabili all’accusatore per esaurire l’attività istruttoria. Con Costantino si propose il termine di un anno; in un secondo tempo, con Giustiniano, lo si estese a due anni. L’esperienza classica aiuta nella riflessione politica, anche perché in essa si tende saggiamente a distinguere tra prescrizione del reato e prescrizione della pena inflitta: l’illecito si prescrive, ma la sanzione definitivamente irrogata deve essere scontata.
Non sorprende, allora, che il diritto barbarico ignori la prescrizione, fatte salve le rare eccezioni importate dal diritto romano. Altrettanto significativo è che il diritto penale della Chiesa cattolica disconosca la prescrizione, e ciò in ragione dell’impronta spirituale che l’ordine canonistico attribuisce al raggiungimento di una verità assoluta, a qualunque costo, fosse pure al prezzo di una confessione estorta. Qui giudice è il pontefice, o una figura giurisdizionale da questi delegata, che parla a nome di Dio, non già del popolo sovrano come la rivoluzione francese avrebbe imposto. I delitti contro la fede sono imprescrittibili ed è a una tradizione ermeneutica casistica e probabilistica che si affida il giudizio su fattispecie penali passibili di eccezioni.
Nell’ordine laico delle cose tutto ciò è impensabile, per violazione, tra l’altro, del principio della certezza del diritto. Lo sbiadirsi o la perdita della memoria di quanto è avvenuto a troppa distanza di tempo dalla commissione del reato rappresenta dato di fatto che un ordinamento a base democratica non può fingere di non vedere. Quello che accade al di fuori di quest’ordine pubblico è vendetta privata intollerabile o esercizio arbitrario delle proprie ragioni: ipotesi su cui già soffia oggi il vento della riformata normazione della legittima difesa.
Una siffatta impostazione culturale, allergica, da un lato, al dogmatismo clericale e, d’altro lato, all’assolutismo statuale, si riscontra anche nello spirito e nella lettera della nostra Costituzione repubblicana. In essa tutto depone, con particolare riscontro negli articoli 3, 27 e 111, per una concezione della sovranità che si traduce in ragionevolezza dell’azione penale e in eguaglianza non solo formale, di fronte alla legge, ma anche sostanziale, da intendersi nel senso della rimozione degli ostacoli che limitano lo sviluppo della personalità, dei cittadini. Su queste basi è da condividersi l’intervento di Tullio Padovani, che, in un’intervista a «Il Dubbio» del 1° novembre scorso, ha parlato, per il progetto di cancellazione della prescrizione, di uno «sgorbio che non può passare al vaglio di costituzionalità».
Il processo penale, rectius un processo penale civile e moderno, sorride all’idea dell’eternità. Ha bene a mente le furibonde invettive di Pascal all’indirizzo dei padri gesuiti. Correva in allora la seconda metà del Seicento, ma la nostra è evidentemente rimasta, per dirla con Salvemini, una repubblica papalina.
Bisogna equilibrare gli organici, integrando il numero dei magistrati ove sia necessario; bisogna sanzionare sul piano disciplinare i fannulloni; bisogna contenere gli abusi forensi, come si è fatto introducendo la sospensione del decorso del termine di prescrizione in ipotesi di rinvio chiesto dalla parte. Non serve demonizzare l’istituto della prescrizione.