Ottant’anni fa com’è tristemente noto l’Italia a eterna vergogna sua e nostra si dotò di un corpus normativo razziale che non a torto Michele Sarfatti ha da tempo osservato che sarebbe più giusto, corretto e veritiero definire «leggi antisemite».
“Leggi” per modo di dire, certo, ma che furono tremendamente e tragicamente efficaci pur costituendo la negazione in radice dell’idea stessa della legge, della Costituzione ancora formalmente vigente, del patto che con i plebisciti risorgimentali gli italiani avevano stretto tra loro e con la monarchia e del sentimento stesso della patria. Tutto fu spazzato via con la firma di un re che, come avrebbe osservato il monarchico Benedetto Croce chiedendone l’abdicazione, aveva barattato il suo titolo, legittimato dal moto risorgimentale, con la banda che con la sua compiacenza si era impadronita dello Stato.
Se le patrie muoiono, e possono ben morire essendo creazioni storiche e non certo divine istituzioni, la patria italiana morì non l’8 settembre 1943, quando anzi venne fatta rinascere con il forcipe del ferro e del fuoco della guerra civile e di liberazione, ma in quelle disonorevoli settimane autunnali del 1938, durante le quali il fascismo e il suo “palo” – il reuccio merovingio – attivarono la fabbrica degli orrori razziali.
E furono veramente quelli i giorni dell’odio e della rivelazione, del degrado morale dell’Italia e della dissoluzione di un popolo maggioritariamente consenziente e indifferente.
Furono i giorni in cui, per dirla con le parole di Carlo Emilio Gadda, «la Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia abbozzava: ingollava e defecava la legge. Una sorta sozza di bugia, una mentita senza scampo e senza riscatto veniva intessendosi e trapuntandosi».
Fu il tempo d’azione e micidiale effettività d’un marchingegno che ha disonorato il nostro paese – e della cui infamia nessuno può ricusare di portare l’eredità e il peso, nemmeno a così lunga distanza di tempo – stabilendo che l’Italia non esisteva più se non come espressione geografica; il tempo dell’«Anticristo», che «non viene tra noi, ma è in noi», come avrebbe scritto proprio Croce.
Spezzato il nesso tra il Risorgimento e la libertà, tra il Risorgimento e la Costituzione, tra patria e popolo, meticolosamente avviata la persecuzione degli italiani di origine ebraica che si sarebbe fermata solo oltre i cancelli e tra i camini di Auschwitz, una delle tante norme non aveva mancato di ricordarsi della cittadinanza concessa agli ebrei stranieri. E infatti l’art. 23 del r.d.l. 17 novembre 1938 n. 1728 stabilì che «le concessioni di cittadinanza italiana comunque fatte ad ebrei stranieri posteriormente al 1° gennaio 1919 si intendono ad ogni effetto revocate».
Molti, colpiti da quella iniqua disposizione, furono costretti o si costrinsero a lasciare l’Italia. Tra gli altri l’allievo forse più geniale e cosmopolita di Piero Calamandrei, Alexander Pekelis, ebreo di Odessa, arrivato con genitori e fratelli a Firenze dopo essere scampati a un pogrom. Grazie a un passaporto cosiddetto Balfour – dal nome del ministro britannico lord Arthur James Balfour, che nel 1917 aveva reso la celebre dichiarazione sull’«homeland for Jews» – i Pekelis nel 1920 attraversarono la Turchia e i Balcani, arrivarono in Germania e, tra la fine del 1921 e i primi del 1922, si trasferirono in Italia, a Firenze. Dove Alexander, che aveva già studiato giurisprudenza a Leipzig e Vienna, conseguì la laurea sotto la guida di Calamandrei. Il quale, riconosciutane la versatilità e lo straordinario eclettismo, lo invogliò a compiere anche altre esperienze nel campo della scienza giuridica; fu infatti soprattutto grazie al suo maestro di procedura civile che Pekelis accettò di diventare assistente di Giulio Paoli, docente di diritto e procedura penale, l’unico professore che avendo votato no allo pseudo-plebiscito fascista del 1929 fu traslocato d’autorità. Riscuotendo dal suo assistente Alexander, dimessosi dall’assistentato, l’unica pubblica manifestazione di solidarietà a me nota.
Quando nel 1938 fu notificata ai Pekelis la revoca della cittadinanza fu la madre, “Mamulia”, la più sconcertata: «Perché? Me l’ha firmata lo stesso re». Ce l’ha raccontato in un bellissimo libro Carla Coen, moglie di Alexander: “Mamulia” era rimasta l’unica, in Italia, a credere ancora che la parola del re valesse più di quella di un magliaro qualsiasi.
Calamandrei tramite il grande processualista Eduardo Couture trovò per Pekelis un incarico a Montevideo; ma Alexander rifiutò. Aveva altri piani. Lui e Carla, con le loro piccolissime figlie, Simona e Rossella, lasciarono l’Italia: ripararono prima in Francia, dove Alexander si impegnò subito nella lega per i diritti civili; poi, dopo l’occupazione nazista, si portarono in Portogallo, per cercare di guadagnare un visto per gli Usa. Il che non era facile. Allora Calamandrei, che già in passato era riuscito attraverso i buoni uffici di Luigi Russo a ottenere da Croce un cenno su Pekelis ne «La Critica» – ciò che valse come pubblica garanzia del filosofo per il perseguitato e la sua famiglia – si preoccupò di far arrivare in Portogallo un ritaglio del «Telegrafo» in cui l’allievo era stato additato come giurista ebreo. Anche questa storia è stata magistralmente ricostruita e raccontata da un bravissimo storico e amico, Massimo Mastrogregori.
In America Alexander divenne un propugnatore dei diritti sociali e uno strenuo difensore dei diritti civili, spendendosi generosamente non solo per gli ebrei, ma per i neri e gli immigrati.
Morì purtroppo presto, nel 1947, in un disastro aereo. Aveva solo 45 anni.
La democrazia laburista e la battaglia per i diritti umani e civili persero un raffinato e originale teorico, un avvocato, un indomabile combattente e un uomo a tutto tondo che avrebbe avuto tanto da dare a entrambe.
Tragicamente spezzata, quella di Alexander Pekelis fu nondimeno, e a pieno titolo, una crociana «vita di avventure, di fede e di passione».