A proposito del razzismo e delle politiche razziste esiste, purtroppo, un diffuso malinteso. Si presume, infatti, che politiche discriminatorie siano il frutto esclusivo di ideologie e di prassi apertamente e dichiaratamente razziste. Ci si aspetta che tali politiche e che le ideologie che le sorreggono abbiano necessariamente bisogno di un qualche Manifesto della razza e di qualche intellettuale e scienziato disposto a dimostrare che «le razze esistono». Naturalmente, si deve sapere che il razzismo è anche questo. Ma la storia, e in modo particolare la storia italiana, ci insegna che il razzismo e le politiche discriminatorie hanno anche un’origine diversa.
Ci sono stati autori, ancor oggi osannati dalla destra in doppio petto, che hanno invitato pubblicamente a discriminare certi gruppi etnici e contemporaneamente hanno scritto che il razzismo era una dottrina priva di qualsivoglia base scientifica. Il razzismo non è affatto per forza di cose una teoria biologica della politica. Esiste, cioè, anche il razzismo politico. Esiste fin dall’origine un dato caratteristico delle ideologie razziste: la loro profonda ambiguità, il porsi tra il dire e il non dire, tra l’affermazione e la smentita. Tratto caratteristico di queste ideologie è l’uso deliberato della menzogna, che è addirittura teorizzata come funzionale a descrivere ciò che è “verosimile”. C’è sempre un contesto internazionale che costituisce una camicia di forza per la “patria”, rettamente intesa. C’è sempre una “cospirazione” internazionale da debellare.
Il razzismo, dunque, è usato come deliberata arma di propaganda, ma non per fini puramente ideologici, quanto per promuovere attive politiche di aggressione: in particolare lo squadrismo dei primi anni venti. E fin dalle origini queste prassi discriminatorie hanno invocato “censimenti”: a cominciare dai cognomi e poi redigendo e pubblicando “elenchi” e poi avviando complesse procedure di “riconoscimento” e poi redigendo la geografia economica e istituzionale dell’“occupazione” che i gruppi avevano fatto e andavano facendo di certi lavori e di certe cariche, diventando quello che viene definito «uno Stato nello Stato».
Tipico di queste ideologie è presentare proprio i gruppi discriminati come fomentatori di discriminazione, come i primi e i fondamentali “razzisti”, come gruppi che rifiutano l’integrazione. Il razzismo politico stigmatizza, poi, le ideologie “umanitarie” e “cosmopolite”, che naturalmente nascondono ben circoscrivibili “interessi” o di gruppi o di nazioni. L’“epurazione” invocata di questi gruppi si è sempre accompagnata alla loro assimilazione ad altri gruppi che, in un modo o nell’altro, costituivano «uno Stato nello Stato», dei “traditori”, naturalmente anch’essi da estirpare. E prima di arrivare alla codificazione legislativa di politiche razziste e discriminatorie, la discriminazione ha cercato la via più semplice: farsi propaganda, titolo di giornale, intervista; poi farsi cemento ideologico di partito; in seguito farsi provvedimento amministrativo apparentemente indolore per la cornice legislativa che lo contiene; poi diventare provvedimento di ordine pubblico, così da criminalizzare il gruppo da discriminare; infine, quando le coscienze sono state abituate alla discriminazione, quando le voci discordi sono rese minoritarie, quando appare politicamente corretto e condiviso tutto quanto sopra descritto, il razzismo diventa codice, legge, organizzazione.