di Silvia Calamandrei
[Intervento al Festival della lingua italiana sul linguaggio della Costituzione, Siena, 8 aprile 2018.]
Il grande linguista e pedagogo democratico Tullio De Mauro sottolineava «l’eccezionalità linguistica della Costituzione rispetto alla frustrante illeggibilità del corpus legislativo italiano»1: rispetto all’oscurità di tanti testi di legge (il latinorum di Renzo), il patto sottoscritto dagli italiani all’indomani della Liberazione si contraddistingue per chiarezza, qualità raccomandata da Piero Calamandrei nel discorso del 4 marzo 1947: «Ora, vedete, colleghi, io credo che in questo nostro lavoro soprattutto ad una meta noi dobbiamo, in questo spirito di familiarità e di collaborazione, cercare di ispirarci e di avvicinarci. […] Il nostro motto dovrebbe esser questo: “chiarezza nella Costituzione”».
Sempre in quell’intervento Calamandrei sostiene che a scrivere la Costituzione non sono stati loro, i Costituenti, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo a uno a uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna Maria Enriques e di Tina Lorenzoni, nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità.
Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile: quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli.
La Costituzione, patto tra uomini liberi, e testamento dei caduti, doveva essere chiara e comprensibile, utilizzare il linguaggio quotidiano, per consentire quella partecipazione alla cosa pubblica che tanto premeva a Calamandrei e ai costituenti, uno strumentario in mano ai cittadini, discusso lungamente, nei dettagli, per poi essere affidato alla cura e alla revisione del consulente linguistico Pietro Pancrazi, grande amico di Piero, critico letterario del «Corriere della sera» e compagno delle passeggiate degli anni trenta con Russo, Nello Rosselli, Benedetto Croce e altri, recentemente rievocate in uno spettacolo teatrale di Tomaso Montanari e Nino Criscenti.
La versione finale venne poi sottoposta a una Commissione composta da Pancrazi, Concetto Marchesi e Antonio Baldini, e ne scaturì un testo composto essenzialmente di periodi brevi, con una frase principale che precede le subordinate (poche), assenza di incisi e di rimandi, indicativo presente con valore prescrittivo, raro uso del congiuntivo e del gerundio.
Come ha scritto De Mauro, uno dei massimi studiosi dell’argomento, il testo è «lungo 9.369 parole, che sono le repliche, le occorrenze di 1.357 lemmi. Di questi 1.002 appartengono al vocabolario di base italiano». Ogni frase, con una media di 19,6 parole, contro le 120-180 di cui solitamente si compongono i periodi dei nostri legislatori, doveva essere capita anche da quel 59,2% di cittadini ultraquattordicenni analfabeti dell’immediato dopoguerra.
Va ricordato infatti che all’epoca in Italia solo il 30% dei cittadini aveva il diploma elementare, il 5,9% quello di media inferiore, il 3,3% di scuola superiore, e l’1% la laurea2.
Quando all’articolo 3 si scriveva: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» occorreva pensare anche alle competenze linguistiche di coloro che si volevano cittadini attivi e partecipi.
Chiarezza nella Costituzione è il titolo che Calamandrei dà al suo intervento, che ovviamente non ha solo un approccio linguistico, di preoccupazione stilistica ed espressiva, ma schiettamente enuncia la complessità del compromesso raggiunto, e il carattere propositivo di tanti enunciati, in particolare quelli di ordine sociale, travestiti in norme giuridiche ma non immediatamente attuabili: queste norme di carattere programmatico, secondo Costantino Mortati, rappresentavano impegni che il legislatore prendeva per l’avvenire: non erano dunque disposizioni giuridiche irrilevanti, perché anche esse avevano la loro efficacia giuridica.
Calamandrei, non completamente convinto da Mortati, si era lasciato poi conquistare dalla citazione dantesca di Togliatti sul lume che illumina la strada a coloro che seguono: «illuminare la strada a quelli che verranno». Eppure era perplesso perché tanti enunciati non corrispondevano a verità e avrebbero potuto minare la credibilità della Costituzione.
Per questo, per evitarne il discredito, insistette perché le dichiarazioni programmatiche (salute, istruzione, lavoro garantiti a tutti) fossero raccolte in un preambolo, «con una dichiarazione esplicita del loro carattere non attuale, ma preparatore del futuro; in modo che anche l’uomo semplice che leggerà, avverta che non si tratta di concessione di diritti attuali, che si tratta di propositi, di programmi e che bisogna tutti duramente lavorare per riuscire a far sì che questi programmi si trasformino in realtà».
Evitare il discredito delle leggi, invalso con le falsificazioni del fascismo (Il fascismo come regime della menzogna è il titolo di un suo scritto), è uno degli obiettivi principali del Calamandrei costituzionalista, divenuto tale dopo l’attraversamento degli anni più bui nei quali il diritto sembrava irrevocabilmente calpestato e violato.
Al primo segnale di crollo del regime mussoliniano, in quella breve pausa che va dal 25 luglio all’8 settembre, Calamandrei aveva creduto di poter finalmente respirare quell’aria della libertà che era andato cercando nelle passeggiate tra i borghi e i paesaggi dell’Italia centrale con gli amici letterati e filosofi e aveva annotato nel Diario la sensazione di aver ritrovato la patria: «la patria come senso di cordialità e di comprensione umana esistente tra nati nello stesso paese, che si intendono con uno sguardo, con un sorriso, con un’allusione: la patria, questo senso di vicinanza e intimità che permette in certi momenti la confidenza ed il tono di amicizia tra persone che non si conoscono, di educazione e di professione diverse, e che pure si riconoscono per qualcosa di comune e di solidale che è più dentro. Ah, che respiro! Ci si può parlare, si può dire il nostro pensiero chiaro, per la strada, in ferrovia, al contadino che lavora nel campo, all’operaio che passa in bicicletta».
Non c’è più bisogno di nascondersi in un linguaggio allusivo, quale quello adottato in tanta letteratura sotto il fascismo e dallo stesso Calamandrei quando diceva che il suo pensiero andava cercato «tra le righe», in opere come l’Elogio dei giudici. Un linguaggio dell’epoca della «resilienza», nel quale gli antifascisti si incontrano e scambiano battute allusive, ma non possono parlar chiaro.
Si tratta di un nuovo inizio, in cui bisogna reimparare a usare lo stesso linguaggio, come scrive in un saggio dell’agosto 1943, che non vedrà mai la luce, intitolato La politica non è una professione, tema su cui avrà occasione di ritornare: «Bisognerà ricominciare da capo a imparare una quantità di nozioni elementari, che di solito si imparavano una volta per sempre da bambini: come si fa a camminare, come si fa a salutare, come si fa a vestirsi, come si fa a parlare. Il galateo è tutto da ristudiare: la grammatica, e forse l’abbecedario, con esso. Bisognerà ricominciare a distinguere nel vocabolario le parole pulite da quelle sporche, le parole genuine da quelle adulterate: inequivocabile, sagra, cameratesco rancio, ferreo clima, raduno totalitario, anzi oceanico, com’ebbi a leggere su un giornale di Roma che descriveva l’adunata coatta di quel povero popolo acclamante ai discorsi in cui fu rivelato al mondo il mal d’Africa o il bagnasciuga»3.
In verità questa breve pausa di libertà viene bruscamente interrotta dall’armistizio e dall’occupazione tedesca, e il nuovo linguaggio della libertà, della resistenza al nazifascismo, potrà essere sperimentato solo dopo la vittoria della Resistenza, passando per la tragedia della guerra nella penisola e l’esilio nel paese umbro di Colcello. Ma Calamandrei lo ha incubato a lungo, come sostiene la studiosa ceca Jana Mrázkova, che al linguaggio di Calamandrei e dell’antifascismo ha dedicato un saggio pregnante, pubblicato sulla rivista «Il Ponte».
Quando mi è stato chiesto di parlare di Calamandrei e della lingua della Costituzione, ho pensato non solo alla lettera della Costituzione, e agli articoli a cui egli ha maggiormente contribuito, ma ai tanti discorsi e commenti celebrativi che Calamandrei dedicò al patto sottoscritto tra uomini liberi e all’eredità della Resistenza. Ed ho riletto il saggio della Mrázkova perché è stata la prima a interrogarsi sulle origini del linguaggio con cui Calamandrei costruisce e celebra il mito della Resistenza, un linguaggio politico che è al contempo letterario e poetico, vibrante di sentimento e di pathos, e che continua a circolare e a essere efficace anche per le nuove generazioni. Una nuova oratoria, che mutua espressioni anche dalla tradizione letteraria, e che stabilisce un nuovo codice comunicativo.
Il primo esempio di tale oratoria è il discorso inaugurale che tiene come rettore dell’Università di Firenze a poche settimane dalla liberazione della città, nel 1944, che comparve nella pubblicazione del Ctnl con il titolo L’Università fiorentina parla il linguaggio della libertà4. Successivamente, con la liberazione dell’intera Italia, Calamandrei sviluppa ulteriormente il suo “linguaggio della libertà”: il suo linguaggio politico, ricco di figure poetiche, un linguaggio del mito, continua a evolversi nella rivista «Il Ponte» e a compendiarsi incisivamente nelle tante epigrafi alla memoria.
La Mrázkova si interroga: che cosa diede vita, in un giurista cinquantenne, a questo linguaggio appassionato, vivo, giovanile, messo al servizio di un movimento di portata storica come la Resistenza? Perché un uomo che, pur essendo un fervente antifascista fin dalla prima ora, non partecipò alla lotta armata contro il fascismo ma diventò un così eloquente celebratore di quel movimento, il “cantore” della Resistenza? E in che modo un mito creato da uno “scrittore politico” e nato in un particolare e unico momento di liberazione poté perpetuarsi con tanto vigore contro la logica della realtà politica degli anni successivi, quando la situazione cambiò precipitosamente, negli anni della Guerra fredda e della “desistenza”? Da dove provenivano quella forza di linguaggio e quel brillante stile letterario? Quale segreto, quale mistero mantenne vivo il linguaggio politico di Calamandrei?
Secondo la studiosa ceca alle spalle c’è la logica giuridica di Calamandrei, la limpidezza delle sue argomentazioni di avvocato, ma anche la sua esperienza letteraria e poetica, in opere elegiache come l’Inventario della casa di campagna e l’appassionato Diario che tiene dal 1939 al 1945.
La difesa e la divulgazione della Costituzione diventano il suo fronte di impegno principale, in Parlamento, sulla rivista «Il Ponte», in tanti discorsi, come quello ai giovani del 1955, e in famose arringhe come quella per Danilo Dolci, una vera e propria orazione.
Un’analisi linguistica della sua oratoria e delle ricorrenze sarebbe estremamente interessante, anche per meglio comprenderne la perdurante efficacia comunicativa. In un saggio del 1955, La Costituzione e le leggi per attuarla, dice che dagli articoli della Costituzione parlano a noi le voci, «auguste e venerande» del nostro Risorgimento: Mazzini, Garibaldi, Cavour, Beccaria, Cattaneo, e altre voci più recenti, come Rosselli, Gramsci e Gobetti, ma soprattutto quelle dei fratelli caduti nelle battaglie della Resistenza. È il messaggio che trasmette anche ai giovani studenti milanesi, in quel discorso che possiamo ancora riascoltare dalla sua viva voce, che parla del «testamento spirituale di centomila morti, che indicano ai vivi i doveri dell’avvenire».
E il suo appello ai giovani a non trascurare la politica, a non tirarsi indietro dall’impegno politico e civile per far sì che la Costituzione non rimanga una carta morta, sembra ormai fondersi con quelle voci auguste e venerande.
C’è una forte vena pedagogica, che De Mauro aveva saputo cogliere nella prefazione alla raccolta di discorsi di Calamandrei per la scuola5, quella scuola che considerava organo principale della Costituzione, fucina della classe dirigente e luogo di formazione di una cittadinanza consapevole.
Nella prefazione ai Dei delitti e delle pene di Beccaria, rivisitata nel dicembre del 1944 a Firenze, Calamandrei sottolineava cha la patria era anche l’appartenenza a una tradizione artistica, linguistica e letteraria: «basta ora rimuovere appena le macerie per vedere riapparire tra la polvere la nitida stampa un po’ antiquata di questi vecchi libri fidati, ai quali si può chiedere ancora, senza il timore di rimanere delusi, la parola che valga a farci ritrovare la fede. […] Di questi libri è fatta la patria; la quale è, sì, queste montagne e questo mare dati da Dio, ma è anche queste cupole e queste torri e queste statue create dagli uomini, che non si posson vedere sfregiate senza sentirci ad uno ad uno sanguinanti nella nostra carne, noi che da quando siamo nati siamo cresciuti in quest’ombra; ed è anche in questi breviari di saggia bontà, nei quali di generazione in generazione si tramanda, nella grande polifonia della nostra letteratura, l’accento inconfondibile in cui ci riconosciamo italiani: questo tono di umana cordialità, questo senso di virile dolcezza e di universalità religiosa che va dallo ius gentium ai Doveri dell’uomo di Giuseppe Mazzini».
Questa tradizione si rispecchia nella carta costituzionale, «patto giurato fra uomini liberi» che nella orazione del 1956 per Danilo Dolci verrà equiparata alle leggi di Antigone.
1 T. De Mauro, Il linguaggio della Costituzione, Senato della Repubblica, Palazzo della Minerva, Roma,16 giugno 2008, p. XXV.
2 T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 20142, p. 24.
3 «Argomenti», anno II, agosto 1943.
4 «Ritorno dell’Università fiorentina alla libertà», in Uomini e città della Resistenza, Bari, Laterza, 1955.
5 P. Calamandrei, Per la scuola, introduzione di T. De Mauro, Palermo, Sellerio, 2008.