Che il Pd abbia cambiato natura e che negli ultimi anni sia diventato il partito di Renzi non è il solo Diamanti a ripeterlo da tempo (e molti altri con lui); passo dopo passo, incoraggiata da una crescente pressione mediatica, la mutazione si è alla fine realizzata e il risultato è ormai sotto gli occhi di tutti.
Di questo esito si è molto parlato e si parla, poca attenzione è stata invece dedicata ai fatti e alle ragioni che l’hanno determinato.
Sì, certo: l’unificazione tra Ds e Margherita era stata una «fusione fredda», tanto che i due apparati di partito erano rimasti in realtà separati (e la Margherita si era sciolta solo nel 2012, dopo che Lusi si era “appropriato” della cassa del gruppo). Ma nel 2007 la musica era diversa e il racconto celebrava invece il tentativo virtuoso di far convivere la tradizione socialdemocratica dei Ds (sufficientemente omogenei attorno ai loro dirigenti) e il solidarismo di varie componenti cattoliche (abbastanza variegate tra loro e pure affiancate da alcune frange laiche).
Le elezioni politiche del 2006 (17,5% per i Ds e 10,7% per la Margherita) avevano indicato i rispettivi rapporti di forza; le primarie del nuovo Pd avevano poi consacrato Veltroni col 75% e relegato Rosy Bindi al 12,93% ed Enrico Letta all’11,2%, evidenziando la natura di partito organizzato dei Ds e quella di movimento e di cordate sparse propria della Margherita.
I riflettori si erano poi accesi sull’accelerazione di Veltroni, non estranea alla caduta del governo Prodi e sulle prime tensioni insorte tra le diverse componenti, per il momento occultate dal grande impatto mediatico della nascita del partito «a vocazione maggioritaria».
Successivamente gli osservatori, abituati a seguire le vicende di questa nuova formazione politica attraverso le dinamiche dei vertici (l’abbandono della presidenza da parte di Prodi nel 2008 dopo la sconfitta elettorale, quello di Rutelli dopo le primarie del 2009, il successivo distacco della Bindi, ecc.), avevano fornito l’immagine di un partito sostanzialmente in mano alla componente dei Ds, ignorando, invece, il progressivo mutare dei rapporti di forza che nel frattempo andava maturando nei territori, tendenza che si affermava, soprattutto, in occasione delle elezioni amministrative.
Qui, infatti, i candidati prescelti erano per lo più coloro che, magari scoloriti politicamente, godevano però di una serie di relazioni consolidate con gli esponenti della “società civile”, risultando così ben introdotti presso imprenditori, commercianti, direttori di banche e, non ultima, la curia locale. Sotto questo profilo i Ds, soprattutto nelle regioni “bianche” del Nord, avevano spesso qualche cosa da farsi perdonare, qualche rigidità di troppo, legami ideologici non decisamente spezzati; molto meglio coloro che erano cresciuti all’ombra della Margherita, pragmatici, attenti agli equilibri locali, alieni da ogni estremismo anche solo verbale, soprattutto se, come spesso accadeva, provenivano dalle fila della Dc.
La linea moderata dei candidati e della loro cerchia consentiva così in molti casi la vittoria elettorale del Pd; la mancanza di una precisa ideologia di sostegno favoriva il consolidarsi di cordate fondate sulla fedeltà, più che sui programmi e su un attivismo attento più ad accrescere consensi che a curare la qualità della politica; il potere localmente acquisito consentiva, poi, di contrapporre il successo ottenuto dagli esponenti locali del partito alle difficoltà e alla inadeguatezza attribuita ai vertici nazionali, in particolare dopo la sconfitta elettorale del 2008.
In questo contesto, la prima ad accorgersi che attaccare dal territorio il “quartier generale” comportava un’immediata crescita di consensi è stata Deborah Serracchiani, che il 21.03.2009 con un discorso di pochi minuti, in un’assemblea dei circoli del Pd, aveva criticato un «partito lontano dalla realtà», in cui «era mancata la leadership» in grado di formulare «una politica di sintesi» e aveva preso le distanze da una dirigenza che aveva tentennato da ultimo anche sul «testamento biologico»; l’oratrice aveva perciò concluso l’intervento auspicando l’avvento di «una nuova generazione politica» e riponendo le speranze nel nuovo segretario, Dario Franceschini, da poco succeduto a Veltroni alla guida del Pd.
La critica rivolta alla passata gestione del partito aveva proiettato la sconosciuta militante su tutti i media e le televisioni; due settimane dopo Franceschini la candidava alle elezioni europee, dove otteneva 144.538 preferenze; a ottobre era stata poi lei ad appoggiare il neosegretario alle primarie del Pd, ma se Franceschini, in quella occasione, era stato battuto da Bersani, la Serracchiani, a pochi mesi di distanza da quel fortunato intervento, veniva eletta alla segreteria regionale del Pd nel suo Friuli.
Tempi e modi di questa rapidissima ascesa non erano certo sfuggiti a Matteo Renzi, divenuto sindaco di Firenze nel giugno dello stesso anno, dopo una lunga militanza nella Dc, nel Ppi e nella Margherita; e l’“uomo nuovo”, infatti, nell’autunno del 2010, ripropose in grande stile l’attacco al “quartier generale”, lanciando l’idea della “rottamazione”, potendo contare, a differenza della Serracchiani, su di una struttura già organizzata, la “Leopolda” e sul sostegno di una sempre più ampia schiera di aderenti alla Margherita, da Richetti, a Faraone, da Boschi a Bonafè, da Marcucci a Ichino, da Giachetti a Lusi, ecc. Non era più tempo di una critica individuale e in fondo estemporanea alla linea dirigente del Pd; con la Leopolda nasceva un’opposizione organizzata, decisa a perseguire obiettivi di ben altro respiro.
La destrutturazione della forma-partito, innanzitutto; di qui la polemica serrata e costante condotta contro la storia, i valori e la tradizione dei Ds e i legami che alcune figure di questa formazione avevano continuato a mantenere con la Cgil e col mondo del lavoro dipendente. Il semplice annuncio di questa rottamazione, dotata di un’alta valenza simbolica, decretava l’immediato successo del sindaco di Firenze, gli garantiva l’appoggio corale dei media e lo conduceva successivamente alla vittoria contro Bersani nelle ennesime primarie volute dal Pd.
Ma per compiere l’ulteriore passaggio dal partito al governo, Renzi doveva aprire un nuovo fronte, questa volta all’interno stesso del suo gruppo di appartenenza. E se in vista delle elezioni presidenziali, dopo un incontro a Palazzo Vecchio con D’Alema, Renzi aveva bloccato la candidatura di Franco Marini e pochi giorni dopo era stato il primo a comunicare, soddisfatto, alle agenzie che la candidatura di Prodi era tramontata, l’anno successivo, impadronitosi ormai della direzione del partito, aveva sfiduciato il presidente del Consiglio, Enrico Letta, altro esponente storico della Margherita, subentrandogli nel ruolo di capo del governo.
La lotta sui due fronti, l’una strategica, l’altra miserevolmente tattica, a questo punto poteva dirsi conclusa: gli epigoni della Margherita raccoltisi attorno a Renzi – eliminati o allontanati cattolici divenuti scomodi – erano riusciti non solo a rovesciare i rapporti di forza interni, che nel 2008 li avevano resi subalterni ai Ds, ma, sull’onda della rottamazione, avevano addirittura rilanciato il Pd, portandolo, col sostegno dei media, a una vittoria elettorale senza precedenti, alle europee del 2014.
Nel guscio del vecchio partito è così cresciuta, giorno dopo giorno, una nuova formazione politica, innovatrice negli obiettivi, nelle forme organizzative, nel lessico della comunicazione. Alla rottamazione della forma-partito si è accompagnata quella della politica che un tempo ne aveva contrassegnato l’identità: alla delegittimazione rabbiosa del sindacato ha fatto da contraltare l’adesione entusiastica per l’opera di Marchionne; alle mediazioni precedentemente offerte alle richieste del mondo del lavoro, Renzi ha contrapposto una serie di chiusure calate dall’alto, che a quel mondo hanno tolto via via diritti e garanzie; per poter vincere resistenze e opposizioni ha poi reso superflue le sedi di discussione, non ultimo il Parlamento, abituato ormai a votare con la fiducia e con i maxi-emendamenti: il decreto Poletti, la cancellazione dell’art. 18 dello Statuto, il varo del job act, la “buona scuola” non sono stati errori o incidenti di percorso, ma le conseguenze prodotte da una programmata strategia politica volta a stabilire una cesura netta e non solo simbolica con tutto il passato della sinistra.
Che queste decisioni a catena potessero allontanare masse di militanti ed elettori dal partito è un dato che lo statista di Rignano aveva certamente messo in conto, convinto di poterli rimpiazzare abbondantemente con le nuove adesioni provenienti dal centrodestra (in fondo il partito della nazione su questo si fondava). Ma l’esperienza fatta col maldestro tentativo di estendere il controllo sul partito a quello sulle istituzioni, tramite la riforma e il referendum costituzionale, ha reso evidente l’erroneità di una tale previsione: la destra aveva sì applaudito alla rottamazione degli ex comunisti e ai regali consegnati alle imprese, ma aveva assai meno apprezzato il tentativo di mettere fuori gioco per un tempo indeterminato i propri tradizionali referenti politici, come sarebbe successo se quella riforma, con annesso premio di maggioranza per la lista più votata, fosse passata; e così quei partiti, ricompattati quasi per necessità, prima, e rinvigoriti dalla vittoria referendaria, poi, si sono presto ripresi gli spazi televisivi, hanno rispolverato le vecchie ricette e hanno infilato un successo dopo l’altro alle successive elezioni amministrative.
I conseguenti rovesci subiti da Renzi non hanno invece mutato per niente la sua linea di condotta.
Questa era stata già chiara durante la campagna referendaria: dopo aver infatti dileggiato, per mesi e con toni sprezzanti, la minoranza interna, aveva fatto capire a «gufi e rosiconi» che mai li avrebbe ricandidati e ne ha propiziato così la fuoriuscita dal partito, costringendoli per giunta a giocare di rimessa; mentre, rivoltosi ai propri fedeli dopo il risultato del 4 dicembre, ha raccontato loro che i voti per il sì, giunti al 40%, erano altrettanti consensi per il suo partito, cercando così, con una capriola, di trasformare la sconfitta subita in una potenziale vittoria.
In realtà Renzi, al di là delle chiacchiere d’occasione, ha continuato per la sua strada, deciso a perseguire l’obiettivo di sempre.
Pur di relegare l’intera sinistra a un ruolo di inoffensiva testimonianza, ha infatti approvato con Berlusconi una nuova legge elettorale che ha conferito generosamente al socio del Nazareno la possibilità di ottenere al primo turno il premio di maggioranza con l’abituale ammucchiata, oggi sempre più spostata a destra (e l’attenta Ghisleri già le ha assegnato, sin d’ora, un vistoso 37% di consensi); per occultare, poi, in qualche modo questo inopinato regalo, ha raccontato che anche il Pd era il perno di una grande coalizione, dotata di una componente di sinistra e di una di centro, “dimenticandosi” di aver tagliato tutti i ponti con la prima e non accorgendosi che i residui seguaci di Alfano stavano velocemente ritornando alla casa madre. Attorno alla sua proposta ha così raccolto deboli consensi, ma nel frattempo è riuscito a infliggere ai tradizionali elettori l’inutile sceneggiata di un Fassino costretto a bussare a una serie di porte chiuse e ridottosi a fare il corriere del nulla.
In cambio l’operazione consente a Renzi di conservare il potere di nominare i propri fedeli in Parlamento, rafforzando così il suo partito personale; e gli permetterà, forse, di indebolire qualsiasi formazione sorta alla sua sinistra – quella dei «Liberi e uguali» in particolare – con lo spauracchio della minaccia rappresentata dal M5S e con l’eterno ricatto del voto utile, vero motivo dominante della sua prossima campagna elettorale.
Costretto per necessità ad abbandonare il fantasioso progetto del partito della nazione, Renzi ha continuato con lena a costruirne almeno le premesse, impegnandosi con grande determinazione nel cancellare nel Pd le tracce di sinistra che ancora erano presenti nel partito ereditato da Bersani.
Questo in fondo era stato il suo primo, vero, concreto obiettivo.
Missione compiuta, dunque?