Sulla denominazione delle formazioni partitiche, a partire dalla fine della Prima repubblica, ma ancor da prima, la politologia ha potuto esercitarsi, facendo ampio ricorso al sarcasmo nel porre in luce come già in essa sia impresso il marchio del vuoto ideologico. Non intendiamo tornare su Forza Italia o su margherite, ulivi e altre vegetazioni ormai sfiorite nel panorama parlamentare; né intendiamo insistere sul deplorato stemma del M5S: certo più acconcio alla réclame di un albergo per parvenus alle Maldive, che non a un movimento che ambisca al governo del paese. Viceversa, ci interroghiamo sulle nomenclature di una sinistra divisa, che ora si affaccia alle elezioni come «Liberi e Uguali».
Prima annotazione: in entrambi i casi, ovvero sia nel Pd, sia nel nuovo schieramento dalemiano-bersaniano, non compare la parola “socialismo”. Si tace sulla propria ragion d’essere storica, ma per poi presentarsi in modo alternativo: nel caso del Pd con il richiamo a una democrazia, ridotta, come amava dire un grande padre liberale, a «scatolone vuoto»; nel caso di «Liberi e Uguali», con un mero appello allo scolastico binomio libertà-eguaglianza.
Forse è sfuggito, nel corso della più recente scissione, che il binomio è, per sua intrinseca valenza semantica, antinomico: un accrescimento dell’autonomia personale comporta l’inevitabile restrizione del parametro egualitaristico; un incremento del motivo egualitaristico volge per forza di cose a una massificazione, che investe e tende a ledere la sfera del merito individuale. La Rivoluzione francese, come è noto, affiancò al citato binomio un ulteriore polo di attrazione, e così proclamò: liberté, égalité, fraternité! Era, questo terzo della fraternità, il collante delle prime due sfere, nel senso che la contraddizione tra libertà e uguaglianza veniva a mitigarsi, se non addirittura a coniugarsi in virtù di un sentimento di solidarietà, meglio a dirsi di amicizia fraterna capace di vincere i vizi, da un lato, della egoità e, d’altro lato, di una pianificazione sociale che il sovietismo avrebbe tragicamente interpretato.
L’assenza di tale collante desta sconcerto1. È chiaro che, così ponendosi, la sinistra antagonistica fa leva elettorale su una denominazione sintetica e agile, dunque in linea con le pulsanti accelerazioni di un universo virtuale, a impronta fortemente mediatica; ma è altrettanto chiaro che, in tal modo, viene meno un assetto culturale che fu nevralgico nel pur variegato modo di proporsi del socialismo europeo.
Qui sorge la necessità dell’approfondimento: da dove discende la fraternità? Qual è l’avventura da cui è nato e su cui si è sviluppato il principio del mutuo soccorso tra gli uomini? Che cosa comporta la frattura con queste tradizioni?
Che si sia al cospetto di una voce originaria ce lo dice anche un primo, pur superficiale approccio etimologico. In verità, si risale, nell’urgenza che la parola esprime, alla notte dei tempi: bhar, quale anticipazione di frater, è espressione di matrice indoeuropea che trascrive la nutrizione, il sostentamento offerto a colui che è partorito dalla nostra stessa genitrice, ma non solo: perché costui, cresciuto, si è fatto partecipe di condizioni di vita compagne delle altre. Il sanscrito bhrathar conferma: in esso è esplicitato un bisogno di sostegno vicendevole tra gli uomini, un’aspirazione alla condivisione fraterna del dolore.
Nel greco antico phrátēr sfuma l’elemento del sangue di discendenza2 per concedere sempre più al dato dell’appartenenza etico-politica. Già in Omero il privativo a-phrétōr si affianca ad athémistos, divenendo sinonimo di scelleratezza3. Ma è in età classica che la fratellanza connota marcatamente il riconoscimento di comuni valori etici (nel senso che Eraclito detta: ambientali), non già la mera sussistenza di vincoli genetici. Con una conseguenza di ordine culturale generale data, da un lato, dal restringersi dell’ambito dell’oîkos, inteso come recinto entro cui operano soggetti legati da affinità familiari; e, d’altro lato, dal tendenziale estraniarsi della figura del phrátēr dalla cerchia dell’oîkos4.
Con la latinità la grande lezione socratico-platonica prende corpo nella formalizzazione giuridica dei vincoli familiari, entro cui agisce il frater, ma soprattutto nell’adesione filosofica al motivo della comunanza culturale e sociale espressa dalla fraternitas. Cicerone, e con Cicerone lo stoicismo, insistono sulla dimensione solidaristica, sino a farne spinta cosmopolitica proiettata verso i futuri percorsi delle religioni positive5. Il sommo bene consiste in un’onestà e in una sapienza che oltrepassano i confini statuali per assumere veste di ragionevolezza proprio entro l’ordine di quella fraternità che radica la convivenza civile. In Seneca il passo è ulteriore: la resistenza al male, come coscienza e affermazione della libertà propria e altrui, si traduce in una predisposizione dell’animo, tesa alla vittoria sugli egoismi e sul timore della morte6. Prende corpo una dialettica interiore, morale e spirituale, che si oppone alla violenza e alla sopraffazione proprio nel nome della fraternità: «chi esclude che lo schiavo possa essere benefattore di uomini liberi non conosce lo ius humanum»7. Totalmente diverso è il retroscena fideistico: ma nessuno può sostenere che sia casuale la contemporaneità tra Seneca e San Paolo.
Su questa falsariga si comprende la massima attenzione della teologia medioevale al tema in esame, rafforzata dal fondamento posto dall’essere gli uomini, tutti, in quanto figli di Dio, tenuti all’obbligo cristiano di sentirsi tra di loro fratelli.
Il seguito di questa plurimillenaria avventura è nel segno della citata trilogia rivoluzionaria francese. Dostoevskij ne scrisse con una lungimiranza critica che spalanca al presente:
L’uomo occidentale discorre di questa fratellanza come d’una grande forza motrice dell’umanità, e non s’accorge che la fratellanza non la si potrà trovare da nessuna parte, fino a che essa non esisterà nella realtà. Che fare dunque? Bisogna realizzare la fratellanza a qualsiasi costo. […] Nella fratellanza, nella fratellanza vera non è la singola personalità, non è l’Io che deve arrabattarsi per affermare il proprio diritto all’aver egual peso ed egual valore di tutto il rimanente, ma proprio questo rimanente dovrebbe esso stesso andare da tale singola personalità che rivendica il proprio diritto, da questo Io singolo, e, senza che glielo si chieda in alcun modo […]. Non solo, ma questa stessa personalità ribelle ed esigente dovrebbe, dal canto suo, in primo luogo sacrificare tutto il suo Io, tutta se stessa per la società, e non solo non dovrebbe esigere un diritto suo personale, ma, al contrario, dovrebbe cederlo alla società senza condizione alcuna. […] In una sorta di rigenerazione […] tali idee debbono dapprima penetrare nella carne e nel sangue per poter poi diventare realtà […] bisogna dunque essere privi di personalità, per essere felici? Forse che nell’assenza di personalità sta la salvezza? Al contrario, al contrario vi dico io: non soltanto non occorre esser privi di personalità, ma proprio una personalità bisogna diventare, e addirittura in un grado assai superiore a quello che si è venuto a determinare in Occidente. […] Una personalità saldamente sviluppata, pienamente convinta del proprio diritto di essere una personalità, e che non prova più alcun timore per se stessa, non potrebbe forse nemmeno fare altro di sé, ovvero nessun altro uso, se non darsi tutta per gli altri, perché anche gli altri diventino esattamente altrettante personalità autonome e felici8.
Il mancato richiamo, in D’Alema e nei suoi, alla fraternità è frutto di una dimenticanza, di una rimozione intellettuale, o si inscrive in una vera e propria dannazione?
A favore dell’ipotesi di rimozione potrebbe militare un pregiudizio, per il vero ormai molto datato, del materialismo storico: quello consistente nel riscontrare, nella fratellanza, un germe religioso marxianamente da respingere. A favore dell’ipotesi dell’oblio può deporre la circostanza dell’essersi chiamati compagni, e nell’essersi riconosciuti per tanto tempo come tali, in dichiarata distanza da quell’esperienza democristiana entro la quale ci si chiamava, più o meno ipocritamente, fratelli.
Crediamo che tali profili siano marginali, pertanto non agevolino la comprensione dell’imponenza del fenomeno. Per capire bisogna ripensare all’incompatibilità tra i principi fondamentali della nostra Costituzione repubblicana e l’attuale fase geopolitica della globalizzazione: fase in cui la tecnocrazia si erge sulla padronanza assoluta dell’Economia sulla Politica e sul Diritto. Uno sfrenato liberismo e un incondizionato inchino all’altare di mercati senza regole e confini determinano enfatizzazione delle privatezze e, in uno, avvilente pianificazione egualitaristica. Il dato ha proporzioni tali, da non riscontrarsi precedenti nella storia del pianeta.
Entro il deserto nichilistico non vi è spazio per la dimensione umanistica della fraternità e, ancor più, per una lotta politica tendente all’affermazione sociale della fraternità. Il nome è bandito dalla conoscenza, ancor prima che dall’esperienza.
In esilio sono non solo le teologie giudaico-cristiane, radicate nel dogma dell’identità di un popolo, poi di tutti gli uomini in Dio, ma anche le fondamenta classiche su cui, come si è osservato, si è costituita la civiltà occidentale. Troppo poco la scuola se ne occupa: bisogna studiare e insegnare quali effetti comporti la deellenizzazione.
Il mutuo soccorso nel bisogno, l’aiuto vicendevole che i fratelli si scambiano non vale più quale momento di perfezionamento spirituale personale e di affrancamento politico dalle schiavitù, ma è – per citare ancora Dostoevskij – «la principale pietra d’inciampo dell’Occidente», una «metafisica», una «inesistenza nella realtà»9. Nel tempo della morte delle metafisiche evocare la fraternità è fuori luogo, ci si smarrisce, si rischia di perdere le elezioni.
1 Il problema è posto da M. Rossi (Liberi e uguali, ma per che cosa?), nell’articolo che precede il nostro.
2 M. Morani, Il fratello, la casa, il villaggio. Sull’etimologia di PHRATER in greco, in «Aevum: rassegna di scienze storiche, linguistiche e filosofiche», fasc. 1, gennaio-aprile 1995, pp. 3-6.
3 Omero, Iliade, IX, 63.
4 Cfr., sul punto, M. Morani, op. cit., p. 6.
5 Cfr. J.H. Holton, «Marco Tullio Cicerone», in L. Strauss, J. Cropsey, Storia della filosofia politica, Genova, Il Melangolo, 1993, p. 269 ss.
6 Cfr. C. Marchesi, Disegno storico della letteratura latina, Milano-Messina, Principato,1959, p. 306 ss.
7 L. A. Seneca, Institutiones, lib. I, t. I, 3.
8 F. Dostoevskij, Note invernali su impressioni estive, introduzione di S. Garzonio, trad. it. di S. Prina, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 69-70.
9 Ivi, p. 69.