Dunque Mattarella ha sciolto le camere, si voterà il 4 marzo e lo ius soli è rimasto nel gargarozzo della trascorsa legislatura. Chi non ha voluto una legge di civiltà che sarebbe servita a dare piena cittadinanza a bambini nati in Italia, i quali oggi possono diventare cittadini a tutti gli effetti soltanto dai diciotto anni in poi e superando svariate complicazioni burocratiche? La risposta è facile: le destre associate colluse in parlamento con il beneplacito del governo, cioè di Gentilon de’ Gentiloni che granché gentile non si è mostrato con i figli dei genitori immigrati (avrebbe potuto “forzare” la situazione ponendo la questione di fiducia, ma ha preferito non rischiare nella speranza di poter succedere a se stesso dopo le elezioni). E quali sono queste destre unite, di fatto, nella negazione di un diritto elementare a una parte della popolazione? Tolti i postfascisti e i fascioleghisti, che sulla xenofobia e un razzismo più o meno discreto fondano le loro fortune, c’è l’opportunismo del solito “liberale alle vongole” Berlusconi; ci sono la piccola galassia centrista (che, ancorché sempre pronta a lavarsi la bocca con il cattolicesimo, di spirito cristiano non ha nulla), l’elettoralismo della maggioranza renziana del Pd schierata solo a parole a favore della legge, e infine l’interesse del grillismo qualunquista e fascistoide di Di Maio. Una bella accozzaglia, non c’è che dire.
Ciò che importa in modo particolare a dei socialisti quali noi ci definiamo, è che intorno alla questione dei diritti di cittadinanza di coloro che escono da una condizione di diseredati si gioca gran parte del futuro. La socialdemocrazia del passato (per non parlare dei paesi del “socialismo reale”) si fondava sullo Stato-nazione, che in definitiva era lo Stato di una relativa purezza etnica. Perfino la dominazione coloniale, con il surplus che realizzava a danno dei più poveri, era funzionale a una ridistribuzione del reddito nella metropoli europea. Tutto questo avveniva con la collaborazione di un proletariato industriale che in maggioranza votava per i partiti operai. Già negli anni sessanta del Novecento, tuttavia, la rivolta del mondo colonizzato aveva messo in questione questo modello occidental-centrico. Viviamo oggi le conseguenze storiche di quella decolonizzazione andata a male, cacciatasi in nuovi dispotismi e finita, in una certa misura, nel caos e nel jihadismo internazionale. Quello che un tempo era il Terzo mondo oggi l’abbiamo in casa, è già qui tra noi, come si può vedere nelle difficili periferie europee.
Ora, dinanzi a un processo di trasformazione storica inarrestabile, e dinanzi alla quasi impossibilità di politiche sociali fondate su uno Stato-nazione sempre meno in linea con i tempi, una chance è data dalla ricerca utopicamente concreta di nuovi diritti di cittadinanza entro entità statali sempre più integrate su un piano sovranazionale. È l’idea di un’Europa sociale – di quello che l’Unione europea dovrebbe diventare, non di ciò che miseramente è.
Chiudersi quindi nella difesa di una sorta di purezza etnica – perché questo in fondo è l’attuale ius sanguinis italiano, con il suo richiamo al “sangue” che già suscita ribrezzo – è voler difendere, sull’ultimo baluardo, quell’arnese del passato che è lo Stato-nazione. Il mondo di domani non conoscerà una ridistribuzione del reddito tra i più ricchi a danno dei più poveri, come in parte fu la “socialdemocrazia reale”: e ciò anche perché i processi dell’economia a livello mondiale rendono pressoché impossibile la ripresa di quel discorso su basi ristrettamente nazionali. Il socialismo europeo del futuro, se ce ne sarà uno, per forza di cose sarà una sorta di esperanto da costruire in maniera artificiale mediante il superamento delle diverse appartenenze culturali e sulla base di una cittadinanza aperta e allargata. È questa che al momento le destre associate hanno affossato.