Pierluigi Bersanidi Rino Genovese

Caro Bersani, desidero anzitutto esprimerle una simpatia personale che non data da ora ma da quella volta, diversi anni fa, in cui la vidi dormicchiare di primo mattino su un trenaccio scalcagnato tra Piacenza e Bologna: autentico socialdemocratico emiliano che si recava al suo ufficio di modernizzatore, non così “omologato” da smarrire le proprie radici popolari, anzi in visibile controtendenza rispetto al presunto genocidio culturale che un apocalittico come Pasolini aveva considerato inevitabile perfino nella regione rossa per eccellenza. Anche con il suo pittoresco linguaggio (da ultimo, “la mucca nel corridoio” per indicare la crescente minaccia dell’estrema destra), lei appare un erede di quella cultura antropologica entro cui ebbe a formarsi la tradizione socialista italiana.

Io dunque mi accingo a votare per la lista messa insieme da lei e da altri. Sono stato un tifoso della scissione del suo gruppo, costituito da alcuni valenti giovani come Speranza e D’Attorre, dal Pd renziano. Tuttavia la mia previsione è che non andrete al di là di quello che oggi vi assegnano i sondaggi, semmai qualcosa al di qua, per la semplice ragione che – nonostante la scelta di Grasso come leader – siete percepiti nel paese come un ceto politico bollito.

Lo so, “bollito” è una parola un po’ forte, eppure non è senza averci riflettuto su che la uso. Lei e i suoi, da un certo momento in poi, le avete sbagliate tutte. Si cominciò – lo ha ammesso lei stesso – con il tenere in piedi molto più del necessario il governo Monti – un governo che ne ha combinati di pasticci, e il cui carattere punitivo nei confronti dei più deboli sembrava non avere altro fine se non la vendetta – e si terminò con le sue dimissioni da segretario del Pd dopo il fallimento della candidatura Prodi alla presidenza della Repubblica. Nel frattempo il nuovo fenomeno qualunquistico italiano, virtualmente di destra (vogliamo chiamarlo “il vitello nel corridoio”?), aveva avuto il tempo di venir su. Sentitasi tradita da una delle solite, per giunta insensatamente prolungata, “emergenze nazionali”, una parte dell’elettorato (il 3 o 4%) vi aveva voltato le spalle nel 2013 optando per i grillini. E adesso, cinque anni dopo, la sfida appare essere tra questo stesso neoqualunquismo e la coalizione berlusconiano-fascioleghista, non tra un inesistente centrosinistra e la destra. Sarà già tanto se i voti del Pd sommati a quelli della sua lista raggiungeranno quel 28-29 % che ottenne nel 2013, e non parve una vittoria, l’alleanza tra il suo Pd e Sel: cosicché, in fondo, dopo tutta la travagliata rottura con Renzi, la lista unitaria di sinistra non è nulla più che una ripetizione in piccolo di “Italia bene comune”.

Lei oggi parla di un “ripiegamento della globalizzazione”. Come dire: un tempo (alla fine del secolo scorso?) la globalizzazione fu qualcosa di buono, oggi non più, ha subìto un ripiegamento… Veramente la globalizzazione – come, con una certa approssimazione, si usa definire la storia che si aprì con la rivoluzione tecnologica e la caduta del sistema sovietico – non è mai stata altra cosa se non questo: un mondo sempre più segnato dalle diseguaglianze, a cui la cosiddetta “terza via” dei Blair e degli Schröder si adeguò. E lei, caro Bersani, con loro. Non ha forse contribuito lei stesso alle liberalizzazioni e alle privatizzazioni? Alcune di queste saranno state anche utili a smuovere le acque di un mercato bloccato, ma resta il fatto che le diseguaglianze aumentavano e la socialdemocrazia perdeva così il contatto con il suo retroterra sociale. Mentre in Francia, per esempio, sia pure per una breve stagione, si cercava una soluzione nella riduzione per legge dell’orario di lavoro (secondo lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti”), in Italia, a sinistra, si pensava che flessibilizzazione e precarizzazione sarebbero state un fattore di sviluppo; e quando esplose la grave crisi del 2007, con le sue lunghe conseguenze, non è che ci si dispose a qualcosa di diverso – fino alla inevitabile rivincita del berlusconismo di governo.

Insomma, una politica sociale d’investimenti pubblici, cioè quella ripresa di una forma d’intervento statale nell’economia che lei oggi giustamente propone, andava prospettata – a voler risultare credibili – fin dai tempi della “globalizzazione non ancora ripiegata su di sé” (per parlare la sua lingua). Lei non è percepito quindi come un Corbyn, come qualcuno che è restato per decenni in solitaria minoranza nel suo partito tenendo accesa una fiaccola socialista, ma come un dirigente politico, pur onesto e leale, che non ha saputo anticipare la crisi della sinistra e piuttosto ha contribuito ad aggravarla.

È per questa ragione, caro Bersani, che non mi aspetto granché dalla sua attuale impresa politica, pur riconoscendo che – meglio tardi che mai – è dalle cose che lei sostiene oggi che occorrerebbe ripartire.

Un sincero augurio per l’anno nuovo.