Giuliano Pisapiadi Paolo Bagnoli

Dopo la direzione del Pd è ancora più chiaro quello che nemmeno prima appariva scuro. Si riteneva, non a torto, che il risultato delle elezioni siciliane determinasse qualcosa di nuovo nei rapporti tra tutti coloro che dicono di volere la costituzione di un centrosinistra – di cosa, poi, politicamente si tratti è tutto da vedere –, ma la situazione è rimasta al palo. Si è mossa solo la schermaglia del politichese, di una bassa furberia. Insomma, uno spettacolo penoso. Se si trattasse di una compagnia di spettacolo, il ruolo di capo comico – anche se c’è ben poco da ridere – spetterebbe a Matteo Renzi che da tempo ha fatto capire di non volere alleanze. Figuriamoci poi se queste dovessero implicare la rimessa in discussione della sua figura e dei risultati del governo da lui presieduto! Renzi non vuole intese strategiche, ma nemmeno Pierluigi Bersani e il suo movimento, che pur dichiarano il contrario e si ostinano a sostenere che l’intesa si può fare a patto che ci sia discontinuità con Renzi. Ognuna delle parti vuole poter dichiarare l’altra colpevole della sconfitta. Nel mezzo c’è il “signor tentenna”, Giuliano Pisapia, i cosiddetti movimenti che, non considerati interlocutori da nessuno, non avrebbero voce nella spartizione dei seggi e i due presidenti delle Camere che, fino a quando ricoprono quei ruoli, forse farebbero bene a stare fuori dall’inconcludente contingenza. A ciascuno dei due un seggio e un ruolo, alla fine, sarà sicuramente riservato. Per quanto riguarda l’ala sinistra di tutto lo schieramento, il dato ideologico vero ci sembra essere il confusionismo.

È il triste scenario di oltre un quarto di secolo di vuoto della politica: il grado di alterazione malata cui siamo giunti. Ormai tutti danno per scontato che la coalizione di destra prevarrà vedendosela col M5S, che non credo sia così in crescita come taluni sondaggi indicano. Infatti, se guardiamo lo stacco nelle elezioni siciliane tra i consensi al candidato presidente e al partito, appare evidente più di una qualche incrinatura.

Le ragioni per cui – al di là dei patetici appelli di Walter Veltroni e delle battute, non meno patetiche, di Romano Prodi – Renzi non vuole un’alleanza che lo condizioni, sono sicuramente diverse, ma ci pare di poter dire che, comunque vada, il risultato recondito che gli sta più a cuore – e tiene nascosto – con questa legge elettorale lo porta a casa: alludo al controllo del gruppo parlamentare, anche se questo sarà dimagrito di diverse unità. Renzi avrà finalmente un partito tutto suo. Il suo è un comportamento che si regge su un ragionamento le cui radici affondano nella suggestione veltroniana del partito a vocazione maggioritaria che, in un passaggio importante quale quello delle elezioni europee, quando il Pd raccolse il 40% dei suffragi, apparve essere confermata dai fatti. Ma fu un passaggio, appunto, e, come apparve, subito dopo scomparve. Che ci sia uno zoccolo duro del paese pari al 40% – o vicinissimo a tale percentuale – a favore del Pd (ossia di Renzi) è un puro abbaglio. Ma Renzi è più che convinto che sia così e su ciò fonda la sua sfida rivolta a tutti, compreso il proprio partito.

Ora, al di là di ogni valutazione di ordine psicologico sull’uomo, il ragionamento evidenzia una solida mancanza di lucidità politica che ci dice, da un lato, quanto egli abbia sofferto la sberla dell’esito referendario e, dall’altro, come non abbia fatto i conti seriamente con quel risultato ma l’abbia considerato un mero incidente di percorso. Un inciampo da cui lo avrebbero riscattato le primarie, che cita a ogni piè sospinto. Equiparare il voto europeo con quello referendario è sommare le pere alle mele: fin dalle elementari, ci hanno insegnato che è impossibile. Infatti, mentre i suffragi europei hanno la caratteristica di conformità politica, essendo stati raccolti da una lista partitica, quelli referendari ne hanno un’altra poiché ai referendum i voti sono trasversali e nessuno sa cosa c’è dentro quel voto, come nessuno sa cosa c’è dentro il 60% che ha respinto la proposta di riforma costituzionale. Secondo Renzi, però, chi ha votato alle europee il Pd sono quegli elettori che hanno poi espresso voto favorevole al referendum. Il ragionamento non sta in piedi politicamente poiché le pere non sono le mele.

Quella di Renzi è una vera e propria sfida che lancia alle forze politiche, al paese, a tutti, insomma, con un’ostinazione della quale gli va dato atto, ma in politica le sfide non si vincono da soli. Gli esempi abbondano. Un atteggiamento, tra l’altro, in contraddizione con la realtà, considerato che, senza Denis Verdini, la legge elettorale non sarebbe passata e di Verdini, tutto lascia capire, ci sarà ancora bisogno per la legge di stabilità.  E mentre Verdini ha assicurato che lui ci sarà, come sempre è avvenuto, Pietro Grasso e Antonio Bassolino se ne sono andati con toni aspri verso il partito e il suo segretario. I due abbandoni sono il sintomo di un malessere più che profondo e il Pd dovrebbe ringraziare Grasso per aver deciso di uscire dopo l’approvazione della legge elettorale. Cosa sarebbe successo se avesse abbandonato la carica rivendicando alla Camera che presiede il diritto di dibattere la legge elettorale? La legge sarebbe sicuramente decaduta, ma il gesto sarebbe stato sicuramente più significativo al fine di recuperare quella autorevolezza delle istituzioni continuamente calpestata. Forse l’intenzione di Grasso era veramente questa, ma forti freni lo devono aver trattenuto.

Il paese si trova di fronte a uno scenario del tutto nuovo i cui sviluppi non sono prevedibili. Si impone l’esigenza di ricostruire un sistema nello spirito della democrazia repubblicana, ma con quali forze e con quali partiti?