di Mario Pezzella

Non so cosa resti nell’attuale Movimento 5 stelle e nella Lega delle loro ispirazioni originarie. Nato come movimento antisistema, l’attuale gruppo dirigente ex-grillino si sta orientando verso un populismo tecnocratico di stile macroniano, pronto a misure dure sull’immigrazione, sulla sicurezza, sui diritti di cittadinanza. Quanto a Salvini, ormai fa concorrenza alla Meloni nel conquistare a livello nazionale i voti dei fascisti e di Casa Pound. In entrambi il tema del federalismo è passato in secondo piano, sempre più sostituito da “Patria, sicurezza e ordine”.

Per quanto riguarda la Lega, comunque, non si è mai trattato di un autonomismo inclusivo, parte di un’Europa federale rinnovata, né di una contestazione reale del principio dello Stato-nazione. C’è un abisso tra un’Europa delle autonomie, che abbatterebbe i confini degli Stati nazionali, in una Federazione più ampia e inclusiva, e un’Europa delle piccole patrie nazionaliste e litigiose, in cui il nazionalismo fiorisce su basi territoriali più ristrette ma in modo ancor più virulento. Nel primo caso si cerca di superare il principio stesso dello Stato-nazione, nel secondo lo si applica in modo easperato ed estremo. Il leghismo degli inizi costituiva un’involuzione del vero federalismo europeo; il suo nazionalismo “padano” rifiutava i due pilastri paralleli, su cui il federalismo può reggersi, la dimensione europea e il socialismo sul piano dei rapporti economici (questa trinità dei termini era invece quella originaria di Spinelli e Calamandrei, la loro grande ma concreta utopia).

Cosa resta in ogni caso del secessionismo bossiano della Lega? (Secessionismo, non federalismo è in questo caso il termine giusto). Ben poco, come dicevo. In un ipotetico governo con i neofascisti e Berlusconi, tutto orientato a “ordine, securitarismo, emergenze e fuori i negri”, la Lega si avvia a trasformarsi in partito nazionale fortemente centralizzato. Potrebbe provare qualche contatto alternativo con l’ala neorazzista dei Cinque Stelle, ormai maggioritaria, ma non cambierebbe la sostanza di un populismo reazionario, accentratore, e tollerante con i poteri finanziari fino a ieri fieramente combattuti (a parole, perché mai la Lega ha messo in discussione l’assetto rigorosamente capitalistico della società).

Ancora una parola sulla Catalogna, che per diverse ragioni non ha nulla a che vedere con la Padania, come pure banalmente si insiste a dire su alcuni giornali padronali. La prima è che il discorso di Sua Maestà Felipe fa venire in mente quel brano famoso di un seminario di Lacan: tutti sanno che il Re è un imbecille, ma nessuno può dirlo, e tutto il sistema ruota intorno alla deformazione che questo indicibile provoca a ogni piega del discorso. Poi un giorno qualcuno dice in piazza la frase impronunciabile “Il Re è proprio e davvero un imbecille!” e il sistema si sgretola perché non può tollerare questa verità. Il Re è un imbecille per molte ragioni personali e politiche, ma soprattutto perché è un uomo qualunque che presume di incarnare un valore trascendente (per esempio la sacralità della Nazione). Il dislivello tra ciò che è veramente e lo pseudomito che pretende di rappresentare lo trasforma rapidamente in figura comica, come quando Charlot prende il passo del gentiluomo e sbatte il sedere per terra scivolando su una buccia di banana.

Ora, in tutti gli articoli sulla Catalogna mi sembra che manchi un elemento fondamentale, che per noi può essere irrilevante, ma che per i catalani è importante: la Catalogna è repubblicana, fin dai tempi della guerra civile, e combatte contro un Re imposto ed ereditato dal franchismo senza nessuna legittimazione democratica (anche se il padre dell’attuale provò a darsene una stroncando il colpo di Stato – quanto serio? – del baffuto colonnello Tejero).