di Massimo Jasonni
Il nome dell’attuale ministro Graziano Delrio porta da tempo con sé, entro un universo politico italiano ogni giorno più infelice, un attimo di respiro, un momento di fiducia nei confronti di chi ci governa. Lo ricordiamo sindaco di Reggio Emilia per una serie di iniziative sociali meritorie e per una rigorosa cura dell’interesse pubblico, che logicamente lo hanno portato alla ribalta della vita politica nazionale.
Quando fu sfiorato da accuse di scorrettezza – accuse che in tempi di 5 Stelle e di divisioni in correnti del Pd ogni pubblico amministratore mette preventivamente in conto di poter patire – ebbe buon agio a subito dimostrarne l’infondatezza. Anche come ministro la sua voce ha denotato connotati positivi, a dire dei quali ne valga uno, per eccellenza: quando Renzi azionò e caldeggiò l’improvvida iniziativa referendaria, Delrio ne parve partecipe ai minimi del dovere di colleganza; in realtà ne risultò distante, e non solo ai palati più fini della politologia.
Ci fu, poi, un’occasione di proficuo incontro personale: chi scrive indisse nel novembre del 2013, presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Modena e Reggio Emilia, un convegno su Giuseppe Dossetti. Delrio accettò cortesemente l’invito di apertura dei lavori, non limitandosi a portare il consueto, vuoto saluto della Politica alle istituzioni accademiche, ma intervenne con una relazione colta e sensibile. Disse di alcuni tratti della vita reggiana di Dossetti preziosi per la ricostruzione della figura del padre costituente. Mostrò un approccio intellettuale, per il vero, estraneo alla pochezza politica che i rottamatori della Stazione Leopolda avevano da subito evidenziato.
Ora, dopo un periodo di silenzio comunicativo, veniamo invasi dalla notizia dello sciopero della fame del ministro Delrio. Poco importa se questo proclamato sciopero sia autonomo, o adesivo a quello proposto da altri; e altrettanto poco importa se esso meriti il vero e proprio, nobile nome di sciopero della fame, o viceversa ne sia, in quanto “sciopero a staffetta”, mero fantoccio, intollerabile mistificazione linguistica.
La storia del digiuno protratto, come testimonianza di un’ingiustizia e come protesta radicale, che chiama in causa la propria vita, è una storia antica, che risale ai più diversificati orizzonti religiosi e che ha notoriamente trovato nel dharma gandhiano il suo massimo punto di riferimento simbolico. Gandhi protestò in questo modo, ponendo così in gioco il bene più grande, contro un dominio inglese che asserviva l’India, umiliandone libertà e tradizioni. Furono poi le suffragette del XX secolo a manifestare in quel modo nelle prigioni inglesi, e così ebbero la meglio contro un potere costituito autoritario che paventò che quelle piccole, povere donne potessero guadagnare il consenso popolare come martiri.
Dunque chi sciopera in questo modo lo fa contro istituzioni di cui non può, per definizione, far parte.
Il dissenso che nei primi anni cinquanta animò Giuseppe Dossetti, vuoi nei confronti della Democrazia cristiana di De Gasperi, vuoi nei confronti di un’università arroccata su interessi corporativi e incapace di formare una classe dirigente, non portò a scioperi, né tanto meno a scioperi della fame, ma a dimissioni così precisate: «me ne vado, perché sono incompatibile con il sistema».
Non ce ne voglia il ministro Delrio: non si può evocare uno “sciopero della fame”, perché la gente capisca, come dice lui, o perché un governo, di cui si è partecipi, “riapra la partita”. Un NO così eticamente estremo la gente lo capisce se si è pagato un grave prezzo personale, se non è strumentale a meri aumenti dell’audience.