di Rino Genovese

L’articolo precedente di Bruno Jossa ha il merito di ricondurre l’attenzione sul nodo dell’autogestione delle imprese, cioè sulla sostanza di un socialismo che non voglia ridursi a un fallimentare e dispotico socialismo di Stato. Non v’è dubbio, a mio parere, che da qui dovrebbero ripartire le nostre riflessioni. Tuttavia – nel delineare il progetto di un rovesciamento delle parti in cui i lavoratori non più salariati ma associati si troverebbero a ricevere un reddito variabile e il capitale, al contrario, un reddito fisso in quanto finanziatore dell’attività produttiva – Jossa trascura di affidare un ruolo allo Stato, intendendo, con questo termine, non i vecchi e ormai declinanti Stati nazionali ma l’organizzazione statale sovranazionale e postnazionale (come potrebbe essere una Unione Europea profondamente trasformata). Senza il “cuscinetto” protettivo offerto da un’organizzazione del genere, il reddito aleatorio proposto dal mercato potrebbe portare alla rovina i lavoratori dell’impresa autogestita, laddove il capitale prospererebbe ancora grazie al suo interesse, sia pure fisso. L’organizzazione statale federale (in sintonia con un federalismo dal basso delle imprese autogestite) dovrebbe funzionare da prestatore in ultima istanza a tasso d’interesse zero. Del resto Proudhon – in cui si trovano delle sciocchezze, come pure delle buone idee – aveva già fatto del credito gratuito la chiave di volta di ogni mutualismo associazionistico.

Ma che ne sarebbe del capitale? Questo dovrebbe essere progressivamente dissuaso dall’operare offrendogli come indennizzo delle espropriazioni i titoli di Stato, o una partecipazione agli utili delle aziende autogestite, i cui manager sarebbero però eletti dai lavoratori stessi e i cui incarichi avrebbero una durata limitata e una remunerazione non superiore a quella media dei lavoratori. La questione resta sempre la destinazione del surplus. Si può ipotizzare che gli utili siano reinvestiti nell’attività produttiva, o che siano indirizzati al miglioramento delle infrastrutture, al soddisfacimento dei bisogni collettivi, come quello della mobilità urbana. Anche qui la federazione statale avrebbe un suo ruolo: quello di arbitro in eventuali conflitti. La stessa organizzazione sindacale avrebbe ancora una funzione da svolgere nell’indicare le modalità di ripartizione del surplus. Ci sarebbe allora ancora una burocrazia? Sì, ma essa dovrebbe essere limitata a poche funzioni di interesse pubblico, con un mandato elettivo, e soprattutto i suoi addetti dovrebbero essere revocabili con una votazione, a seguito di una richiesta firmata da un certo numero di cittadini.

Ciò che appare determinante – pur nell’evidente difficoltà, in questo campo, di proporre un disegno compiuto del socialismo – è il rilievo man mano decrescente dato alla finanza, soprattutto se si pensa alla sua elefantiasi odierna. Se la proposta di un credito gratuito, avanzata a suo tempo da Proudhon, fosse combinata con un intervento molto forte sulle successioni (attraverso una fiscalità progressiva che, di fatto, toglierebbe i patrimoni più rilevanti dalla mano privata e li trasferirebbe a quella pubblica), in un primo tempo la funzione creditizia statale sarebbe ancora determinante, ma, a poco a poco, con il deperimento della grande proprietà privata e del capitale, le stesse imprese autogestite si finanzierebbero da sé mediante il reinvestimento di una parte del surplus prodotto in una banca anch’essa autogestita e a sorveglianza statale. Le imprese che finissero in difficoltà si rifinanzierebbero così ricorrendo al fondo comune.

Tutto ciò farà naturalmente drizzare i capelli sul cranio a molti nostri lettori, perfino compagni e amici. È utopia! Ma, poiché l’utopia serve all’oggi, ai compiti del presente, c’è da aggiungere che già la semplice idea di combinare insieme autogestione e federalismo statale – se pensiamo che gli Stati nazionali vadano abbandonati al loro triste destino – dovrebbe spingere a non accettare come definitiva e senza alternative l’Europa attuale. Come pure, per qualcun altro, a smettere di desiderarne la dissoluzione che sarebbe un passo indietro.