Chantal Mouffedi Rino Genovese

In Le monde datato 16-17 aprile, si può leggere un intervento di Chantal Mouffe a favore del “riformista radicale” Jean-Luc Mélenchon. La filosofa belga con connessioni argentine (suo marito e sodale è stato Ernesto Laclau, teorico del peronismo oggi scomparso) cerca di spiegare la differenza tra un populismo di destra, come quello di Marine Le Pen, che vuole restringere la democrazia ai soli francesi, e il populismo di sinistra di Mélenchon, che intenderebbe al contrario estenderla, costruendo e federando un “popolo” attorno a un progetto di révolution citoyenne. Non la distinzione destra/sinistra sarebbe costitutiva della politica democratica, quanto piuttosto quella di un “basso” contro un “alto”, cioè di un popolo contro un’oligarchia.

La declinazione peronista della nozione di “sovranità popolare” – è l’aspetto interessante della cosa – appare abbastanza esplicitamente richiamata. Secondo Mouffe l’attuale situazione  europea d’impoverimento delle classi medie sotto un’egemonia neoliberale, avvicinerebbe di fatto la politica del vecchio continente a quella dell’America latina. La ricetta proposta non si discosta allora da quella del Perón del 1945, che costruì un popolo e una nazione attorno a una lotta contro l’oligarchia.

Tuttavia l’esperienza peronista era basata sui sindacati, su un movimento operaio organizzato e preesistente, a cui peraltro il peronismo tolse via via gran parte della sua autonomia rendendolo parte di uno Stato corporativo. Su quale movimento sociale si basi oggi Mélenchon non è dato sapere. Il suo relativo successo è dovuto soltanto alla delusione prodotta dalla presidenza Hollande e alla conseguente baraonda in cui è finito il socialismo francese. A differenza del carismatico Perón, che pure giunse al potere per via elettorale, il carismatico Mélenchon non ha niente di più, dalla sua, che una strategia elettorale. È vero che non si fa sostenitore di un nazionalismo esplicito come quello di Marine Le Pen (la quale, a sua volta, si è espressamente richiamata al peronismo), ma è anche vero che la sua stessa concezione “nazionale-popolare”, nel contesto europeo odierno, è ambigua e foriera di confusione.

Occorre distinguere i concetti di nazione e nazionalismo a seconda dei periodi storici. Una cosa era la nazione dei giacobini nella rivoluzione francese, un’altra quella dei nazionalismi nel Novecento. Certo, al centro c’è sempre il “popolo” – ma quale popolo? Nel nazionalismo di Perón, nelle condizioni dell’Argentina del suo tempo, c’era un contenuto anticolonialista e antimperialista: ciò faceva sì che il popolo fosse contrapposto a un’oligarchia “al servizio dello straniero” inglese o statunitense. La sinistra peronista e la sua parabola tragica, del resto, trovano qui la loro origine.

Ma dov’è oggi, in Europa, una nazione che possa definirsi oppressa? La si potrebbe soltanto inventare di sana pianta. E che cosa significherebbe oggi, in Europa, una rottura con Bruxelles – una sorta di Brexit generalizzata – se non un ritorno non alla nazione dei giacobini ma a quella dei nazionalismi del primo Novecento? Sebbene Mouffe, nel suo articolo, chiami in causa la “guerra di posizione” di Gramsci, il rapporto con il pensatore comunista è molto flebile. Gramsci aveva ben chiara la differenza tra un “nazionale-popolare” a guida operaia e contadina, dentro un conflitto di classe,  e il nazionalismo delle borghesie e degli Stati europei. Il discorso a favore di un “populismo di sinistra” fa di ogni erba un fascio (è il caso di dire) e in fondo si riduce all’idea che l’ “autonomia del politico” possa tutto – anche costruire un “basso” contro un “alto”, prescindendo da un conflitto sociale specifico. È il “politico” (nel caso perfino l’uomo politico Mélenchon) che fa il “sociale”, non viceversa, come nella tradizione socialista.

La strategia della “guerra di posizione” di Gramsci, invece – questa sì ascrivibile a una politica di riformismo radicale –, ruotava intorno alla questione di un’egemonia da innestare gradualmente nel tessuto sociale (non semplicemente mediante gli slogan di una campagna elettorale). E non rompeva con la distinzione destra/sinistra: piuttosto la riformulava, distinguendo a ogni passo una sinistra da una destra, cercando così di evitare che un solo “nemico”, un unico blocco degli interessi conservatori, venisse a formarsi (come di fatto, nel momento in cui Gramsci svolgeva la sua riflessione, era già avvenuto con il fascismo). La prospettiva della contrapposizione frontale contro un’oligarchia può diventare suicida (si pensi a come poi sono andate le cose in Argentina), oppure è semplice aria fritta se non abbia alle spalle un conflitto sociale apertamente dispiegato.