Altri tempidi Giancarlo Scarpari

Nell’Italia repubblicana le anomalie istituzionali non sono mai mancate. Le cronache giudiziarie di cinquant’anni fa riportavano abitualmente i nomi di questori, vice-questori e ispettori generali di Pubblica Sicurezza che apparivano impegnati nel coordinare indagini giudiziarie, i cui risultati erano dagli stessi anticipati nel corso di abituali conferenze stampa.

Erano prassi e comportamenti arbitrari, perché quei funzionari non rivestivano la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria e perciò, secondo il codice, non potevano dirigere le indagini della magistratura, né tantomeno divulgarne i contenuti.

A queste prassi – che violavano innanzitutto, in modo manifesto, l’art. 109 Cost., secondo cui la polizia giudiziaria dipendeva dalla magistratura e non da altre autorità – reagì il procuratore generale della Corte d’Appello di Firenze, Aldo Sica, con una circolare del luglio 1966, con cui puntualizzò i compiti preventivi spettanti alla polizia di sicurezza e quelli repressivi di competenza della polizia giudiziaria; sottolineò che unico destinatario dei risultati delle indagini promosse da quest’ultima era il magistrato, che la comunicazione di tali notizie ad altri soggetti costituiva violazione del segreto istruttorio e che se un questore avesse in concreto diretto quelle indagini avrebbe commesso il reato di usurpazione delle pubbliche funzioni.

Sembrava un fermo richiamo al rispetto dei valori della Costituzione e al rispetto della divisione dei poteri e manifestava, inoltre, un esplicito impegno a reprimere quegli abusi, ma, in realtà, a quelle parole non seguirono i fatti e la circolare si rivelò la mera reazione di un singolo alla “offesa” fatta alla corporazione: questori e vice-questori continuarono a tenere conferenze-stampa auto-celebrative e nessuno di loro fu mai incriminato per i reati indicati dall’alto magistrato.

Anzi. Dopo l’autunno caldo e l’inizio della strategia della tensione gli interventi di pubblici funzionari, civili e militari, che stampa e televisione continuavano a indicare come i gestori delle indagini su fatti eversivi, su attentati dinamitardi, su sequestri di persona, si moltiplicarono a macchia d’olio: Magistratura democratica dedicò al fenomeno un’indagine accurata, pubblicando (su «Quale Giustizia», n. 2, marzo-aprile 1970) brani tratti dai maggiori quotidiani – dal «Corriere della sera», a «La Stampa», a «La Nazione», ecc. – che raccoglievano le dichiarazioni sulle indagini in corso rilasciate dal questore di Milano, Marcello Guida (atte a veicolare tutta la narrazione pubblica sulla colpevolezza di Valpreda) o che evidenziavano come gli arrestati per una manifestazione di “contestatori” pisani fossero stati interrogati non solo dal procuratore della Repubblica Tanzi, ma anche dal questore Perris e dal prefetto (!) Tirrito. Per non parlare delle indagini “coordinate” dai vari Santillo a Reggio Calabria, Parlato a Roma, Zambarelli a Palermo, tutti questori, ovviamente estranei alla polizia giudiziaria formalmente incaricata delle operazioni.

L’esposizione mediatica di questi funzionari, massima durante la stagione dell’emergenza, andò via via scemando in concomitanza col mutare della tipologia dei processi trattati dalla magistratura, sempre più impegnata, soprattutto nelle sedi del Nord, ad affrontare, dopo quella terroristica e mafiosa, una nuova “emergenza”, quella causata dalla crescente diffusione della corruzione sistemica.

In questi processi, nei quali noti imprenditori e uomini politici finivano sul banco degli imputati, la presenza di questori e di vicequestori accanto ai magistrati inquirenti fu ritenuta inopportuna dagli stessi funzionari (le cui carriere, a differenza di quanto successo in precedenza, poco avevano da guadagnare da simili apparizioni), per cui al loro posto, al tavolo delle conferenze-stampa, cominciò a prendere posto, insieme al pubblico ministero titolare del fascicolo, l’ufficiale della polizia giudiziaria che effettivamente aveva condotto le indagini.

Questo accostamento mediatico, se in taluni casi aveva solo carattere formale, in altri rivelava invece una raggiunta sintonia di intenti tra il magistrato dell’accusa, deciso ad agire senza timori reverenziali e il dirigente di una polizia giudiziaria, consapevole ormai della (relativa) autonomia raggiunta rispetto ai propri superiori gerarchici. Tutto questo era stato favorito dall’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, che, nelle disposizioni di coordinamento, aveva dedicato ben 15 articoli per disciplinare e garantire l’attività di quei collaboratori del magistrato, confermando che nessuno di loro poteva essere trasferito, né i loro dirigenti potevano essere allontanati dal servizio senza il parere vincolante del procuratore generale della Corte d’Appello da cui dipendevano. E contro eventuali procedimenti disciplinari erano previsti contraddittorio, garanzia e possibilità di ricorso che impedivano comunque silenziose rimozioni o punizioni dei funzionari “sgraditi”.

In questo clima e con magistrati ed ufficiali “diversi” da quelli che operavano negli anni sessanta, P.M. e P.G. poterono attivarsi in direzioni un tempo vietate, elaborando nuovi metodi di indagine (con l’istituzione dei pool di magistrati), affinando le modalità degli interventi (estesi ora anche ai patrimoni degli indagati), dando così attuazione, almeno in parte e nei casi virtuosi, al dettato dell’art. 109 Cost.: questa stretta collaborazione tra magistrati e sezioni locali di polizia giudiziaria ha caratterizzato infatti le maggiori inchieste giudiziarie degli anni novanta e oltre, E tuttavia i problemi segnalati nella circolare del 1966, anche in seguito, sono stati risolti solo in minima parte.

La pubblicità data agli atti delle indagini, da sempre sbrigativamente addebitata ai pubblici ministeri, se oggi non è più opera dei “questori giudiziari”, è praticata di frequente dai dirigenti dei Nuclei dei carabinieri o della Guardia di Finanza che, nell’annunciare brillanti operazioni, da tempo forniscono in tempo reale ai telegiornali le trascrizioni delle telefonate intercettate o la copia dei mandati di cattura emessi nei confronti di questo o quell’indagato: la vicenda di Mafia capitale e dell’immediata diffusione mediatica di quei documenti è stato solo uno dei tanti casi, e certo uno tra i più eclatanti.

Ma è soprattutto sul versante delle interferenze nelle indagini che si sono registrate importanti novità: spariti anche qui dalla scena questori e prefetti, a operare nell’ombra sembrano essere ora, in alcuni casi, gli stessi vertici della gerarchia: nella vicenda del Mose – che ha rivelato l’esistenza della maggior trama corruttiva sviluppatasi in Italia per un decennio – è stato il generale della Finanza, Emilio Spaziante, a ottenere da un sottoposto notizie coperte da segreto, informazioni poi trasmesse al principale imputato per favorirlo nel tentativo di vanificare l’indagine in corso (il generale, scoperto e indagato dalla stessa P.G., è stato poi processato e condannato, con il patteggiamento, a 4 anni di reclusione); nella più recente vicenda Consip non uno, ma due generali, Emanuele Santalamacchia e Tullio Del Sette sono stati anch’essi indagati per aver divulgato notizie coperte dal segreto, sempre al fine di avvertire questo o quell’indagato dell’esistenza di accertamenti nei suoi confronti.

Vari segnali sembrano dunque confermare che le notizie riservate delle indagini continuano a defluire verso l’alto, con risultati volti a incidere pesantemente sul prosieguo delle stesse. È vero che, quando il responsabile viene scoperto, sono gli stessi ufficiali di P.G., che, garantiti dal magistrato, arrestano il loro “superiore”, come è avvenuto appunto nel caso Spaziante. Ma rimane il problema di fondo che è quello di prevenire la possibilità che simili comportamenti possano reiterarsi e l’unica strada percorribile è quella di garantire in modo più efficace l’autonomia operativa dei magistrati e dei loro collaboratori in divisa, dando finalmente completa attuazione alla previsione costituzionale dell’art. 109 Cost.

Ma il governo Renzi ha inteso procedere in senso diametralmente opposto. Dopo aver rottamato 47 articoli della Carta, nell’estate del 2016 ha deciso di cancellare, di fatto, anche quello testé citato, ricorrendo non solo a una legge ordinaria, ma inserendo in modo surrettizio la “riforma” in un testo normativo riguardante «Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato» (D. Lgs. 12.09.2016, n. 213); e per nascondere meglio la novità, l’ha inserita nella disposizione «transitoria e finale» posta a chiusura del decreto.

Perché tanta circospezione? Per il semplice fatto che questa norma stabilisce che i «responsabili di ciascun presidio di polizia interessato» avranno d’ora in avanti l’obbligo di trasmettere «alla propria scala gerarchica» e cioè ai vertici della Polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri del Corpo della Guardia di Finanza «le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale».

Più chiaro di così! Non si tratta dunque di una razionalizzazione della polizia di sicurezza, come vorrebbe far credere il decreto, quanto piuttosto di un deliberato attacco all’autonomia operativa della polizia giudiziaria e quindi della magistratura a essa collegata. Il legislatore non spiega – né potrebbe del resto farlo – quale rapporto vi sia tra un riordino sul territorio delle varie forze di polizia e la sistematica violazione del segreto investigativo; ma l’interprete può bene evidenziare, invece, il rapporto che si determina tra questa comunicazione verso l’alto e quella successiva verso il basso che i vertici potranno veicolare magari sotto forma di richiesta di chiarimenti, di precisazioni, ecc.

L’interferenza che sino a oggi, dunque, poteva essere praticata solo in forme riservate e nell’ombra (e poteva essere sanzionata, una volta scoperta), d’ora in avanti potrà avvenire lecitamente e alla luce del sole, consentita, e anzi facilitata, da questa ennesima novella. I superiori gerarchici degli ufficiali e degli agenti di P.G. potranno così monitorare in tempo reale l’attività dei sottoposti (e quella dei magistrati), poiché già la comunicazione della notizia di reato indicherà chiaramente l’area di intervento, gli obiettivi dell’indagine e la tipologia dei soggetti “attenzionati”. Si tratta dunque di una strada tutta in discesa per poter seguire, controllare e di conseguenza condizionare gli eventuali sviluppi delle indagini.

Non si è trattato certo di un’iniziativa estemporanea. Nell’estate del 2016, quando Renzi poteva contare sull’Italicum già divenuto legge e marciava fiducioso verso la conferma della sua riforma costituzionale, il progetto di accentrare poteri nell’Esecutivo poteva dirsi già in fase di avanzata attuazione: la sinergia tra la legge elettorale e la riforma del Senato consentiva, in prospettiva, al partito di governo, grazie all’abnorme premio di maggioranza, di egemonizzare la Camera, rendendo una parola vuota il previsto controllo parlamentare; si trattava allora di completare il quadro e di indebolire anche il controllo di legalità esercitato dal “terzo potere”, nel tentativo di tutelare l’Esecutivo e le sue articolazioni locali da possibili “incursioni”della magistratura; di qui l’opportunità di una leggina volta a conoscere per tempo le concrete iniziative del P.M., con la conseguente possibilità per i vertici di intervenire sulle indagini, tramite il controllo e il condizionamento del braccio operativo del magistrato.

Caduto il progetto complessivo grazie al voto referendario e all’intervento, sia pure cauto, della Corte costituzionale, la leggina è rimasta. Questa volta, però, nessun Procuratore generale ha reagito pubblicamente, nessun gruppo di magistrati ha sollecitato una riflessione sul punto: i tempi, anche in questo, sono cambiati e le “correnti” dei giudici sembrano oggi poco propense a interrogarsi sulle “questioni generali”, sempre più occupate, invece, a interessarsi del loro “particulare”.

Qualcun altro, però, avrebbe dovuto intervenire.

Nel preambolo del provvedimento si legge infatti che la novella è stata proposta dal «ministro per la Semplificazione e la Pubblica amministrazione, di concerto con il ministero dell’Economia e delle finanze, il ministro della Difesa, il ministro dell’Interno e il ministro delle Politiche agricole e forestali». È sorprendente che, nell’adottare un provvedimento che riguarda l’inizio dell’azione penale, il segreto delle indagini e che deroga al codice di procedura, al “concerto” non sia stato invitato quello della Giustizia.

Ebbene, il ministro Orlando non vi ha fatto caso, non ha protestato per l’esclusione: una volta varato il provvedimento, non l’ha commentato, preferendo chiudersi in un rigoroso silenzio.

Anche lui come gli altri, come tutti.