Trumpdi Rino Genovese

C’è un modo non superficiale di occuparsi del fenomeno Trump negli Stati Uniti, ed è quello di collocarlo nella storia di quel paese non come un fungo spuntato all’improvviso ma all’interno di una “lunga durata” i cui inizi risalgono ai coloni che, a partire dal Seicento, presero possesso di quelle terre sconfinate: i cosiddetti Pilgrim Fathers.

È quanto fanno con acume Emiliano Ilardi e Fabio Tarzia nel volumetto della collana “In breve” di Manifestolibri (2017), Trump un “puritano” alla Casa Bianca. Gli stessi, del resto, sono autori di un lavoro ben più corposo, apparso da Manifestolibri nel 2015, con il titolo Spazi (s)confinati: puritanesimo e frontiera nell’immaginario americano, in cui, come traspare già dal gioco della “s” tra parentesi, la tesi è la  seguente: gli Stati Uniti sono fondati sulla fascinazione degli spazi vuoti da conquistare e, al tempo stesso, sulla volontà d’introdurre confini in questi spazi (il mito della “frontiera”, che servì tra l’altro da carburante ideologico per lo sterminio dei pellirosse). È l’horror vacui il motore della storia americana, un fortissimo elemento immaginario che, a seconda dei casi, vede davanti a sé un mondo da costruire – il sogno americano – o un’immensa distruzione da sconfiggere (come nel 2001 con l’attacco alle Torri gemelle, che ebbe come conseguenze la legislazione di eccezione del Patriot Act, i prigionieri di Guantanamo posti al di fuori di qualsiasi diritto, e un bel po’ di guerre in Medio Oriente).

Quando il risvolto di questo immaginario rifà capolino, quando riappare il suo fondo oscuro, ecco la “caccia alle streghe” come negli anni cinquanta anticomunisti, ecco la contrapposizione all’Impero del Male, e oggi, con Trump, ecco l’angoscia nei confronti dell’immigrato – paradossalmente, in una terra di immigrati – che affolla gli spazi e sottrae porzioni di territorio (si calcola che gli ispanici in posizione “irregolare” negli Stati Uniti siano circa dieci milioni, e in certe zone “di frontiera”, o in certe periferie come si direbbe in Europa, si può vivere senza proferire una parola d’inglese e parlando soltanto spagnolo).

Può sembrare strano porre in relazione Trump con gli ultrareligiosi puritani fondatori degli Stati Uniti d’America. Lui non è forse il miliardario evasore fiscale, una specie di Berlusconi d’oltreoceano, che certo con il rigorismo religioso non ha molto a che fare? Al netto di una ortodossia confessionale obsoleta, tuttavia, qual è la componente essenziale del fenomeno Trump? Una volontà di purezza in un mondo, come quello contemporaneo, sempre più palesemente ibridato, caratterizzato da una mescolanza di culture antropologiche sostanzialmente ingovernabile. È a questo che ha reagito, in primis, l’America profonda: va ricordato che l’attuale presidente americano non è risultato vincente in nessuna città con più di un milione di abitanti. La globalizzazione economico-finanziaria, la delocalizzazione delle imprese? Reagire a questi veri e propri drammi che toccano la vita delle persone votando un trombone miliardario sarebbe del tutto contraddittorio se non vivesse, nell’immaginario, un elemento di derivazione religiosa di contrasto all’impuro.

Gli autori di questo volumetto hanno il merito di non essere, nell’analisi, né riduttivamente economicisti né politicisti ad oltranza, come sarebbero coloro che, magari influenzati da Laclau e dalla sua idea di “costruzione del politico”, volessero concentrarsi sul “populismo” di Trump. L’immaginario è qualcosa di più ampio, vive nel cinema come nelle serie televisive o nei videogiochi: è una struttura antropologica cui non si può opporre seriamente altro che una diversa componente della stessa struttura antropologica.

L’altra America, quella che portò all’elezione di Obama, non è morta evidentemente: ha soltanto ricevuto un colpo e subìto una battuta d’arresto. Ci sarebbe tuttavia da interrogarsi sulla vecchia e ben nota questione riassumibile nei termini del “complesso militare-industriale”. Fino a che punto, con Trump, questo grumo di interessi economici risulterà compatibile con un immaginario di derivazione puritana? È un interrogativo da porsi: perché all’ibridazione culturale contemporanea è collegato un aspetto di cui il lavoro di Ilardi e Tarzia non si occupa: quello della crescente perdita di differenziazione tra le sfere sociali. Un’America protezionista come quella prospettata da Trump, all’insegna di una nuova “dottrina Monroe”, non si troverebbe forse a riaffermare una netta autonomia della politica rispetto all’economia, e addirittura un primato di quella su questa, che appare oggi impossibile da sostenere?