Donald Trumpdi Lanfranco Binni

Il 27 gennaio, nel «giorno della memoria», il presidente degli Stati Uniti d’America ha firmato il suo editto contro i musulmani; ricordo che «musulmani» erano chiamati nei lager i deportati, per i loro corpi scavati dalla fame, dal gelo e dalle malattie. Pochi giorni prima Donald Trump aveva ricevuto l’entusiastico sostegno del premier israeliano Netanyahu al suo progetto di estendere il muro al confine con il Messico: «Il presidente Trump ha ragione. Ho costruito un muro lungo il confine meridionale di Israele e si è fermata tutta l’immigrazione clandestina. Grande successo. Grande idea». Rivedo i muri intorno ai ghetti ebraici, oggi riservati dagli israeliani ai palestinesi, per segregarli e rapinarne i territori. Nella crisi globale del capitalismo tutto si tiene, in cortocircuito: dalle guerre economiche tra Stati e continenti, ai conflitti militari sul campo, alle campagne terroristiche, alle concentrazioni oligarchiche e autocratiche dei poteri, al passato che non passa mai.

Quanto sta accadendo all’interno degli Stati Uniti d’America e nei rapporti tra gli Usa. e il mondo non permette letture di superficie. L’elezione di un neonazista alla presidenza del più forte impero occidentale non è un incidente della Storia, e Trump non è una macchietta mediatica; il cosiddetto «protezionismo» del sistema politico statunitense non è un ritorno al passato, e del resto il capitalismo statunitense non è mai stato autarchico e protezionista. Sono altri i ragionamenti da fare: quel fenomeno di concentrazione dei poteri che caratterizza la fase attuale del capitalismo internazionale, che trasforma gli Stati in fortezze per scontri globali, conclusa la fase di un progresso economico espansivo in presenza di mercati sempre più ridotti, e di catastrofi in atto (dai cambiamenti climatici in corso al prossimo esaurimento del petrolio), ha il suo epicentro profondo nel tempio del capitalismo imperialistico. La parola d’ordine America first non è soltanto un appello populista alla pancia razzista e violenta della «supremazia bianca» (certo, è anche questo), e non è una dichiarazione di rinuncia alle politiche imperialistiche: è anzi il rilancio, da posizioni rafforzate, da retrovie sicure e presidiate, di un capitalismo totalitario che si fa direttamente Stato per governare rigidamente l’economia, la società, i rapporti con il mondo.

È una riproposta del modello del “nazionalsocialismo” tedesco (Stato del popolo e del capitale), a superamento definitivo di ogni copertura “democratica”. Il capo che a raffica emana decreti autocratici è la “nuova” rappresentazione di un potere assoluto. Il disegno è apparentemente disordinato e contraddittorio: il bando antimusulmano di questi giorni colpisce soltanto sette paesi, e non le monarchie del Golfo che hanno le maggiori responsabilità nel terrorismo “islamico”, ma perché stupirsi? Con l’Arabia saudita e la sua guerra in Yemen la complicità è totale, in funzione anti-iraniana, e negli stessi giorni del presunto “isolazionismo” l’esercito americano in Yemen, con gli scarponi sul terreno, ha attaccato i “ribelli” sciiti, contro cui combatte l’Arabia saudita, rilanciando la strategia militare del “democratico” Obama.

Le “nuove” relazioni con la Russia, apparentemente divergenti dalla strategia di Obama, rispondono alla presa d’atto del protagonismo vincente di Putin nell’intera area mediorientale. Obama ha perduto in Siria, e l’efficace intervento politico-militare della Russia (ora anche in Libia) ha sconvolto il quadro geopolitico. Come rientrare in gioco? La carta dell’Isis e delle varie agenzie terroristiche di cosiddetta «matrice islamica» è sempre a disposizione, può sempre essere un utile pretesto per una rinnovata presenza sul campo. Vedremo nei prossimi mesi.

“Nuove” relazioni anche tra gli Usa e quello che Trump ha definito il «caos» europeo? L’Unione europea si sta disgregando. La Brexit è solo l’inizio di un processo di disintegrazione che nei prossimi due o tre anni, attraverso choc successivi, modificherà profondamente l’assetto geopolitico dell’intera area. Emergeranno in tutta la loro forza spinte diverse e conflittuali, si accentuerà la distanza economica e politica tra Nord e Sud Europa, tra Europa occidentale e orientale. Resisteranno i rapporti bilaterali tra Usa e singoli paesi europei sul terreno della “difesa comune” dell’area atlantica dall’influenza russa. Tornerà centrale la frontiera dell’avamposto ucraino, dove la Nato nel mese di gennaio di quest’anno ha dislocato truppe e armamenti, anche italiani, con il solito pretesto delle esercitazioni; la situazione si presta a provocazioni di ogni genere, dagli esiti imprevedibili.

Cerchiamo invece di prevedere le probabili reazioni a questi processi in atto. Innanzitutto all’interno degli Usa. Alle elezioni presidenziali non ha vinto il repubblicano Trump: ha perso l’oligarchia “democratica”, responsabile di politiche economiche che hanno devastato i ceti medi e le classi popolari. L’elezione di Trump determina un’ulteriore concentrazione del potere nei gruppi della speculazione finanziaria e del sistema economico militare, senza mediazioni politiche né coperture ideologiche. Si apre un confronto conflittuale e diretto tra i diversi interessi di classe, tra i molti e i pochi. Le reazioni di parte della società americana, delle istituzioni e dei movimenti d’opinione contro i primi decreti di Trump sul terreno dei diritti civili, potranno sviluppare orientamenti e pratiche di lotta politica antagonista, di progettualità alternative al nuovo corso autoritario del governo, rimettendo in gioco esperienze fino a oggi minoritarie ma profondamente radicate nella società americana, dai movimenti no-global alle tendenze socialiste (Bernie Sanders) e libertarie. L’«altra America» (di nuovo, dopo quella degli anni sessanta e settanta) ha molte esperienze da recuperare e rilanciare. Una nuova conflittualità politica all’interno della “metropoli” imperialistica ne indebolirà la potenza anche sul piano internazionale.

In Europa, la disgregazione di un’Unione europea mai nata politicamente comporterà processi di separazione tra i paesi del Nord, i paesi dell’area del Mediterraneo e quelli dell’Europa dell’Est. Assumeranno un nuovo ruolo i conflitti all’interno dei singoli Stati, e la questione della «sovranità nazionale» sarà declinata in prospettive radicalmente diverse: dalla chiusura nazionalistica (Polonia, Ungheria), all’ingresso di paesi dell’Est nell’area di influenza russa, a processi federativi di tipo nuovo, soprattutto nell’area mediterranea. Nei prossimi mesi, le elezioni in Olanda, in Francia e in Germania disegneranno un nuovo scenario. Diventeranno centrali, dopo i fallimenti del liberalismo e della socialdemocrazia, le questioni della “democrazia” e dei “socialismi” nelle più diverse aree del mondo: dalla declinazione cinese di un capitalismo di stato con funzioni di transizione governata e sostenibile a uno sviluppo del socialismo e come strumento di guerra economica all’impero statunitense, alle esperienze dei socialismi latino-americani, alla riemersione di elementi delle esperienze socialiste nell’Est europeo. A cento anni dalla rivoluzione russa del 1917, la rottura fondamentale e profonda della storia del novecento, il tema della libertà nel socialismo (massima libertà, massimo socialismo) sarà centrale in qualsiasi progettualità politica di alternativa all’agonia devastante del capitalismo finanziario.

Tutto questo, in Italia, ci riguarda direttamente. Ci coinvolge il nuovo assetto geopolitico del mondo, ci coinvolge l’agonia del capitalismo, ci coinvolge il ruolo di vassalli della Nato (con compiti speciali in Libia, ma non solo) e ci coinvolge la progettualità politica di una società in crisi da ricostruire, nel centenario non casuale di Caporetto. Il sistema politico italiano è imploso, e ancora prevalgono gli aspetti di disgregazione del sistema: l’isolamento di un’oligarchia stracciona e corrotta, la crisi strutturale di un’economia di rendita incapace di qualunque “crescita”, la svendita del paese alle incursioni speculative finanziarie, la distruzione del lavoro e dei diritti dei lavoratori, la disoccupazione giovanile al 40%, la tenace incapacità di affrontare processi strutturali come le immigrazioni dal Sud del mondo e le emigrazioni di intere generazioni, in un paese demograficamente vecchio. Quanto sta accadendo nelle zone del terremoto alle popolazioni marchigiane e umbre, abbandonate a un’“emergenza” infinita e senza soluzioni, è anche una metafora della situazione italiana. Intanto la nave dei folli, nel silenzio dell’elettore ignoto che il 4 dicembre, imprevedibile nei suoi numeri, ha assestato un colpo durissimo e profondo al sistema politico, difendendo l’integrità di una Costituzione mai attuata, continua la sua penosa deriva: a bordo, una destra fascistoide e razzista che non crede neppure a se stessa, un’ex “sinistra” nel panico che sta perdendo i suoi committenti europei e statunitensi, un’area di contestazione parlamentare che rischia di rimanere prigioniera di una concezione della politica come mera amministrazione astrattamente legalitaria (il diritto è terreno di conflitto), priva di una consistente visione politica. Su questo scenario bisogna essere chiari: le furbizie elettorali del Pd renziano, alimentate dall’inconsulto responso della Coste costituzionale sull’Italicum, tra Amato e Pilato e Napolitano (premio di maggioranza, capilista bloccati, gratta e vinci)aggraveranno la crisi di un partito che ha molte ragioni per resistere ma nessuna per esistere: con la guida dell’egolatra di Rignano che tiene in ostaggio per motivi personali un non governo della Repubblica, corre alla propria meritata autodistruzione; a sinistra del Pd, lamentazioni e piccole rendite di posizione; l’alternativa “di governo” del M5S è per ora un processo potenziale, lastricato di buone intenzioni e di forti limiti politicisti: manca un lavoro politico serio nei vari livelli della piramide sociale, costruendo in profondità nella società le condizioni di un governo che rovesci dal basso la piramide. La questione del potere non riguarda soltanto la “realtà” di un gioco politico istituzionale, compromesso da regole inquinate. E la “democrazia” è la lotta per la democrazia; in una società gerarchica ed elitaria, dominata da gruppi di potere, si costruisce dal basso verso l’alto e non viceversa. C’è bisogno di molta pratica sociale, non generica ma orientata a un cambiamento reale dei rapporti di forza tra le classi (la società italiana è rigida, non “liquida”), aggregando e organizzando, liberando soggettività consapevoli e rivoluzionarie. C’è tutto un mondo fuori dai ghetti di una politica privatizzata, e questo paese, le cui tradizioni di lotta sono state attaccate e deformate da decenni di involuzione democratica ha comunque un ricco retroterra di esperienze da ripensare, rilanciare, rimettere in gioco. Come raccomandava Capitini, ognuno si faccia centro, né capi né servi,democrazia diretta per la rivoluzione nonviolenta, potere di tutti. E Fortini: fate un buon uso delle rovine, proteggete le nostre verità. Il socialismo, almeno.