di Angelo Tonnellato
Che sia destinato a essere sostituito dal serraglio politico-istituzionale ideato dal tandem Boschi-Renzi o, come a questo punto sarebbe forse più giusto e sensato, da una stanza vuota, il Senato della Repubblica, evidentemente in preda a un vero e proprio cupio dissolvi, ha deciso di auto-sciogliersi e di dichiararsi, più o meno, un “morto che parla”. E tanto per disonorarsi definitivamente, e disperdere le sue stesse ceneri, ha approfittato della discussione della norma, già passata alla Camera, che avrebbe lasciato spazio all’«istanza di parte» (discendenti, eredi, ecc.) per la restituzione dell’«onore militare e [del]la dignità di vittime della guerra a quanti furono passati per le armi, addirittura senza processo, facendo anche ricorso alla intollerabile pratica della decimazione o per esecuzione immediata e diretta da parte dei superiori». Un atto riparatorio della memoria di centinaia di soldati praticamente assassinati dai loro superiori.
Il Senato – scusate se continuo a scrivere questo che è ormai diventato un nome comune di cosa con la maiuscola, memore di usi e costumi antichi – ha rifiutato «l’istanza di parte», ossia la semplice possibilità che a iniziativa dei discendenti o aventi causa degli assassinati fosse avviata una procedura soggetta all’alea dell’accoglimento o della reiezione. Insomma fra tanto parlare e straparlare istituzionale di “memoria”, ha negato ai cittadini italiani, discendenti da quei soldati, il diritto di poter aver ragione o torto in una sede appropriata e proceduralmente regolata per legge. Ai cittadini il Senato risponde con una pernacchia. Come disse Adolfo Omodeo alla canea monarchico-fascista napoletana: «La feccia di Romolo ricusa di ricevere il sigillo della Repubblica di Platone». E costringe la Repubblica, che una volta si diceva nata dalla Resistenza, a “coprire”, come un qualunque malfattore, alcune centinaia di veri e propri omicidi, continuando a spacciarli per casi di esemplare giustizia militare. Ciò che è gravissimo, nella decisione di quel che resta del Senato della Repubblica, non è, però, tanto o solo questo incivile e selvaggio diniego, ma la vergognosa idea di surrogare la possibilità di esperire la riabilitazione con il solito contentino che in certi ambienti si fa balenare ai complici rivali: una odiosa e offensiva indulgenza plenaria del tipo: suvvia, i vostri nonni o bisnonni erano colpevoli, ma noi magnanimamente li perdoniamo.
I giornali dicono che questa brillante Caporetto senatoria ha avuto due strateghi: un eterno balilla berlusconiano, da una parte, e un omologo Pd dall’altro. Non voglio qui nemmeno registrarne i nomi per non doverli ospitare neanche in una goccia d’inchiostro. I perché come sempre in Italia si sprecano: da un lato, un atto di servilismo verso la corporazione militare; dall’altro, una inibitoria di possibili azioni risarcitorie. La prima “ragione” credo francamente che sia una falsità. Un generale o ammiraglio, ma anche un semplice caporale, di oggi schierato a difesa dei metodi di Cadorna avrebbe bisogno non di compiacenze ma di uno psichiatra. Quindi, l’atto di riguardo verso gli alti gradi è solo una millanteria. Alla seconda “ragione” si può facilmente replicare che un paese che può permettersi il lusso di pagare gli stipendi dei senatori può ben correre il rischio di indennizzare i discendenti dei soldati eventualmente assassinati. Con ciò, credo di aver spiegato la prima parte del titolo del mio intervento.
Senatoria iurisdictio obtusior
La seconda parte del titolo richiede una precisazione. Quando volle fare memoria della sua esperienza di tenente di complemento comandato dal suo colonnello a fare l’avvocato difensore di otto soldati a rischio di pena di morte durante la Grande Guerra, Piero Calamandrei intitolò il suo scritto Castrensis iurisdictio obtusior [si legge ne «Il Ponte», XII, 1956, pp. 401-408].
Calamandrei non lo dice, ma aveva ricavato il titolo da un brano dell’Agricola di Tacito: «Credunt plerique militaribus ingeniis subtilitatem deesse, quia castrensis iurisdictio secura et obtusior ac plura manu agens calliditatem fori non exerceat». Traduciamo per i nostri senatori: «È opinione diffusa che agli uomini d’arme faccia difetto l’acume intellettuale, perché l’amministrazione militare della giustizia – priva di dubbi, troppo rigida e che spesso ricorre alla forza – non sviluppa le sottigliezze del foro». Rispetto all’esercito di Cadorna i tempi sono cambiati. E non da oggi. I nostri ufficiali sono tra i pochi italiani che parlano le lingue, vivono e operano all’estero, in sinergia con colleghi di altre nazioni e spesso operando in situazioni difficili. Meritando stima, rispetto e ammirazione. Da qui, e con convinzione, la sostituzione: senatoria iurisdictio obtusior.
In cosa consiste il racconto di Calamandrei? Presto detto. Dodici soldati anziani vengono prelevati dalle retrovie e scaricati al fronte nel pieno di una battaglia. Senza indicazioni, né istruzioni. Andate avanti. Girano tutta la notte, al buio, terrorizzati, senza nessun eroico ufficiale alla loro guida, e non riescono a trovare il reparto cui sono stati assegnati. All’alba li trovano i carabinieri. I quali prima li accompagnano a destinazione e poi li denunciano, per così dire, «a piede libero». I dodici prendono parte a tutti i combattimenti della loro unità; due muoiono, due vengono feriti e ricoverati, otto continuano a combattere. Dopo tre settimane un generale di divisione si ricorda di loro e incarica un colonnello suo sottoposto di provvedere. Il colonnello istituisce una larva di corte marziale. E ordina a Calamandrei di fare il difensore. La mattina della farsa ci sono già i reparti schierati per la fucilazione e il prete per la benedizione. Calamandrei dice solo una cosa: l’organo è incompetente perché a tre settimane dai fatti sono venute meno la necessità e l’urgenza della «giustizia esemplare». L’accusatore, un ufficiale di complemento e avvocato padovano, prima si imbestialisce e terrorizza il colonnello, poi fa sua la tesi di Calamandrei. La raccogliticcia corte marziale si spoglia della “pratica” e ne investe il tribunale militare permanente di Valdagno. Che manda assolti gli otto.
Ha ragione Paolo Rumiz. La senatoria iurisdictio obtusior fa male anche all’esercito perché impedisce una ricognizione dei molti casi in cui la giustizia militare fu all’altezza della situazione e, nonostante le pressioni del ringhioso Cadorna e dei suoi cagnotti, si comportò con onore e umanità. Quegli otto per fortuna al fronte trovarono Calamandrei. Altrimenti sarebbero finiti nella lista dei traditori senza esserlo. I tanti che in casi analoghi ai loro trovarono un carabiniere o un ufficiale o un plotone pronti a giustiziarli o decimarli senza fare e senza farsi domande. Quegli otto sono stati fortunati. Quegli altri no: dopo cent’anni hanno trovato il Senato pronto a giustiziarli per la seconda volta.