[Le nostre ragioni di un no. Altri interventi di Paolo Bagnoli, Luca Baiada, Francesco Biagi, Lanfranco Binni, Gian Paolo Calchi Novati, Rino Genovese, Ferdinando Imposimato, Massimo Jasonni, Mario Monforte, Tomaso Montanari, Mario Pezzella, Pier Paolo Poggio, Marcello Rossi, Giancarlo Scarpari, Salvatore SettisValeria Turra]

Al referendum sulla riforma costituzionale voterò no. Voterò no innanzitutto per una pregiudiziale etico-politica. Il parlamento in carica è stato a suo tempo eletto con una normativa colpita in punti nevralgici da una declaratoria di illegittimità pronunciata dalla Corte costituzionale. Esso non aveva e non ha, e mai potrà avere finché rimarrà attivo, titolo politico per poter decentemente mettere mano a una revisione della Carta.

Vorrei ricordare che alla pronuncia della Consulta del 2014 si pervenne non per vie oblique, ma maestre, grazie all’azione promossa da un cittadino elettore che riteneva – e la Consulta gli ha dato ragione – di aver dovuto col suo voto concorrere a un processo elettorale gravemente distorto da una legge elettorale posta ad agire – cito dall’esposizione della causa petendi fatta dalla sentenza – «in senso contrario ai principi costituzionali del voto “personale ed eguale, libero e segreto” (art. 48, secondo comma, Cost.) e “a suffragio universale e diretto” (artt. 56, primo comma e 58, primo comma, Cost.)».

Che un’assemblea sortita per effetto di una tale legge elettorale potesse non sentirsi tenuta alle dimissioni è questione che pone l’Italia al livello di una qualsiasi repubblica delle banane.

Nel merito, la riforma disegna una sorta di regime del capo del governo e, in accodamento, dei capi dei partiti. Ne traccia, per così dire, la sinopia, riempita poi dall’Italicum, che della revisione è la vera cartina al tornasole, checché ne dicano i sostenitori del impegnati a negare l’effetto di combinato disposto dei due complessi normativi invero con un argomento pateticamente formalistico, un mero espediente verbale, quello secondo cui i due piani vanno tenuti distinti perché si vota sulla riforma della Carta e non sulla legge elettorale.

La riforma Renzi-Boschi, a parte il cattivo italiano in cui è scritta, non solo non si pone in alcun modo il problema di rimediare al costante degrado della rappresentanza – che è poi il problema della partecipazione e quindi l’essenza della democrazia – ma lo aggrava ulteriormente. Disegna un Senato che o si ridurrà a luogo psico-terapeutico per consiglieri regionali frustrati o diventerà un conflittuale e (nella imperscrutabile e continua variabilità della sua composizione) produttore di instabilità.

Sarebbe tuttavia ingiusto caricare sulle spalle di Renzi e Boschi più di quanto hanno in proprio la responsabilità di portare. Questa riforma nasce nella scia dei governi del presidente che hanno caratterizzato gli ultimi anni di Napolitano al Colle. E su cui siamo rimasti timidamente impacciati e reticenti. Nella storia delle prassi costituzionali, di cui sono largamente fatte le storie costituzionali, quelle iniziative si inscrivono come una turbativa dell’equilibrio dei poteri. Quale che fosse la bontà delle intenzioni. Perché, a ben guardare, esse sono state certamente un effetto della debolezza del parlamento e dei partiti; ma anche la causa di una ulteriore dilatazione di quella debolezza. La storia dei “saggi” riuniti al Quirinale per scrivere – indirettamente, certo, e ad adiuvandum – uno o più pezzi del programma di governo è una pagina opaca della nostra storia recente. Occorre quindi interrompere la risacca. Una buona ragione per votare no.