Stiglitzdi Nicolò Bellanca

Il dibattito sul destino di un’eurozona sempre più a rischio deflazione, è difficile da seguire per i non economisti. La pubblicazione del volume di Joseph Stiglitz, The Euro: How a Common Currency Threatens the Future of Europe (New York, W. W. Norton & c., 2016), migliora la situazione, grazie alla chiarezza divulgativa e al prestigio intellettuale dell’autore.

La moneta unica richiede un cambio fisso fra le diverse nazioni e un singolo tasso di interesse. Affinché l’integrazione monetaria potesse funzionare, i paesi europei avrebbero dovuto convergere tra loro, in particolare allineando il loro debito e deficit in rapporto al pil, mentre l’Europa politica sarebbe dovuta intervenire con adeguate istituzioni: un’unione bancaria che tutelasse i depositi, programmi di solidarietà verso i paesi che stentavano a convergere, una quota significativa di mutualizzazione dei debiti pubblici nazionali, un bilancio comunitario con un ministro delle Finanze europeo, tasse comuni sulle transazioni finanziarie e sui grandi patrimoni, un piano di investimenti pubblici finanziato a livello continentale e una banca centrale in grado di orientare l’economia reale.

Poiché tutto ciò non è successo, la moneta unica è diventata una camicia di Nesso per le economie nazionali più deboli: in particolare, senza la possibilità di manovrare i tassi di cambio, e dunque di svalutare la moneta per migliorare temporaneamente la propria competitività, le crisi di domanda sono ricadute direttamente su occupazione e salari. Data una simile diagnosi, il principale suggerimento di Stiglitz sta in una sorta di divorzio consensuale che conduca alla coesistenza di due euro. I paesi del Nord, ricchi e stabili, avrebbero un euro forte e un minimo di svalutazione dei propri crediti. L’altro euro, con cambio più debole, varrebbe per i paesi del Sud. I debiti andrebbero ridenominati, possibilmente nel nuovo euro del Sud.

Ovviamente, simili proposte, avanzate da un premio Nobel, non passano inosservate. Gli economisti dell’establishment lamentano che esse alzerebbero il livello di rischio percepito dai mercati, che gli operatori economici reagirebbero, scatenando corse agli sportelli, fino a provocare i default di debiti sovrani e privati. La loro non è una risposta scientifica, bensì l’invocazione di una profezia che dovrebbe autorealizzarsi e che, come tale, dovrebbe rendere impotente qualsiasi tentativo di modificare la “realtà dei mercati”. Non meno deprimente è la reazione degli esponenti – populisti e catastrofisti – del “tanto peggio, tanto meglio”. Per costoro “uscire dall’Europa” liberale e neoliberista sarebbe un bene perfino se tornassimo alle valute locali o se Marine Le Pen diventasse presidente in Francia. Costoro digeriscono poco il realismo politico e il coraggio intellettuale della posizione di Stiglitz, il quale non finge che nulla sia successo e che si possa, sic et simpliciter, tornare dentro i recinti nazionali. Al contrario, gli eventi accaduti, piacciano o meno, hanno carattere sistemico e occorre affrontarli alla loro stessa altezza, che è (almeno) europea.