operaismodi Massimo Ilardi

L’operaismo “fu essenzialmente una forma di rivoluzione culturale […]. E più che un modo di fare politica […] fu un modo di fare cultura politica.” Ma c’è un’altra premessa da mettere in campo, fondamentale quanto la prima: l’operaismo italiano “comincia con la nascita dei Quaderni rossi e finisce con la morte di Classe operaia. Punto. Questa è la tesi.” Così Mario Tronti nel 2008. 1961-1966 sono dunque i limiti temporali entro cui avviene la scoperta della classe operaia come soggetto politico. Dentro questo periodo c’è la rivolta operaia di Piazza Statuto a Torino; dopo ci sono Corso Traiano, ancora a Torino, e l’autunno caldo verso cui forse vanno spostati quei limiti a cui faceva riferimento Tronti. Non fosse altro perché la nuova edizione di Operai e capitale accresciuta con il rilevante Postscritto di problemi è del 1971.

Dopo queste date ci sarà di tutto, il post-operaismo, il neo-operaismo, lo pseudo-operaismo, l’altro-operaismo, con il “profluvio di pubblicazioni entusiastiche” che oggi invadono il mercato editoriale, come scrive Marco Gatto nel suo intervento del 16 luglio su questo sito. Ma non ci sarà più l’operaismo. Non ci sarà più quel punto di vista altro o, meglio, quella pratica teorica del punto di vista; quella rivendicazione di “essere parte” contro l’universalismo egualitario e umanitario della sinistra e non solo; quella supremazia del “ciò che è” su “ciò che è stato detto e scritto”; quel rifiuto della morale del sacrificio e della speranza; quel rivolgere sempre lo sguardo a occidente perché solo qui c’erano la classe operaia, lo sviluppo capitalistico e la grande cultura borghese; quel nesso inscindibile tra teoria e pratica che, come ci ricorda Pier Vittorio Aureli nel suo Il progetto dell’autonomia. Politica e architettura dentro il capitalismo (Quodlibet, Macerata, 2016), è l’unico modo per darci la possibilità di una critica rigorosa non solo della produzione in architettura ma anche dei modi di produzione dello spazio urbano: questi erano alcuni dei cardini del pensiero operaista capaci di produrre una lettura alta della cultura e del conflitto e che svaniranno con la sua scomparsa.

Ma rimane il fatto che qui, in questa capacità, stanno sia la sua legittimazione sia la sua eredità che va ben oltre la contingenza di quegli anni: l’aver cambiato in maniera irreversibile il modo di pensare e di osservare il mondo di una parte di quella generazione che per la prima volta si affacciava alla politica e al lavoro intellettuale e di averlo cambiato mettendo al centro di questa esperienza di formazione non il partito, dove era sempre la Storia, la sua continuità, i suoi riti che si ergevano a giudici del presente, ma la fabbrica – oggi si direbbe il territorio –, e la classe operaia con la sua insubordinazione contro il lavoro e contro il futuro. Che cosa voleva dire, infatti, assumere “il punto di vista operaio” se non l’assunzione di una conoscenza della realtà sociale nella duplice direzione di critica dell’ideologia e di analisi del presente? Fu un pensiero forte, dunque, non un movimento, come tende invece a vederlo Pier Vittorio Aureli. Certo, fu un pensiero che puntava ad essere egemone dentro il partito ma non riuscì a costituire alcuna pratica politica. Ai suoi esponenti non fu concesso un movimento di massa né fu dato loro lo scettro del principe e neanche la poltrona di suo consigliere ma, non a caso, il riconoscimento di essere “tanti piccoli cattivi maestri”.

D’altra parte, che le lotte operaie determinassero lo sviluppo capitalistico, come sostenevano i teorici dell’operaismo, non voleva dire però che quelle lotte potessero aprire un processo rivoluzionario. Né che si presentava agli operai la possibilità concreta di farsi Stato o partito. Non sono stati né l’uno né l’altro. Il forzare questi passaggi, il piegare a un uso strategico la lotta operaia andava proprio contro “ciò che è” la classe operaia. Ha ragione, dunque, Marco Gatto a scrivere che quella strategia era sbagliata e che la ricerca di una soggettività rivoluzionaria è ancora più sbagliata oggi nei termini teorizzati dal post-operaismo che ricerca ancora una volta nel lavoro il terreno dell’ “assoluta e radicale alternativa”, ma che non ci fosse allora eccedenza operaia all’interno del capitale, come lui sostiene, questo non lo condivido. Il “rifiuto del lavoro” contro l’etica del lavoro e “il salario come variabile indipendente” contro l’interesse generale erano le pratiche della sua autonomia, la sua eccedenza rispetto al capitale e alle organizzazioni politiche e sindacali che pretendevano di rappresentarla. Ma questa autonomia e questa eccedenza potevano dispiegarsi solo dentro la fabbrica. La “rude razza pagana” non ha mai fatto il salto oltre il meccanismo della rivendicazione salariale non solo perché le è mancata la forza ma soprattutto perché il suo nemico vero era il lavoro e non il capitale, o, meglio, il capitale in quanto lavoro. In quegli anni, la sua stessa fuoriuscita politica dal capitale, la sua trasformazione da forza-lavoro a classe operaia, si è dispiegata non partendo dalla sua coscienza, sempre in mano al partito e ai suoi intellettuali, ma dalla fabbrica proprio perché la sua soggettività si esprimeva nella intensità delle forme di lotta (passività, assenteismo, cortei di reparto) che nascevano all’interno del rapporto di produzione, dentro l’organizzazione della catena di montaggio. La fabbrica e solo la fabbrica era il suo terreno di lotta, la “messa in forma” operaia della organizzazione politica.

Un’ultima considerazione. Dalla città-fabbrica al territorio metropolitano: questo passaggio non sarà più in mano alla classe operaia e ai suoi teorici. Altre figure sociali cresciute nelle culture del consumo totale innescheranno la svolta. La città-fabbrica tramonta definitivamente insieme alla centralità del lavoro, alla classe operaia e alla sua rappresentanza politica dentro lo Stato. Quel ciclo, ipotizzato dall’operaismo, che partiva dalla fabbrica e si concludeva nella società ridotta a fabbrica, citato da Pier Vittorio Aureli per dimostrare che ci troviamo ancora di fronte “all’allargarsi a dismisura della città-fabbrica che mette al lavoro tutto lo spettro delle relazioni sociali e affettive”, si è interrotto invece nel punto più alto della lotta operaia. I conflitti degli anni ’70 non avranno né il lavoro né la fabbrica al centro dei loro obiettivi. Inizia il tempo delle rivolte metropolitane sul consumo.

Ma dire consumo non vuol dire anche qui rinchiudere questi nuovi soggetti dentro puri meccanismi economici. C’è tutto un lavoro teorico da fare sul rapporto molto spesso ostile, e comunque non risolto, tra mercato e società del consumo, sui conflitti che scatena, sulla crisi che produce nelle regole del sistema. È questa ancora una volta una lettura di parte, una lettura “su ciò che è”.