Sovranità limitatadi Giancarlo Scarpari

Oggi da più parti si celebrano i funerali dello Stato-nazione e sorgono lamenti circa la perdita di sovranità subita dall’Italia nel contesto dell’Unione europea. Fino a qualche anno fa queste sembravano essere questioni prevalentemente giuridiche, riservate agli specialisti, ma la crisi economica ne ha evidenziato invece tutto lo spessore  politico, viste le ricadute sociali che i vincoli imposti hanno determinato nel paese. La limitazione della sovranità dello Stato, così percepita di recente, non è però una novità di questi anni, avendo invece alle spalle una lunga storia ed essendo stata addirittura prevista dalla Costituzione

L’art. 11, infatti, non solo afferma che l’Italia «ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», ma aggiunge che «consente, in condizioni di parità con altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni». Dunque, la perdita di porzioni di sovranità era ritenuta ben possibile, ma solo in vista di superiori esigenze di pace e sicurezza, poiché i costituenti ritenevano che i benefici in tal modo conseguiti avrebbero ampiamente compensato le eventuali autolimitazioni adottate.

Non fu considerata tale, in quel contesto, la perdita di sovranità dell’Italia nei confronti dello Stato del Vaticano a seguito della stipulazione dei Patti lateranensi, visto che la maggioranza dell’Assemblea, pur non “costituzionalizzandoli”, li richiamò espressamente nel controverso secondo comma dell’art. 7, legittimando il passato e ponendo una pesante ipoteca sul futuro della Repubblica laica, dato che eventuali revisioni sarebbero dipese, in ultima analisi, dalla volontà stessa della Santa Sede. In quell’occasione, inoltre, i gesuiti di «Civiltà Cattolica» intervennero pesantemente sui lavori dell’Assemblea, preparando addirittura tre diversi articolati in materia di libertà religiosa (il primo «desiderabile», il secondo «accettabile» e il terzo «non accettabile»); su queste basi Carlo Pacelli, nipote di Pio XII, aveva redatto un appunto per Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75, nel quale rilanciava la teoria dello Stato «confessionale cattolico»[1].

Neppure questa palese interferenza da parte di emissari di uno Stato estero fu ritenuta un atto lesivo della sovranità; alla fine, anche per merito delle resistenze di De Gasperi, le tesi oltranziste del Vaticano non passarono e la vicenda, trattata in forma riservata, rimase avvolta nell’ombra; e fu presto considerata di “modesta entità”, se confrontata con la pubblica, massiccia, discesa in campo di tutte le istituzioni della Chiesa, unite nel garantire alla Dc, a distanza di pochi mesi, il successo nelle elezioni politiche del ’48.

In forma pubblica e trasparente, invece, durante le discussioni per l’approvazione dell’art. 11, si confrontarono le posizioni di chi voleva che l’Italia partecipasse anche a organizzazioni internazionali comprendenti altri Stati europei e chi invece puntava a schieramenti più ampi, “aperti” anche agli Usa[2]; gli uni avevano in mente gli Stati Uniti d’Europa teorizzati da Spinelli e Rossi; gli altri, più concretamente, alludevano all’organizzazione delle Nazioni Unite, alla quale l’Italia, quale nazione sconfitta, ancora non era stata ammessa (lo sarebbe stata solo alla fine del 1955).

Pochi peraltro, nel ’47, potevano prevedere la svolta che si sarebbe determinata due anni dopo, quando, in piena guerra fredda, il Parlamento italiano, su pressioni degli Usa e su “licenza” vaticana, dopo un’aspra e serrata discussione, decise l’ingresso dell’Italia nel Patto Atlantico e, quindi, nell’organizzazione militare della Nato, inizialmente composta da dieci paesi europei e “aperta” agli Usa e al Canada. È vero che nel preambolo dello Statuto si legge che l’alleanza era sorta per «il desiderio di vivere in pace con tutti i popoli e tutti i governi», che l’ipotesi di un’azione armata era contemplato all’art. 5 solo come un atto di legittima difesa, ma fu subito a tutti chiaro che l’organizzazione, creata a Washington nell’aprile ’49, non era “aperta” agli Usa, ma era in realtà guidata dagli americani, mirava in primo luogo a garantire la loro sicurezza (quella della «Regione dell’Atlantico settentrionale») e, politicamente, costituiva un atto di aperta ostilità nei confronti dell’Urss nel momento di maggiore tensione tra i due Stati e nell’ambito dell’ormai dichiarata “guerra fredda”. Il richiamo alla pace evidenziava come il dettato dell’art. 11 Cost. potesse essere interpretato in maniera così estensiva da stravolgerne il significato, posto che l’Italia, aderendo alla Nato, entrava in un’alleanza militare il cui fine dichiarato era quello di fare la guerra, sia pure a determinate condizioni. Inoltre il ruolo assolutamente predominante dello Stato-guida (il vero vincitore della guerra mondiale, l’unico a possedere l’arma nucleare, ecc.) escludeva qualsiasi carattere paritario dell’alleanza, altra condizione prevista dalla seconda parte dell’art. 11 Cost. per giustificare la rinuncia anche parziale dello Stato italiano alla propria sovranità.

L’adesione al Patto Atlantico, dunque, comportava non tanto un ripensamento circa il «ripudio della guerra» affermato nella prima parte di quell’articolo (che non escludeva certo l’ipotesi di una difesa armata del territorio nazionale in caso di attacco da parte di paesi terzi), quanto piuttosto la concreta possibilità di essere coinvolti in una guerra decisa da altri e per l’altrui primaria sicurezza. Tutto questo aveva poi inevitabili ricadute sulla possibilità stessa per lo Stato italiano di sviluppare una politica estera in piena autonomia, come le vicende dei decenni successivi avrebbero confermato.

Questo a livello ufficiale, poiché l’adesione a quel patto comportò in realtà ben altre limitazioni, riguardanti la politica interna e il funzionamento di delicati settori istituzionali: col fine dichiarato di «contenere il comunismo», il Servizio segreto militare (Sifar) fu ricostruito nel ’49, in concomitanza con l’adesione all’alleanza, e posto alle dirette dipendenze della Cia (per anni una copia delle informative raccolte doveva essere trasmessa immediatamente a Fort Langley); il «Piano Demagnetize», sulle modalità illegali della guerra psicologica «per la riduzione del comunismo in Italia», non doveva essere portato a conoscenza del governo «essendo evidente – per i suoi stessi autori – che esso [poteva] interferire sulla sovranità nazionale»; la costituzione di Gladio, concordata direttamente tra il Sifar e l’amministrazione americana, è stata poi taciuta al Parlamento e al paese per tutto il tempo in cui operò e la sua esistenza è emersa, e solo parzialmente, alla fine degli anni ottanta, ecc.[3]. Questo per non parlare delle note ricadute che questi patti ebbero, direttamente o indirettamente, sulle varie fasi della vita politica italiana, particolarmente sino alla metà degli anni settanta (la ricostituzione dei Servizi civili avvenuta con l’assunzione di tutti gli ex dirigenti dell’Ovra, alla fine degli anni quaranta, i ripetuti interventi negli affari interni del paese dell’ambasciatrice Luce negli anni cinquanta, la strategia della tensione nel decennio successivo e oltre); tanto era evidente il carattere determinante di questo condizionamento, che persino Berlinguer, intendendo accedere al governo della Repubblica, nel giugno ’76 ritenne «di poter procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento (!)» rimanendo sotto l’ombrello della Nato[4].

Più complessa e articolata – anche se inevitabilmente intrecciata alla precedente – fu l’adesione dell’Italia alle organizzazioni comunitarie europee, questa sì avvenuta inizialmente in condizioni di parità, secondo le indicazioni costituzionali. Davanti alle pressioni degli Usa di procedere velocemente al riarmo della Germania, la Francia, con Schuman, nel 1950, aveva lanciato la proposta di una «pacificazione» con i tedeschi attraverso la costituzione di una «Comunità», allargata anche all’Italia e al Benelux, per regolamentare il mercato carbosiderurgico (ritenuto essenziale in vista della ricostruzione), facendosi così promotore della Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio); e questa fu la prima organizzazione sovranazionale, composta da un Commissario, da un’Assemblea, da un Consiglio dei ministri e da una Corte di giustizia. Quasi contemporaneamente, il presidente del Consiglio francese, René Pleven, per rispondere in qualche modo alle richieste Usa, si era fatto promotore di un progetto che avrebbe consentito sì un iniziale riarmo della Germania, ma anche la creazione di un esercito comune europeo, in cui far confluire le forze militari dei vari Stati membri, nell’ambito di un’organizzazione (la Ced, Comunità europea di difesa), strutturata in parte sulla falsariga della Ceca. Il governo di De Gasperi aveva allora inviato un memorandum nel quale aveva prospettato, in un contesto federativo, anche la creazione di un’Assemblea eletta a suffragio universale dotata di ampi poteri, in grado di controllare politicamente il Commissario nominato[5]. La proposta, inizialmente appoggiata dai cattolici Schuman e Adenauer – che con De Gasperi pensavano forse di imprimere un’impronta cristiana alla futura Europa unita – si arenò ben presto, poiché francesi e inglesi, impegnati nei loro imperi coloniali, si dimostrarono restii a rinunciare a un esercito proprio e poiché gli americani con Dulles avvertirono che il problema urgente era quello di riarmare la Germania e di associarla all’Occidente: nel ’54 il trattato fu bocciato, il 5 maggio 1955 la Germania, riarmata, entrò nella Nato e una settimana dopo l’Urss riunì i paesi dell’Est nel Patto di Varsavia.

Svanita l’ipotesi di un’Europa federale e politicamente unita, alcuni paesi, tra cui l’Italia, si accordarono per un’integrazione basata su di un “mercato comune”, che, da un’iniziale unione doganale, avrebbe portato, per tappe successive, alla creazione di una comunità sovranazionale, caratterizzata dalla eliminazione di ogni barriera alla circolazione interna delle persone, dei servizi e dei capitali, sì da garantire lo sviluppo di un’economia improntata alla libera concorrenza. Il Trattato di Roma del ’57, costitutivo dell’Unione europea, aveva assunto, sotto l’impulso della Germania federale, una chiara impronta liberista, ma negli anni sessanta in Italia ancora si parlava di piani e di programmazione economica; un ceto politico, comunque poco previdente, ne seguì la crescita con distacco, inviando a Bruxelles parlamentari e negoziatori spesso di modesto livello (Ginsborg ricorda il caso dello sconosciuto Scarascia Mugnozza, candidato dall’Italia per l’importante carica di presidente della Commissione europea e subito scartato per manifesta inadeguatezza[6]); presto il paese si caratterizzò per l’incapacità di spendere i fondi assegnati, per le numerose frodi commesse, per gli annosi ritardi con cui applicava le decisioni europee.

Ma accadde anche altro. Governo e opposizione, per anni, agirono come se la rete di direttive, regolamenti e sentenze delle Corti europee non comportasse per il paese una serie di obblighi che prima o poi avrebbero dovuto essere osservati, quasi non accorgendosi del mutamento in atto: creare le leggi non era più prerogativa esclusiva dello Stato nazionale, alle fonti tradizionali si aggiungevano ora quelle comunitarie e queste addirittura potevano prevalere sulle normative italiane; e se queste, nel ’75, già potevano essere dichiarate illegittime dal giudice costituzionale se ritenute in contrasto con un regolamento comunitario, dieci anni dopo l’evoluzione giurisprudenziale stabiliva che anche un giudice ordinario poteva, in quei casi, disapplicarle. Proprio il dimenticato art.11 Cost. consentiva questa cessione di sovranità, con l’unico limite che il diritto comunitario non poteva prevalere sui “principi fondamentali” della Costituzione[7].

Così, sino alla svolta degli anni novanta: la caduta dei “muri”, la dissoluzione dell’Urss, la fine del comunismo reale in Europa, la riunificazione della Germania segnarono in modo indelebile il mutamento d’epoca, dando luogo a un decennio particolarmente travagliato. Gli Usa avevano vinto una battaglia durata mezzo secolo, erano rimasti l’unica superpotenza militare e la subalternità delle Nazioni Unite alla politica americana era ormai un dato di fatto, come la prima guerra del Golfo avrebbe da subito confermato. Quanto alla Nato, l’alleanza era diventata subito operativa, portando per la prima volta la guerra nel cuore stesso dell’Europa, quando, sfruttando i nazionalismi delle varie repubbliche jugoslave, aveva costretto alla resa la Serbia, ultimo residuo storico del comunismo in via di estinzione.

Ebbene, in entrambe le guerre l’Italia si è trovata coinvolta, soprattutto in quest’ultima, essendo diventata la base di partenza per gli attacchi aerei condotti, anche col lancio di bombe “all’uranio impoverito”, contro i serbi; e si è trattato di un’aggressione militare condotta al di fuori di qualsiasi mandato Onu e senza che sussistesse alcuna ipotesi di “legittima difesa”[8]. Logicamente, malgrado le acrobazie semantiche usate per aggirare l’art. 78 Cost. – operazione di polizia internazionale nel primo caso, intervento umanitario nel secondo – si è trattato di veri e propri atti di guerra, decisi soprattutto da altri e poi formalmente accettati dal governo e dallo Stato italiano: la lettera e lo spirito dell’art. 11 della Costituzione sono stati in tal modo violentemente cancellati.

Ma non è tutto. La Nato, dopo il dissolvimento dell’«Impero del Male» e l’esito delle guerre jugoslave, non aveva più davanti a sé lo storico nemico che aveva giustificato la sua costituzione; tuttavia non si sciolse, rivelandosi ora in modo esplicito lo strumento voluto dagli Usa per vincolare l’Europa alle sue scelte (ai suoi interessi e ai suoi valori, il liberismo soprattutto); e venne anzi rilanciata in occasione del cinquantesimo anniversario della costituzione del Patto Atlantico: nell’aprile del ’99, infatti, a Washington, gli Usa ridefinivano il «concetto strategico dell’Alleanza», che da strumento di difesa, diventava ora il mezzo privilegiato per affrontare «azioni terroristiche», nonché i rischi derivanti «dall’interruzione del flusso di risorse vitali» e quelli determinati dai «movimenti incontrollati di masse umane […] come conseguenze di conflitti armati»[9].

Mutava quindi la strategia e con essa la natura stessa dell’alleanza, che, nel mondo globalizzato, si dichiarava pronta a intervenire dovunque. Si è trattato di una svolta epocale, poiché indicando i nuovi compiti della Nato, gli Usa ridefinivano al tempo stesso la nozione della guerra, non più condotta tra Stati entro uno spazio predefinito, ma divenuta ora un conflitto asimmetrico, senza esclusione di colpi e senza confini, praticata dagli alleati contro un nemico sfuggente, volta a volta uno Stato «canaglia», un gruppo terrorista, un capo islamico (etichette applicabili a questo o a quello a seconda delle circostanze – e delle opportunità – come la vicenda dell’Iran ha ben evidenziato); a questa “teoria”, annunciata due anni prima dell’attacco alle Torri gemelle, sarebbe seguita, nel 2002, la proclamazione della «dottrina Bush», che contro il terrorismo lanciava la «guerra preventiva», un concetto dalle implicazioni pratiche in parte imprevedibili, ma sicuramente devastanti, ovviamente incompatibile con qualsiasi principio del diritto internazionale e che, dopo Norimberga, si riteneva sepolto una volta per sempre.

Questa svolta epocale e la conseguente adesione dell’Italia a questa nuova Nato non hanno comportato alcun confronto parlamentare, nessuna discussione sui media, nessuna riflessione sulle conseguenze che ne potevano derivare per il paese: un’acritica fedeltà e l’essere comunque dalla parte del “più forte” hanno fatto velo su ogni altra considerazione; giorno dopo giorno i governi italiani, di destra e di centrosinistra, hanno accettato tutto questo, partecipando, ove richiesti dall’unilateralismo americano, alle varie guerre promosse negli anni duemila; ma hanno accettato anche di aumentare le spese militari, di acquistare decine e decine di aerei costosissimi, ma dalla resa incerta, di conformare ogni atto di politica estera ai desiderata di oltre Atlantico, qualunque fosse il presidente volta a volta in carica in quel paese: l’ultimo esempio di tale sistematica subordinazione, e cioè della totale rinuncia a esercitare ormai la sovranità in questo campo, la si è avuta quando due governi (Berlusconi e Prodi), la Corte costituzionale e due presidenti della Repubblica (Napolitano e Mattarella, questi ultimi su espressa “richiesta” di Obama) hanno prima bloccato il processo penale promosso dalla magistratura milanese nei confronti dei sequestratori di Abu Omar (consegnato poi dagli uomini della Cia ai Servizi egiziani perché fosse torturato, una prassi, come visto anche in questi giorni, da decenni in vigore in quel paese) e ne hanno vanificato gli esiti, poi, opponendo il segreto di Stato in favore degli imputati italiani dei Servizi e concedendo la grazia a tre agenti della Cia definitivamente condannati dal Tribunale: questa volta, per far prevalere le ragioni dell’Alleanza, le più alte cariche dello Stato sono intervenute anche a costo di creare una grave lacerazione all’interno delle stesse istituzioni[10].

Dalla Nato alla Ue: anche l’Europa, dopo la caduta dei “muri”, è stata attraversata e trasformata dal vento liberista, anticipato dalla Tatcher, ma poi fatto proprio anche dalle “opposizioni” laburista (Blair) e socialdemocratica (Schroeder). Così, anche l’Unione europea, guidata dalla Germania ma con un “motore franco-tedesco”, ha impresso all’alleanza una svolta strategica, gettando, nel 1992, col Trattato di Maastricht, le basi per l’istituzione della Bce e della moneta unica, indicando le ferree condizioni che ogni Stato doveva rispettare per accedervi.

Questi “paletti” sono diventati da allora il “vincolo esterno”, un feticcio invocato da governi incapaci per loro conto di trovare maggioranze in parlamento per avviare qualsiasi tipo di riforma strutturale del paese; e proprio questo vincolo, richiamato solo a parole dal governo Berlusconi, sarebbe poi stato la leva utilizzata dal governo dell’Ulivo per imporre sacrifici e per consentire all’Italia di entrare nell’Europa dell’euro nel 1999. La soddisfazione per poter avere in tal modo l’inflazione sotto controllo – era ancora fresco il ricordo dell’assalto speculativo sferrato nel 1992 contro la lira – fecero passare sotto silenzio non la limitazione, ma la vera, ulteriore, cessione di sovranità decisa con l’adesione all’Unione europea della moneta unica: la Banca d’Italia non poteva più creare denaro, questa funzione era riservata alla Bce, che poteva, all’occorrenza, prestarlo alle banche, ma non ai governi nazionali; e questi erano costretti perciò a rivolgersi a enti privati, cioè alle citate banche, per ottenere il denaro necessario, al tasso, peraltro, “imposto dai mercati”[11].

Questa subordinazione dei governi alla “mano invisibile” del capitale finanziario – in realtà ben rappresentato dalla Comunità europea, dalla Bce, dal Fmi – è stata sottaciuta o, peggio, ignorata, nei periodi di “crescita”, quando si sono sottolineati gli aspetti virtuosi del vincolo esterno, ma si è palesata in tutta la sua drammaticità quando invece è subentrata la crisi economica: gli stessi enti internazionali o sovranazionali, che con la loro fede acritica nei “mercati” avevano dato origine alla recessione del 2008, successivamente e con colpevole ritardo, ne hanno scaricato gli esiti sui governi nazionali, cui sono stati “richiesti”interventi vessatori nei confronti dei rispettivi cittadini: nel marzo del 2011, in sede di Consiglio europeo, l’Italia di Berlusconi e Tremonti ha accettato l’Euro Plus, un patto che chiedeva, nella sostanza, di eliminare i contratti nazionali di lavoro, di rivedere il “carico pensionistico”, di promuovere la flex security: con soddisfazione dei mandanti, scartati per inadeguatezza i primi firmatari, altri esecutori avrebbero progressivamente onorato il patto (le pensioni col duo Monti-Fornero, la riforma del mercato del lavoro con Renzi e Ichino, ecc.), lasciando profitti insperati a certe ristrette fasce sociali (gli imprenditori ora possono licenziare i neoassunti nei primi tre anni, guadagnandoci anche!) e ferite profonde in ben più ampie fasce sociali di lavoratori, di precari, di giovani alla ricerca, soprattutto al Sud, di un’occupazione per i più introvabile.

Per i governi obbedienti, sorrisi e benevoli commenti (purché insistano per la strada intrapresa); per coloro che intendono “resistere” (la Grecia di Tsipras, unico esempio) avvertimenti minacciosi, interferenze plateali alle scadenze elettorali, finanziamenti truffaldini (dei 237 miliardi prestati alla Grecia negli anni 2010 e 2012, solo l’11% è finito in realtà ad Atene, il resto è stato impiegato per sanare i debiti con le banche straniere, francesi e tedesche, soprattutto); e dalle carte di Wikileaks si sono poi di recente apprese le modalità con cui la Troika conduce questi negoziati, visto che il Fmi attende il rischio di default dell’interlocutore prima di “discutere” della richiesta riduzione del debito alla Grecia, pur data per scontata sin dall’estate scorsa[12].

La vera natura della Ue si è quindi palesata appieno al momento della crisi economica che ha colpito in modo diverso i vari paesi membri, evidenziando impietosamente le gerarchie esistenti. La Comunità, che non è mai stata un’unione politica (persino l’Alto rappresentante per gli affari esteri non esprime posizioni autonome, ma si limita a interpretare e  tradurre valutazioni e orientamenti della Nato in materia), che non è riuscita a darsi una costituzione (un progetto, che a stento poteva dirsi tale, è comunque naufragato nel 2009, dopo anni di controversa gestazione), si è rivelata dunque una mera costruzione giuridica, in grado però di incidere sulle legislazioni nazionali e di imporre scelte economiche al di fuori di ogni procedura democratica.

Gli obblighi derivanti dalla partecipazione dell’Italia alla Nato e alla Ue, inoltre, non solo hanno eroso la sua sovranità in alcune funzioni essenziali (battere moneta e decidere sulla guerra costuiscono i pilastri su cui poggia la sovranità dello Stato moderno), ma hanno progressivamente  avvolto le istituzioni in una rete di condizionamenti e di divieti che segnano gli spazi politici entro cui possono muoversi governo, parlamento e persino, l’abbiamo visto, il presidente della Repubblica. A questo si è giunti sia per le scelte di fondo attuate da governo e parlamento negli anni del dopoguerra, sia per decisioni assunte successivamente, nella Prima e nella Seconda repubblica, da parte di maggioranze anche di diverso colore, scelte legate tra loro nel tempo, motivate spesso ideologicamente, spesso non  valutate nelle loro implicazioni e conseguenze.

Accettando così questi vincoli, talvolta invocandoli, ma senza mai cercare veramente di modificarli, la corposa e variegata sinistra di un tempo si è sgretolata, assottigliata, si è persa per strada; rimasta priva di concreti progetti alternativi, ha dialogato col liberismo imperante, cercando improbabili sintesi con la tradizione socialdemocratica e così ha scambiato rivoluzioni passive – quella di Blair soprattutto – per fantomatiche e imitabili “terze vie”. E oggi, gli stanchi e ormai irriconoscibili epigoni di quella storia novecentesca, giunti al governo, si agitano negli spazi cui la politica europea li ha ristretti e, rinunciando a programmare un futuro per il paese, si limitano a elaborare con un ex dirigente del Fmi, opportunamente nominato ministro, un documento di economia e finanza, che dovrà essere attentamente valutato e approvato dalla Commissione europea. Se non dovesse andar bene, sarà modificato; in cambio, forse, potrà essere concessa una maggiore flessibilità di spesa.

[1] La minuziosa ricostruzione della vicenda è in Giovanni Sale, Il Vaticano e la Costituzione, Milano, Jaka Book, 2008, p. 148 ss.

[2] Cfr. V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, La Costituzione della Repubblica Italiana illustrata coi lavori preparatori, Roma, Colombo, 1949, pp. 41-43.

[3] Su tutto questo cfr. G. De Lutiis, Storia di servizi segreti in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 46-49 e 63.

[4] Cfr. G. Pansa, Berlinguer conta “anche” sulla Nato per mantenere l’autonomia da Mosca, in «Corriere della sera», 15.6.1976.

[5] Cfr. E. Di Nolfo, Storia delle Relazioni internazionali 1918-1996, Bari, Laterza, 20023, pp. 789-790.

[6] P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente 1980-96,Torino, Einaudi, 1998, p. 453.

[7] M. Luciani, La crisi del diritto nazionale, in «Storia d’Italia, Annali n. 14, Legge, Diritto, Giustizia», a cura di L. Violante, Torino, Einaudi, 1998, p. 1023 ss.

[8] E. Di Nolfo, op. cit., p. 1376.

[9] Ivi, p. 1385 ss.

[10] La vicenda della cattura di Abu Omar e del processo di primo grado promosso nei confronti dei sui sequestratori si può leggere in A. Spataro, Ne valeva la pena, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 356 ss., nonché pp. 536-564. Spataro è stato il P.M. che ha condotto le indagini e che ha sostenuto l’accusa nel processo. In data 23.02.2016 la Corte di giustizia di Strasburgo ha condannato l’Italia per aver consentito che Abu Omar fosse catturato e torturato e per aver fatto uso improprio del segreto di Stato.

[11] L. Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Torino, Einaudi, 2013, p. 188 ss.

[12] Cfr. E. Livini, Wikileaks mette nei guai l’FMI. «In Grecia serve un altro default», in «la Repubblica», 03.04.2016.