In questa nota discuto l’ultimo libro di Paolo Flores d’Arcais1. Non mi propongo di affrontare tutte le articolazioni del volume. In particolare, desidero trascurare le numerose e condivisibili pagine in cui l’autore svolge un’acuta schermaglia polemica contro i democratici dell’autocensura, gli illiberali neorazzisti e i religiosi oscurantisti di ogni risma. Voglio invece concentrami sull’idea teorica che il volume comunica ed elabora: una sinistra all’altezza dei tempi deve essere laica, egualitaria e libertaria; in una formula, deve propugnare l’isocrazia quale eguale sovranità dei cittadini. La sinistra abdica quando si rassegna allo svuotamento (anzitutto, mercatistico-finanziario) delle democrazie. Il suo fallimento favorisce, assieme alla delusione di molti, l’egemonia d’idee premoderne, tra le quali spiccano la presenza di autorità tradizionali e religiose nella sfera pubblica, la soggezione della vita collettiva a un ordine sacro trascendente che occorre rispettare e preservare, la rigida e intrinsecamente violenta opposizione tra Bene e Male. Secondo Flores, ciò che nell’informazione ufficiale è presentato come scontro tra Occidente e Islam, civiltà pacifica e terrorismo, residenti e migranti, libertà individuale e fanatismo, Noi e Loro, è in effetti lo scontro tra chi (in ogni parte del pianeta) desidera vivere in una comunità politica che riprenda e approfondisca i valori illuministi dell’autonomia, e coloro che di quella forma di società sono nemici irriducibili. Sul terreno politico-culturale, oggi la distinzione tra regresso e progresso, tra destra e sinistra, passa principalmente lungo questa linea.
Tenterò, con estrema brevità, di esaminare questa tesi teorica di Flores. Procederò in due tappe: prima introdurrò una mia definizione del laico e del religioso, confrontandola con quella di Flores, per poi avanzare alcune considerazioni, ancora in dialogo con Flores, sulle ragioni dell’inadeguatezza politica della sinistra e sui possibili rimedi. Forse il lettore potrà sentirsi sballottato tra differenti livelli di ragionamento: da quello rarefatto che parla dell’Altro/Alto, a quello immanente e addirittura contingente nel quale si soppesa il destino di una “parte politica”. La mia speranza è che, giunto in fondo, il lettore si accorga che l’intero percorso è stato necessario.
La secolarizzazione è il processo di progressiva autonomia delle istituzioni politico-sociali e della vita culturale dal controllo e/o dall’influenza delle religioni e delle chiese. Essa non coincide con il disincantamento del mondo, quale processo di progressiva scomparsa della dimensione magica e religiosa dalla realtà sociale. La mia tesi suggerisce che mentre la secolarizzazione è tendenzialmente ineluttabile, il disincantamento non lo è. Come osserva Peter Berger, nella modernità l’essere umano è, per la prima volta, calato in una situazione di pluralismo istituzionale che moltiplica le possibilità di scelta, ma anche i possibili modi di pensare sul mondo. Ciò significa che l’individuo moderno si trova davanti non già l’opportunità, ma anche la necessità, di operare delle scelte; e che queste scelte riguardano altrettanto i suoi stili di consumo, quanto le sue credenze religiose. Malgrado ricorrenti movimenti di contro-secolarizzazione, la forza corrosiva del pluralismo è, alla lunga, incontenibile: in ogni società nella quale le donne e gli uomini hanno potuto allargare lo spettro delle loro scelte sui comportamenti e sulle credenze, l’autorità di tutte le tradizioni culturali, inclusa quella religiosa, tende a essere screditata2.
Flores esamina criticamente, con buone ragioni, la posizione di Marcel Gauchet, secondo cui la secolarizzazione procede dal connubio storico, reciprocamente rafforzantesi, di scienza e tecnologia, mercati e finanza, Stati nazionali e capitalismo globalizzato3. La posizione di Berger cui aderisco individua, piuttosto, nel pluralismo istituzionale e dei luoghi di potere, ossia nella poliarchia, il connotato decisivo della secolarizzazione; ed è questo un connotato che, per importazione o per emulazione, si sta espandendo in ogni parte del globo. Una società che si articola poliarchicamente mette in moto processi in definitiva irreversibili: il migliore esempio è il cambiamento epocale della posizione delle donne. Occorrerebbe un’immaginaria Apocalisse, intesa come catastrofe che annulli i principali meccanismi di riproduzione istituzionale, per restaurare la soggezione premoderna delle donne. Nessun processo storico reale può, in un contesto pluralistico, comandare su “metà del cielo”.
La prima parte della tesi quindi afferma che dove esiste e persiste il pluralismo istituzionale, tendenzialmente la secolarizzazione ne segue. Passiamo alla seconda parte della tesi: la debolezza del disincantamento. Come scrive Martin Riesebrodt, «possiamo notare tendenze così verso il disincantamento, come verso il (re)incantamento del mondo. I due processi non sono, ovviamente, alternativi, bensì simultanei e anche reciprocamente determinati. Per molte persone, il pensiero scientifico e quello religioso operano su diversi livelli, che non sono essenzialmente in competizione tra loro. Molti credono nell’evoluzione del genere umano e anche in un Dio creatore; si fidano del proprio medico, ma prendono ulteriori precauzioni pregando o accendendo una candela; possono credere che l’esistenza umana sia priva di senso, ma quando soffrono per una disgrazia sollevano il problema della teodicea»4. In breve, l’epoca moderna è costitutivamente eretica, laica e secolarizzata; ma non è necessariamente disincantata, razionalista e a-religiosa5.
Come stanno assieme, e che conseguenze provocano, una secolarizzazione forte e un disincantamento debole? Tra gli intellettuali atei più autorevoli è in corso un acceso dibattito al riguardo, che oppone autori come Daniel Dennett e Richard Dawkins a studiosi come Philip Kitcher e Richard Rorty. Secondo Dennett e Dawkins le religioni poggiano su dottrine: sistemi di proposizioni intorno a entità, eventi e processi sovrannaturali, ai quali il devoto crede e invocando i quali agisce nel mondo. Come dottrine, le religioni sono illusioni o incantesimi che derivano da fallimenti cognitivi e possono venire eliminate da razionalità e scienza6. Secondo Kitcher, piuttosto, le religioni possono diventare, e non di rado sono già diventate, sistemi di pratiche e di obblighi, che interpretano le dottrine per il loro significato allegorico e metaforico, anziché quali precetti da seguire letteralmente nelle scelte quotidiane. La cartina al tornasole del cambiamento si ha quando costatiamo che non sono più le religioni a stabilire l’etica personale, bensì che l’etica soggettiva si definisce indipendentemente dalle religioni, ricorrendo alla trascendenza soltanto per cercare una fonte e una giustificazione ai propri comportamenti7. La religione può insomma essere un “orientamento” che contribuisce a identificare e valorizzare determinati scopi, senza tuttavia includere credenze falsificabili e senza vincolare/sanzionare tassativamente le decisioni personali. A parere di Kitcher, un ateismo pragmatico, ovvero un umanesimo secolarizzato, dovrebbe collaborare con le versioni non dottrinarie delle religioni8.
Questa posizione è portata alle estreme conseguenze da Richard Rorty, secondo il quale “ateismo” è ormai un semplice sinonimo di “anticlericalismo”: le istituzioni ecclesiastiche – malgrado il conforto che possono arrecare a chi è solo, disperato o bisognoso – sono pericolose per la salute delle società democratiche9. La religione è compatibile con la democrazia finché rimane fuori dalla sfera pubblica. Quando invece tenta di radunare i fedeli dietro proposte politiche, pone i democratici davanti a un noto paradosso: «Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti, e la tolleranza con essi»10. In breve, Kitcher e Rorty sostengono che una religione quale “orientamento” valoriale privato è innocua e neutra nei riguardi della politica.
Da parte sua Flores sostiene, con persuasivo vigore, che l’essenza della religione in quanto tale (ossia, lasciata priva di briglia) è il fondamentalismo, inteso come pretesa di dominare, con un nomos trascendente, l’esistenza umana collettiva e individuale11. Tuttavia, «è piuttosto evidente come ebraismo, cristianesimo e islamismo non stiano sullo stesso piano rispetto alla modernità e alla democrazia»12, poiché i primi due sono stati, in ampia misura e malgrado insistiti rigurgiti reazionari, addomesticati dalla secolarizzazione. Lo stesso Islam, oggi in larga prevalenza oscurantista, potrebbe scendere a patti con il pluralismo, poiché «le religioni possono evolvere in tutto e nel contrario di tutto»13. Pertanto, sotto le polemiche di attualità, che lo portano a enfatizzare fatti drammatici e interpretazioni pessimistiche14, Flores propugna una forma di ateismo capace di ammettere la camaleontica capacità di adattamento delle religioni nella storia, e dentro la stessa modernità. Tuttavia, nell’interpretare la natura delle religioni-camaleonti, Flores (se ben lo interpreto) non condivide l’approccio Dennett-Dawkins, né quello Kitcher-Rorty. Il motivo è che entrambe le impostazioni trascurano la natura politica della religione che, essendo una mentalità collettiva che si riproduce mediante pratiche rituali condivise, non è confutabile sul piano della logica, come lo è per esempio la teoria astronomica tolemaica, né può mai diventare, restando religione, un fenomeno privato del singolo individuo, come lo è per esempio, quando leggo un fumetto, la mia credenza nelle gesta di Spiderman15.
Pertanto, seguendo Flores, è il significato politico della religione che va approfondito. Come ho brevemente argomentato, la situazione storica in cui siamo immersi vede la presenza simultanea di una secolarizzazione robusta – che alla lunga svuota, o almeno contrasta e attenua, il fondamentalismo di tutte le religioni – e di un disincantamento debole. Il secondo aspetto – la perdurante influenza del magico e del religioso nella nostra cultura – ci ricorda che siamo impastati di credenze. Non bastano la razionalità e la scienza per governare le nostre azioni. Davanti a scelte difficili, incerte e complesse, i canoni (in senso lato, illuministici) del vaglio critico e del bilanciamento di costi e benefici, fanno sistematicamente cilecca16. Ricorriamo ad altri criteri, che poggiano sulla nostra peculiare capacità di rappresentare stati mentali e mondi alternativi. Quest’abilità alimenta così la poesia come la scienza, così la religione come la fantasia dei fumetti. Ma che cosa distingue una divinità da un supereroe della Marvel? «La gente sa o presume che le finzioni pubbliche (romanzi, film, cartoni animati, e così via) sono state create da persone specifiche che hanno avuto intenzioni particolari per farlo. I credenti di una religione, piuttosto, assumono che le esternazioni e i testi dottrinari siano senza autore, senza tempo e veri»17. Mentre Spiderman è stato inventato da Stan Lee, Zeus è stato l’espressione spontanea (non deliberata da alcuno) di un’intera cultura sociale. In entrambi i casi siamo alle prese con credenze implausibili, se non fattualmente impossibili; ma credere che il primo voli da un grattacielo all’altro lanciando ragnatele, è diverso dal credere che il secondo viva sull’Olimpo, stupri le ragazze che lo arrapano e scagli tuoni quando si arrabbia. La religione è parte decisiva della mentalità di un gruppo sociale, non nutre le fantasie individuali ma l’immaginario collettivo, ed è intrinsecamente pubblica, poiché istituzionalizza le proprie credenze mediante pratiche rituali. La religione, quale manifestazione di credenze culturalmente prodotte e ritualmente riprodotte, a differenza dell’invenzione di Spiderman da parte di Stan Lee, è sempre un fenomeno pubblico e quindi politico. A meno di ridurre la religione a caricatura18, quando una persona aderisce a un credo religioso, effettua un gesto (anche) politico. Non basta dunque il sacrosanto anticlericalismo di Rorty, poiché i contenuti della mentalità religiosa e le pratiche connesse non sono ininfluenti per la qualità del consesso civile, perfino quando essa si ritrae dall’ambito pubblico.
Il tipo di credenza e di pratiche proprie delle religioni è di formidabile importanza politica, e non può essere lasciato soltanto ai religiosi. All’interno di una democrazia che sia vitalmente conflittuale19, occorre opporre alle religioni delle credenze e delle pratiche laiche non disincantate, in grado di insistere sulla stessa area di significati che le religioni tentano storicamente di monopolizzare20. Rimandando ad altre occasioni la disamina di quale area di significati si tratti, mi limito qui a richiamare una caratteristica che il laicismo non disincantato dovrebbe avere: la capacità di convertire le persone. Come sostiene Edna Ullmann-Margalit, vi sono nel corso della nostra vita delle decisioni in grado di trasformare il nostro sé futuro in maniera significativa: diventare genitori, migrare verso un altro paese, combattere in guerra, innamorarsi, cambiare percorso lavorativo, sposarsi, assumere una droga, provare una forte esperienza fisica o culturale, aderire ad un’ideologia, seguire un capo carismatico, scoprire una nuova fede e altre ancora. A loro volta, queste big decisions si articolano in due categorie: quelle (A, B) e quelle (Sì, No). Le prime richiedono di selezionare tra due nuove opzioni di vita. Le seconde, piuttosto, raffigurano situazioni in cui il Sì rimanda a un’esperienza trasformativa, mentre il No evoca la continuazione dell’odierna traiettoria. I casi di conversione sono quelli (Sì, No): come Paolo sulla via di Damasco, il soggetto non sente di avere scelta e non crede che, rifiutando il No, stia perdendo qualcosa21.
Siamo al penultimo passaggio. Stan Lee inventa Spiderman a tavolino; un imam o un predicatore populista iniziano predicando a pochi conoscenti. Spiderman conquista nel tempo milioni di credenti (nel senso della nota 15), e (supponiamolo) l’imam e il predicatore coinvolgono numerosi adepti, che credono in loro e nel loro messaggio. Ebbene, cosa distingue Stan Lee dal religioso e dal predicatore, che qui stanno dallo stesso lato? Anche il più sfegatato fan di fumetti, difficilmente potrà rappresentare la propria fruizione degli album della Marvel in termini di conversione. Invece, sia il seguace di una religione, sia il membro di un movimento collettivo, possono affrontare un’esperienza trasformativa del tipo (Sì, No). Non basta: vi sono, lo abbiamo poco sopra ricordato, esperienze trasformative private; ma quelle che, per riprodursi, richiedono rituali e organizzazioni, sono intrinsecamente pubbliche. L’imam e il predicatore populista, in questo senso, sono entrambi leader politici22.
Concludo. Una sinistra, come la immagina Flores d’Arcais, non può battersi soltanto in nome di sillogismi disincantati; deve altresì impugnare nuove bandiere ideologiche, capaci di sollecitare processi di conversione nei suoi militanti. Una sinistra laica, ma non disincantata.
1 Paolo Flores d’Arcais, La guerra del sacro. Terrorismo, laicità e democrazia radicale, Milano, Cortina, 2016.
2 Si vedano, di Peter L. Berger, L’imperativo eretico (1979), Torino, Elle Di Ci, 1987; Una gloria remota. Avere fede nell’epoca del pluralismo (1992), Bologna, il Mulino, 1994.
3 Marcel Gauchet, Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione (1985), Torino, Einaudi, 1992.
4 Martin Riesebrodt, The promise of salvation. A theory of religion, Chicago, University of Chicago Press, 2010, p. 178.
5 Anche Flores sostiene che il disincantamento del mondo è inceppato, ma introduce un’accezione peculiare di questa categoria che per lui indica la tendenza verso l’isocrazia. P. Flores d’Arcais, op.cit., pp. 145-152. Per motivi che illustrerò più avanti, preferisco attenermi al significato consolidato dell’espressione.
6 Daniel C. Dennett, Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale (2006), Milano, Cortina, 2007; Richard Dawkins, L’illusione di Dio (2006), Milano, Mondadori, 2007. Questi autori appartengono al movimento dei New Atheists, che annovera anche studiosi come Sam Harris e Christopher Hitchens. Si veda Thomas Zenk, «New atheism», in Stephen Bullivant & Michael Ruse (eds.), The Oxford handbook of atheism, Oxford, Oxford University Press, 2013, pp. 213-225.
7 Philip Kitcher, Life after faith. The case for secular humanism, New Haven, Yale University Press, 2014.
8 Philip Kitcher, Militant modern atheism, «Journal of applied philosophy», 28(1), 2011, pp. 1-13.
9 Richard Rorty, «Anti-clericalism and atheism», in Mark Wrathall (ed.), Religion after metaphysics, Cambridge, Cambridge University Press, 2003, pp. 39-40.
10 Karl R. Popper, La società aperta e i suoi nemici (1945), Roma, Armando, 1973, vol. I, p. 360.
11 P. Flores d’Arcais, op.cit., pp. 118-119.
12 Ivi, p. 65.
13 Ivi, p. 66.
14 Ovviamente, i riferimenti sono alle manifestazioni terroristiche del fondamentalismo islamico.
15 Una specificità degli esseri umani sta nell’elaborare false credenze: il lettore di fumetti sa che Spiderman non esiste, eppure crede in lui. Un celebre esperimento di psicologia mette i bambini davanti a un teatrino di marionette. Il pupazzo A entra e nasconde una collana sotto il cuscino a destra, poi esce. Il pupazzo B entra, cerca la collana e, trovatala, la sposta sotto il cuscino a sinistra; poi esce. A questo punto lo sperimentatore chiede ai bambini dove il pupazzo A, quando tornerà, cercherà la collana. Di solito, fino ai cinque anni i bambini rispondono che la cercherà dove effettivamente sta (sotto il cuscino a sinistra), mentre al di sopra dei cinque anni mostrano la capacità di elaborare credenze false, e quindi rispondono indicando il cuscino a destra. Si veda Antonio Rainone, «Mindreading», in Stefano Gensini & Antonio Rainone, a cura di, La mente, Roma, Carocci, 2008, p. 437 nota. La realtà filtrata dalle credenze si stacca dal bambino. Egli sa che non è vero, ma sa pure che quella falsità influenzerà effettivamente l’altrui azione e, se vi è interdipendenza, la propria. Questa capacità umana sta alla base della credenza così in Spiderman, come in Zeus, come ancora in un leader carismatico.
16 Al riguardo, la letteratura è sterminata. Mi limito a menzionare un’elaborazione, a mio parere, particolarmente originale e profonda: Edna Ullmann-Margalit, Difficult choices: to agonize or not to agonize?, «Social research», 74(1), 2007, pp. 51-78.
17 Scott Atran, In Gods we trust. The evolutionary landscape of religion, Oxford, Oxford University Press, 2002, p. 267.
18 Come è stato consapevolmente fatto dalla Chiesa Pastafariana, da quella dello Jedi, dal Discordianesimo, dal culto dell’Invisibile Unicorno Rosa o da quello della Teiera Gigante.
19 Si veda Paolo Flores d’Arcais, Democrazia. Libertà privata e libertà in rivolta, Torino, Add editore, 2012.
20 L’esatto contrario di quello che sto sostenendo è per esempio in Sam Harris, Waking up. A guide to spirituality without religion, New York, Simon & Schuster, 2014. La preoccupazione di Harris sta nel promuovere una spiritualità laica di stampo privato e individuale, ossia apolitico.
21 Edna Ullmann-Margalit, Big decisions: opting, converting, drifting, «Royal Institute of Philosophy Supplement», 58, 2006, pp. 157-172. Sulla stessa linea, si veda Laurie A. Paul, Transformative experience, Oxford, Oxford University Press, 2014.
22 È stato Alessandro Pizzorno a tematizzare la dimensione di “conversione” della politica: «nel far politica è contenuta un’altra possibilità, quella che l’identità dei partecipanti diventi altra, che gli interessi non siano più quelli dati e calcolabili, anzi, che il calcolo degli interessi possa diventare un’operazione irrilevante a capire quello che succede. […] Il linguaggio della politica ha bisogno di prestiti. La nozione di interesse gli veniva dal linguaggio economico, quella di conversione, dal linguaggio religioso. Ma non è soltanto questione di prestiti linguistici. È la materia stessa della politica che è fatta di calcoli simili a quelli economici fino a un certo tratto; più in là, di sentimenti simili a quelli religiosi». Alessandro Pizzorno, Le radici della politica assoluta e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 13-14.