norberto bobbiodi Alfio Mastropaolo

La definizione standard

In uno dei suoi scritti più celebri, che ha fatto scuola a un’intera generazione, intitolato Il futuro della democrazia, Norberto Bobbio cercò di mettere ordine tra le tante definizioni della democrazia e si azzardò a proporne una, da lui stesso definita minima, se non minimalista. Che mettesse tutti d’accordo. Che in democrazia non è un pregio di poco conto. La democrazia, per Bobbio, è un particolare regime politico che si caratterizza per alcuni requisiti fondamentali, i quali attengono a chi governa e a come governa. Tali requisiti sono il suffragio universale, il principio di maggioranza e la competizione tra forze politiche diverse, e, di conseguenza, la libertà personale, di pensiero, di associazione.

Questa definizione di democrazia, viceversa, nulla dettava sul cosa. La democrazia è compatibile con ogni sorta di misure politiche. Ovvero non impone nessun obbligo al riguardo. Può produrre politiche egualitarie, su cui Bobbio concordava, ma non è obbligata a produrle. Lo Stato sociale è un di più, che arricchisce la democrazia, ma non la qualifica. Se poi si conducessero solo politiche ugualitarie, – Bobbio le chiama democrazia «sostanziale», a scapito della democrazia «procedurale», – la democrazia non sarebbe più democratica.

Bobbio ammetteva che una simile democrazia è poco attraente. Anzi, aggiungeva, non mantiene nemmeno le sue modestissime promesse: le oligarchie sono tenacissime, prevalgono gli interessi più forti, quelli economici innanzitutto, persistono larghissimi spazi democraticamente inaccessibili. Ma lui apparteneva alla generazione che aveva vissuto il fascismo. Il suo punto di vista si può capirlo. Non sappiamo cosa direbbe oggi, dopo che è trascorso mezzo secolo e che il suo futuro democratico è arrivato. Le democrazie sono diventate più oligarchiche, sono governate da gente che è al servizio dei potentati economici e la sfera del potere invisibile si è dilatata a dismisura. In compenso, il suffragio universale è sempre lì, si decide sempre a maggioranza e c’è pure competizione tra partiti. Non solo, ognuno è libero di dire quel che vuole (con qualche restrizione). E di vivere come vuole. Peccato che spesso non abbia i mezzi di che vivere decentemente.

Come la mettiamo allora con la democrazia? Francamente, se ci atteniamo alla definizione minima, siamo disarmati. La definizione minima è divenuta la definizione standard. Questo e non altro è democrazia. Ma quel che la democrazia produce è scoraggiante. Intanto le sue procedure si possono – democraticamente – rivolgere contro se stesse. Quindici anni or sono un pronunciamento della Corte suprema americana, un’istituzione figlia delle procedure democratiche, e che opera nel pieno rispetto delle procedure democratiche, contraddisse, a maggioranza, un risultato elettorale pasticciato e consegnò il potere a George W. Bush. Coi disastri che ne seguirono. In Italia da ultimo un parlamento eletto secondo una legge elettorale dichiarata incostituzionale ha appena stravolto la Costituzione. Perfino il capo dello Stato, che aveva a suo tempo scritto la sentenza che aveva dichiarato l’incostituzionalità di quella legge, ha appena detto che va bene in questo modo.

Non solo. Purché si rispettino le procedure, o si usino forchetta e coltello, in democrazia si può mangiare carne umana. Non è una battuta. I governi delle democrazie europee, democraticamente eletti, nel rispetto delle regole della democrazia formale, lasciano morire in mare i disperati del mondo, quando non li consegnano a bande di assassini, pubblici e privati, da essi stessi lautamente remunerati.

Tutto questo per dire che, se ci atteniamo alla definizione minima e standard, la democrazia di questi tempi non è affatto in crisi, ma è comunque mostruosa. Scoppia di salute, ma produce esiti perversi. Ai tempi di Bobbio gli esiti della democrazia potevano ritenersi dopotutto accettabili, ma ultimamente non lo sono neanche un poco. Lasciamo pure perdere i valori che la democrazia inscrive sulle sue insegne: la libertà, l’uguaglianza, la fraternità, la giustizia. I valori si possono stiracchiare in tanti modi. Ciò che non si può stiracchiare più di tanto – anche se un po’ vi si riesce – è il cosa la democrazia ci offre. Ovvero le condizioni di vita di una gran quantità, perfino la maggioranza, degli esseri umani: di quelli che abitano le società che si definiscono democratiche e di quelli che stanno fuori, che ne subiscono le politiche e che ormai le stringono d’assedio. Conviene ripeterlo: disuguaglianze e povertà sono in rapido aumento e, se metà degli elettori ormai si astiene dal voto, lo fa verosimilmente perché lo spregio, democraticamente ineccepibile, per la sua condizione e le sue opinioni da parte dei governi democratici è tale che tanto vale restarsene a casa. L’exit è una forma di dissenso ormai praticata su vastissima scala.

Una definizione impietosa

Per lungo tempo abbiamo considerato la definizione di democrazia di Bobbio – non c’è solo la sua – non solo una definizione minima, ma pure una definizione realistica. Così anche lui la riteneva. La democrazia non è il regno delle fate. Ha i piedi ben piantati in terra. O deve averceli, dato che l’ideale democratico dell’autogoverno non può non fare i conti con come sono fatti gli esseri umani e con come sono fatte le società che abitano. Potremmo, questo è vero, cambiare queste società e cambiare gli esseri umani. Ma la lezione dell’esperienza ci insegna che l’impresa è ardua e che chi ci ha provato con troppa determinazione ha combinato terribili disastri. Potremmo cambiarle almeno un poco. Qualche non trascurabile cambiamento si è pure riuscito a ottenerlo. Pensiamo alla scolarizzazione di massa. Eppure, tanto non è servito a rendere meno oligarchiche le società democratiche e meno remoto l’ideale dell’autogoverno.

Che non si debba cambiare allora la definizione della democrazia? Che quella di Bobbio, preziosa allora, sia ormai datata? Magari prendendo sul serio quella che da sempre ne danno i suoi critici conservatori: i quali si spingono oltre le procedure e, com’è noto, considerano la democrazia un’illusione, o una trappola per gonzi. Ovvero sostengono che le oligarchie ci sono sempre state e sempre ci saranno e che le disuguaglianze appartengono al destino della specie. È scomodo dirlo e fa male sentirlo dire. Ma i conservatori hanno ragione. La democrazia è una tecnica di governo, con la quale i pochi governano i molti. Pertanto è una tecnica raffinata. È verosimile che in altri tempi e in altri luoghi se ne siano inventate di migliori. Per quanto riguarda la modernità occidentale è finora la tecnica più raffinata di tutte. È una tecnica che vuole risparmiare in coercizione e suscitare il consenso dei molti. Ai quali si offrono consistenti consolazioni, che tuttavia servono solo a governarli a costi più bassi. Ma sempre di tecnica di governo si tratta. Il punto di vista di Marx, dopotutto, non era troppo diverso. Lui era convinto che un mondo migliore fosse possibile e quindi che un altro modo di governare gli esseri umani lo si potesse inventare.

Stando ai suoi critici, il governo del popolo, da parte del popolo, dissimula il governo contro il popolo. Lo disse, con una battuta folgorante che gli è attribuita, Mark Twain: se le elezioni servissero a qualcosa, non ci permetterebbero di votare. Ecco quindi una seconda definizione: la democrazia è una tecnica per governare a basso costo esseri umani eterogenei e ordinariamente recalcitranti come quelli che abitano le differenziate e tortuose società moderne. È un modo indovinato per indorare la pillola amara del governo dei pochi sui molti.

Per ottenere questo risultato, molto deludente per chi creda ai valori di cui sopra e per gli interessi dei molti, la democrazia si è avvalsa di due formidabili invenzioni. La prima invenzione è l’attribuzione al popolo della titolarità del governo. La seconda è l’elettività dei governanti. Ovvero, una ciclica competizione, tramite le elezioni, per accedere all’oligarchia che presidia la sfera politica ed esercita le funzioni di governo.

La trappola del popolo

Sono state due invenzioni geniali. Perché mettere il popolo sul trono del sovrano, è una concessione simbolica che soddisfa molto il popolo. E perché la competizione regolata evita di ricorrere alla violenza per sostituire i governanti e per affermare i propri interessi. Se non che, come tutte le invenzioni geniali, anche queste sono gravide di controindicazioni. Alcune controindicazioni giovano all’oligarchia governante, e danneggiano i governati. Sono cioè una trappola per i secondi a beneficio dei primi. Per fortuna, le controindicazioni sono equamente distribuite. Sono anche una trappola per l’oligarchia governante e un’opportunità per i governati. Dopotutto questa ambivalenza è un pregio non secondario della democrazia. Non è perfetta, ma non è perfetta né come negazione del dominio, né come dispositivo di dominio. Proviamo a vedere in che modo.

La prima controindicazione, che è soprattutto una controindicazione per l’oligarchia, sta nel nome del popolo. Intestare il governo al popolo, significa tenerne conto in qualche modo. Il popolo democratico non può essere ignorato. Ordinariamente il popolo è sottomesso e anche facile da manipolare. Lo aveva scoperto molto tempo fa Etienne de La Boétie. Gli esseri umani sopportano, perché è difficile ribellarsi da soli. E perché ribellarsi da soli è impresa costosa e rischiosa. Per loro fortuna il mondo è pieno di imprenditori politici che non fanno che ripetere al popolo, o a pezzi di popolo, che è lui il sovrano e che merita di più. Il loro intento, va da sé, è entrare a far parte dell’oligarchia che governa. La parola con cui si indica questo modo di attrarre consenso è demagogia. Ma chi dice che la demagogia, ovvero cercare di conquistare il favore del popolo, sia sempre un danno? Tutt’altro. Vi sono pretendenti al governo che fanno demagogia mossi da nobilissimi ideali, perché vogliono un mondo più giusto, più uguale, più fraterno e che solo rinnovando l’azione di governo questi risultati sono raggiungibili.

È probabile che coloro che, al tempo della rivoluzione inglese, avevano inventato il popolo e l’avevano schierato contro il re, compiendo una mossa demagogica, non prevedevano che tale mossa si potesse ritorcere contro di loro. Avevano sbagliato i conti. Perché si sono esposti alla possibilità che qualcun altro si alzasse a parlare in nome del popolo e ottenesse ascolto e sostegno almeno da parte di un pezzo di esso. E questo è successo. Quella volta e molte altre volte ancora.

Occorre tuttavia stare attenti. C’è demagogia e demagogia. Il socialismo è stato un grande movimento che ha parlato in nome del popolo, che ha mobilitato pezzi di popolo e ottenuto per esso concessioni straordinarie, che vanno dal suffragio universale allo Stato sociale. Ma il popolo può essere mobilitato in tanti modi. Anche Hitler si levò a parlare in nome del popolo, ne ottenne il consenso e lo indusse a compiere cose terribili. È questo lo stato del mondo. Un vantaggio può divenire un inconveniente e viceversa. Intanto, la democrazia accende una competizione all’ultimo sangue per definire cos’è il popolo e per parlare in suo nome.

Ovvero: la definizione del popolo non è univoca. Il popolo lo si può definire in tanti modi. Può essere un popolo astratto, una nazione. Possono essere le classi lavoratrici, può essere la società civile, possono essere i consumatori o gli stake-holders, può anche essere ethnos. Ultimamente il concetto di popolo è soggetto a inquietanti revisioni. Perfino l’uso della parola cittadinanza si presta a manipolazioni non trascurabili. L’illustre Repubblica francese ha appena rivisto la sua Costituzione per sottrarre la cittadinanza francese a chi ne abbia un’altra e sia condannato per attività terroristica. Potremmo anche discutere sulla spontanea sensibilità democratica che si è ultimamente diffusa in seno al popolo. Di questi tempi il popolo democratico odia i governanti e odia la politica. Questo può essere utile a tenerli a bada, ma si presta, lo sappiamo, anche a inquietanti distorsioni. Che dire quando il popolo assalta i campi zingari o incendia gli asili degli immigrati?

La democrazia inventa e accende una contesa per definire il popolo e per mobilitarlo, che non è decisa in partenza. Né simbolicamente, né tantomeno giuridicamente. Il nazismo escluse dal popolo e perseguitò i non ariani. Ma nel 1912 in Italia fu introdotto il suffragio universale maschile e nel 1945 anche quello femminile. Un giorno o l’altro si potrebbe concedere il diritto di voto agli immigrati. Non è neppure detto che le riperimetrazioni del popolo, cui partecipano pure le oligarchie, siano sempre vantaggiose per il popolo. Quando Giolitti volle introdurre il suffragio universale, lo fece sapendo di poter mobilitare contro i socialisti i nuovi elettori cattolici e contadini.

Lo stesso ragionamento vale per il popolo come destinatario delle politiche. Nel 1943 il Rapporto Beveridge propose di estendere a tutto il British people la sicurezza sociale. Quarant’anni dopo, Margaret Thatcher avrebbe detto che il popolo è fatto di tax-payers e di proprietari. «La grande riforma Tory di questo secolo sta nel consentire sempre più al popolo di accedere alla proprietà. Il capitalismo popolare non è niente di meno che consentire a tutti di partecipare alla vita economica della nazione. Noi Conservatori stiamo restituendo il potere al popolo». Tanto peggio per i non proprietari, che sono sospinti ai margini del popolo.

La trappola delle elezioni

L’altra grande invenzione della democrazia sono state le elezioni. La rivoluzione inglese e quella francese decisero chi avrebbe governato tramite una terribile guerra civile. È capitato anche dopo. Ma, di norma, nei regimi rappresentativi e democratici chi governa è scelto tramite libere elezioni. Vince chi riesce pacificamente ad arruolare il maggior numero – in teoria – di elettori. L’idea è straordinaria e, dopotutto, ha avuto anche successo. Ci abbiamo messo un po’ di tempo, ma alla fine l’oligarchia che governa è scelta ovunque in questo modo. La controindicazione per i governati, o per una parte sostanziosa di essi, è che le elezioni sono partite che si giocano sempre con carte truccate. E chi distribuisce le carte e detta le regole del gioco è l’oligarchia che sta al potere. La storia d’Italia è sempre generosa di esempi deprimenti. Da ultimo: Berlusconi si riscrisse nel 2006 la legge elettorale a sua misura. Renzi ha appena fatto lo stesso. Le regole elettorali sono a disposizione dei vincitori. Quando non le cambiano è perché non gli conviene. Nessuna legge elettorale è più infame di quella inglese. Ma nessuno la cambia perché conviene sia ai Conservatori sia ai Laburisti. Gli evita il terzo incomodo.

I modi per truccare le carte sono infiniti. Non è facile elencarli tutti. Limitiamoci a quelli più recenti. E le carte possono essere più o meno truccate. Possono essere truccati per cominciare i numeri. Anzi: contro i numeri, che sono il loro mito, i regimi rappresentativi e democratici hanno paradossalmente condotto una lunghissima guerra. Il principio di maggioranza fu in origine una difesa contro l’oligarchia. Ma subito si intese che non si doveva abusare del principio di maggioranza. Che conveniva sottrargli, a tutela delle minoranze, alcuni principi e alcuni temi. Ma i numeri, oltre a sterilizzarli, si può truccarli. Le leggi elettorali maggioritarie ribattezzano maggioranze le minoranze.

Al contrario le leggi proporzionali attribuiscono al voto di tutti i cittadini il medesimo valore. Non sempre producono maggioranze parlamentari coerenti e inoltre concedono ai perdenti, e ai loro elettori, di contare qualcosa tra un’elezione e l’altra. Il che non è a tutti gradito, cosicché sono ormai diventate una rarità. Perché, si narra, non consentono la governabilità. O, a quanto pare sarebbe la gioia massima per l’elettore democratico, non permettono di conoscere la sera delle elezioni chi lo governerà l’indomani. Così, sono assai di moda leggi maggioritarie e clausole di sbarramento, tutte adottate con procedure democraticamente inappuntabili. Così, se sottraiamo la massa degli astenuti, i governi occidentali sono mediamente il prodotto di un terzo o di un quarto degli elettori. Gli altri tre quarti non contano granché, salvo che riescano a farsi valere altrimenti.

Un’altra possibilità di manipolare è quella che passa attraverso il monopolio dei media. Come si manipola pure moltissimo grazie ai finanziamenti privati delle campagne elettorali – nella democraticissima America la vera contesa è quella per accaparrarsi tali finanziamenti – oppure tramite i finanziamenti pubblici distolti dai politici corrotti. Ma si manipola anche variando a convenienza il perimetro delle circoscrizioni elettorali o le date delle consultazioni – il governo Renzi ha scelto non a caso una data molto scomoda per il referendum sulle trivellazioni dei fondali marini.

Basta riflettere e troveremo mille accorgimenti per manipolare i risultati. I sistemi elettorali maggioritari, che per dirne un’altra sul loro conto, riducono a due contendenti la competizione elettorale, invitano all’astensione coloro che non si identificano né con l’uno, né con l’altro. Inoltre, visto che i concorrenti si disputano l’elettorato intermedio, lasciano senza rappresentanza gli interessi che potrebbero entrare in collisione con quelli dell’elettorato intermedio. Ultimamente, sollecitati dai partiti cosiddetti populisti, i partiti moderati coltivano di più l’elettorato più conservatore. Ma il razzismo di questo elettorato è più compatibile con l’elettorato intermedio di quanto non lo siano le esigenze redistributive dell’elettorato popolare. Ne consegue che i partiti socialisti si muovono verso destra e si indeboliscono a sinistra. Pagando un alto prezzo anche elettorale.

In Francia e negli Stati Uniti bisogna iscriversi alle liste elettorali. Guarda caso, sono i ceti meno istruiti che faticano a iscriversi. Peraltro, questi ceti faticano ovunque a votare. Una volta i partiti li istradavano. È bastato smantellare le macchine partitiche, fatte bersaglio dappertutto di una micidiale campagna denigratoria, per lasciare a se stessi questi elettori.

Non per caso, le norme che regolano le elezioni sono anch’esse norme molto disputate. Pensiamo a quanto si è combattuto in Italia per revocare la proporzionale. Ovviamente può pure capitare che le oligarchie siano incerte. Come capitò in Italia nel 1946 quando si adottò la proporzionale. Ma non fu una generosa concessione. Fu un esito dettato dai rapporti di forza, o dalla loro incertezza. Nel 1953, quando la Dc si persuase che i rapporti di forza fossero cambiati, adottò la legge-truffa. Aveva fatto male i suoi conti. Batti e ribatti, il tentativo è riuscito nel 1992. Indossando le candide vesti della moralizzazione politica. Alla proporzionale si riuscì ad addossare la responsabilità della corruzione, della mafia, di Tangentopoli, del clientelismo assistenzialista. Che sono invece vizi intrinseci della conformazione oligarchica della democrazia. Tant’è che, rimossa la proporzionale, tali vizi si sono ulteriormente aggravati.

Qualcuno ovviamente dirà: per evitare che si giochi con carte truccate, non ci sono forse le costituzioni e i diritti fondamentali? A vedere in che pietoso stato è ridotta la Costituzione italiana, dovrebbe esser chiaro che le costituzioni sono unicamente tentativi d’irrigidire giuridicamente da parte dell’oligarchia vincente un equilibrio di potere storicamente dato e prolungarlo nel tempo. La costituzione del 1948 voleva rendere irreversibile l’antifascismo e il – modesto – comune denominatore che legava le forze politiche che la sottoscrissero, ovvero l’attenzione per il mondo del lavoro e le classi popolari. Ma già all’indomani della sua solenne promulgazione, imboccò la china dell’interpretazione, dell’applicazione, della costituzione materiale, spezzata di quando in quando dai sobbalzi dei suoi aggiustamenti, fino all’ultimo, decisamente brutale, che apertamente contraddice il testo originario. Ahimè, sono cose che capitano. Allo Statuto albertino accadde ben di peggio.

Non voglio dire che le costituzioni siano inutili. La Corte costituzionale ha bocciato l’infame legge Calderoli. Ma non ha potuto impedire la non meno infame legge Renzi-Boschi. Vedremo come si pronuncerà su di essa. A ogni modo, se non vi sono rapporti di forza e numeri che le sostengano, le costituzioni si riducono a un programma politico velleitario e inapplicato. Le corti costituzionali, d’altro canto, hanno sempre avuto natura politica più o meno esplicita. Ce lo ricordano le recenti dimissioni del ministro degli Esteri francese per andare a presiedere il Conseil costitutionnel. In Italia Renzi ha fatto carte false per mandare alla Corte un giurista amico come Augusto Barbera. In America, dove la Corte aveva una discreta reputazione di indipendenza, si è appena aperta una vertenza su quale partito debba nominare il successore del giudice Scalia, il quale, col suo voto, consegnò la presidenza a George W. Bush.

È la democrazia, bellezza. Per quanti sforzi si faccia per sottrarglieli, le costituzioni e i diritti sono in balia della lotta per il potere, che decide anche quanto contano i numeri. Tutto questo per dire che la democrazia non è altro che la continuazione della guerra con altri mezzi. Finché non cede il passo alla guerra civile, e non mi pare che ve ne siano al momento le condizioni, la democrazia sta benissimo. È chi crede in una certa accezione dei valori di libertà, uguaglianza e fraternità che ultimamente sta molto male.

Ciononostante

Consentitemi di citare ancora Bobbio per giungere alla conclusione. La democrazia, nella sua definizione standard e preminente, è una forma di governo oligarchico che possiamo definire ipocritamente amichevole. L’ipocrisia, dice Jon Elster, ha una funzione civilizzatrice e per Oscar Wilde è l’omaggio che il vizio presta alla virtù. Oltre il velo della sua ipocrisia, e della sua retorica incantata, la democrazia è una forma di dominio, solo apparentemente soft, fondata su un gioco che si gioca con carte truccate al fine di predeterminare i vincitori. Il problema che pertanto si pone a chi si intestardisce a credere, in un certo modo, nei valori di libertà, uguaglianza e fraternità è se per affermarli convenga usare le regole della democrazia standard o se gli convenga battersi altrimenti.

E qui viene la citazione di Bobbio. Il quale ammetteva che la democrazia minima è piena di difetti, ciononostante andava rispettata. Non mitizzerei il carattere pacifico della lotta politica democratica. Si può essere spietatamente violenti – e provocare enormi sofferenze – anche con mezzi pacifici. Quel che comunque la storia delle democrazie dimostra è che le partite democratiche non sono mai perse in partenza. La democrazia come forma di dominio ha dei punti deboli, ha in particolare un’intrinseca vocazione alla demagogia, e che sfruttarla è più conveniente che non tentare un altro gioco, che molto probabilmente sarebbe un gioco violento.

Anche la legge elettorale più truffaldina – come quella inglese – può produrre risultati inaspettati e anche virtuosi sul piano dell’uguaglianza. E anche contro le oligarchie più caparbie si sviluppano sfide demagogiche, dentro e fuori di esse. Certo, l’oligarchia è fatta di giocatori che giocano con tutte e due le gambe e i suoi sfidanti giocano con una gamba sola. Se però sono bravi, possono farcela. Non per sempre, perché alla lunga si integrano nell’oligarchia, ma per un po’. Le conquiste democratiche di cui tessiamo gli elogi, e di cui forse nutriamo il rimpianto, sono state compiute da giocatori con una gamba sola. I quali negli ultimi decenni, paghi delle misure dello Stato sociale e del riconoscimento dei diritti fondamentali, si sono lasciati anch’essi sedurre dall’oligarchia.

Era invece un esito provvisorio. Sta di fatto che il suffragio universale, lo Stato sociale, i diritti fondamentali e tante altre cose ancora non ce li siamo sognati. Ci sono stati, e in parte ci sono ancora, perché a volte capita che scendano in campo aspiranti al potere che – o per convinzione, o per convenienza – scommettono sull’uguaglianza, vincono e ne realizzano almeno un po’. Presto o tardi accadrà di nuovo. Ultimamente è anzi già successo. In Grecia e in Spagna sono sorte nuove forze democratiche, che hanno arruolato larghissime schiere di elettori. Il brutto è che sono state un’altra volta truccate le carte. I poteri di governo erano stati in larga parte messi al sicuro dall’oligarchia a Bruxelles, a Francoforte e a Berlino. Anche questo è un vecchio trucco: sottrarre temi alla decisione politica per consegnarli ad altri poteri, tra cui il mercato. Non è detto però che il trucco funzioni sempre.

Quel che è ancora più brutto è che a utilizzare le regole della democrazia minima per entrare nel recinto dell’oligarchia, che è oggi sempre più dipendente dal grande capitale finanziario, oggi vi sono pure forze razziste e xenofobe. Le quali giocano con successo, profittando dell’estendersi a larghissimi segmenti delle classi medie delle sofferenze che da un pezzo patiscono le classi popolari. È alle viste uno scontro durissimo.

Cosa possiamo fare noi? La prima cosa è riconoscere nella democrazia uno strumento, un dispositivo, una tecnica e provare a scoprire cosa ci interessa realmente. La democrazia ha qualche pregio di rilievo. Ma di per sé ha valore modesto. Vale in quanto ci aiuta a conseguire i risultati che ci interessano. Avendo questo ben in mente, la prima cosa da fare è far sapere che non tutti sono appagati dallo stato del mondo. E attrezzarci per giocare al meglio con una gamba sola.

Negli anni venti un grande giurista ebbe a scrivere che solo se si associano con altri gli individui hanno qualche possibilità di contare qualcosa. È un consiglio ancora valido. L’ideale sarebbe che sorgesse un partito in grado di arruolare elettori a milioni in nome di libertà, uguaglianza e fraternità e che per prima cosa cambiasse con successo il significato oggi corrente della parola popolo.

L’altro consiglio è di battersi per salvaguardare la competitività del mercato politico. Meno concorrenti ci sono, più è probabile che valori e interessi scomodi per l’oligarchia siano disattesi. La riforma Renzi promette di semplificare un’architettura costituzionale macchinosa. In realtà, è una riforma sgrammaticata, che non semplifica, ma complica e che soprattutto, di concerto con la nuova legge elettorale, vuol abbattere la competizione. Meno competizione c’è, meno possibilità ci sono che qualcuno faccia un po’ di sana demagogia per arruolare elettori in nome dei valori di cui sopra.

Una terza mossa è battersi per salvaguardare i nostri sistemi d’istruzione e informazione, che sono fortemente minacciati. Meno gli elettori sono istruiti e peggio sono informati, più sono manipolabili. Più sono istruiti e meglio sono informati, più sono in grado di resistere. Molti difficoltà che incontra il potere di questi tempi sono figlie dei progressi che si sono registrati a questo livello. Ma non è mai abbastanza. Solo l’ignoranza può indurre a credere, come in troppi credono, per limitarsi a un esempio, che gli islamici siano potenzialmente tutti terroristi. E che l’unico modo per proteggersi da loro è trasformare l’Europa in una società blindata e illiberale. Fare circolare altre informazioni rispetto a quelle che ci propinano i media sarebbe una mossa preziosa. C’è qualche motivo per supporre invece che, per difendersi, l’oligarchia che ci governa stia promuovendo a passo di carica l’ignoranza e la disinformazione di massa.

Infine, a costo di contraddirmi. La democrazia è una cosa molto modesta. L’idea e la parola democrazia mistificano, ma hanno tuttora – non sappiamo per quanto – una considerevole capacità di attrazione. Un’altra mossa consiste nello svelare la contraddizione tra quel che la democrazia promette e quel che fa: smascherare l’inganno, renderlo stridente e inaccettabile. Rendere la società inaccettabile, ha detto tempo fa un illustre sociologo francese. Rendere inaccettabile questa società, e rendere inaccettabile questa democrazia, al momento fondate sul privilegio più smaccato, anzi apertamente esibito. Profittiamo insomma dell’ambiguità della democrazia e esercitiamo la fantasia per combatterla.

A volte il nostro realismo lo è fin troppo. Le oligarchie sono tanto più proterve quanto più sono vulnerabili. Assediate dal fallimento economico, dalla sfiducia dei cittadini e da mille altre cose ancora, le attuali oligarchie sono molto proterve, ma sono anche molto vulnerabili. Tocca a noi chiedere ostinatamente alla democrazia di darci di più. La democrazia del chi decide e del come decide sarà pure la meno divisiva, ma non ci basta. Combattiamo per cosa si decide. Il cosa non sarà obbligatorio. Eppure, senza il cosa, la democrazia non ha più senso. Solo che una democrazia generosa nessuno ce la regala. Bisogna guadagnarsela. Buona democrazia a tutti noi piena di buone cose.